Repubblica 7.3.17
La sinistra che non c’è
di Ezio Mauro
PRIMA
di sapere cosa succederà nel Pd dopo la disfatta siciliana, c’è una
questione più rilevante e urgente a cui rispondere: cosa c’è di
salvabile nel concetto di sinistra e nella sua traduzione politica e
organizzativa italiana. La sinistra, o ciò che ne resta, è arrivata
esausta all’appuntamento con le urne, con tutti i nodi non sciolti in
questi anni che si sono aggrovigliati, fino a trascinarla a fondo. Il
peccato originale di sedere a Palazzo Chigi senza mai aver vinto le
elezioni ha determinato un pieno di responsabilità nella guida del Paese
(negli anni più duri della crisi) e un vuoto nel coinvolgimento
emotivo, come se quello del Pd fosse un “governo amico” e niente di più,
fino al ministero Gentiloni vissuto come un puro dispositivo tecnico
senza colore. La sciagura della scissione ha infranto il mito fondativo
del Pd come casa di tutti i riformisti, con un concorso di
irresponsabilità, gli scissionisti che la giudicavano inevitabile e
Renzi che la considerava irrilevante, come se la politica non fosse
stata inventata per governare i fenomeni. Il cozzo del referendum, con
una riforma scritta male e trasformata in una guerra.
IL PASTICCIO
della legge elettorale, con una sinistra che ha divorato il
maggioritario e il proporzionale per varare una riforma che premia le
coalizioni nel momento in cui non è mai stata così divisa e distante.
All’inizio e alla fine di tutto, il problema irrisolto che raccoglie in
sé tutti questi problemi e spiega gli errori: cos’è oggi la sinistra e
qual è la sua idea di Paese.
In tutto l’Occidente, la divisione
classica è tra la sinistra di governo, riformista, e quella di
opposizione, radicale. Da noi l’eccezione: le sinistre riformiste sono
almeno due, forse tre, anche se rischia di mancar loro il governo.
Pisapia che si era proposto come ponte o rimorchiatore sembra aver
ripiegato su un’idea di forza-cuscinetto insieme con Emma Bonino, caschi
blu con buone intenzioni e pochi strumenti d’intervento. Sul campo
restano le due parti rotte del Pd, incapaci di proporre una visione
d’insieme e un vero progetto riformista, in cui si possano ritrovare le
forze disperse che chiedono un progetto di cambiamento con una politica
responsabile, europea, occidentale e moderna, accontentandosi di molto
meno: Renzi di costruire un partito personale come macchina ubbidiente
di conquista del potere (quasi che un secolo di storia della sinistra
potesse ridursi a un obiettivo così misero) e Mdp di ostacolare tutto
questo, proponendosi come organismo di puro veto al progetto renziano,
come se la politica si esaurisse sulla piazza toscana di Rignano.
Questa
disarticolazione degli orizzonti avviene mentre la crisi inaridisce di
per sé i canali della rappresentanza, soverchia i cittadini facendoli
sentire senza tutela e senza garanzie, svalorizza la politica come
strumento di controllo e di governo, semina dubbi persino sulla
democrazia come cornice di valori e di garanzie, che oggi suonano
astratti, senza incidere sulla fatica della vita quotidiana delle
persone. È una campana d’allarme per tutto il pensiero
liberal-democratico occidentale, che dopo la fine della guerra ha dato
vita alle costituzioni e alle istituzioni con cui ci siamo garantiti
settant’anni di pace e di libertà. Ma è una campana a morto per la
sinistra che nei settant’anni dentro l’ordine liberale del nostro mondo
ha potuto farsi forza di governo del sistema, con un progetto di
inclusione, e insieme sviluppare un suo pensiero critico e
d’alternativa. Oggi invece vede l’alternativa nascere totalmente fuori
dal sistema, con i populismi che criticano la stessa democrazia e
berciano contro le istituzioni, mentre attaccano il cosmopolitismo, il
libero scambio, la libertà di circolazione, le politiche di accoglienza,
l’integrazione europea: tutto ciò che si muove, si contagia, si
mescola, s’influenza, si somma, tutto ciò che forma l’habitat naturale
della cultura progressista europea, a favore di un ritorno dentro i
confini delle vecchie carte geografiche, dentro una mentalità da
indigeni, dentro il colore bianco della pelle, a un passo dal mito del
sangue.
Era chiaro che inseguire i populismi con posture mimetiche
dal governo era una contraddizione, ma prima ancora un calcolo
sbagliato. Perché la sinistra deve chinarsi — per prima — sulle
inquietudini e sullo spaesamento democratico delle fasce più deboli
della popolazione, ma non può cavalcare le loro paure, incrementandole
come la merce politica più pregiata del momento. Rimane dunque una
retorica innaturale di populismo in camicia bianca, ammiccante ma
responsabile, alla fine velleitario, oltre che contro natura. La cifra
dell’epoca, invece, avvantaggia la destra, abituata e legittimata a
trattare il cittadino da individuo, nel suo isolamento e nelle sue
nuovissime gelosie del welfare, in questo speciale egoismo della
democrazia che chiede alla politica una forma inedita di libertà: non
come piena espressione dei propri diritti ma come liberazione da vincoli
sociali, soggezioni culturali, obblighi comunitari.
Tutto ciò
forma una moderna onda di destra che con Trump prefigura l’inondazione
prossima ventura delle terre emerse: dall’Onu, allo spazio di civiltà
atlantica, alla Nato, al rapporto storico con l’Europa, col sovranismo
che diventa isolazionista e mette al centro della politica il “forgotten
man” non per emanciparlo, ma per dargli un riconoscimento antipolitico
proprio nella sua esclusione. Una folla di esclusi come nuova massa
sociale per la ribellione permanente, guidate dalla moderna élite di
destra. Una destra contro la quale in questi anni il Pd non ha mai
alzato nessuna barriera, non ha fatto nessuna polemica, non ha costruito
un sistema culturale di anticorpi, coltivando a distanza l’eternità di
Berlusconi come avversario-stampella. Che infatti oggi ritorna a
riscuotere il banco, col conflitto d’interessi perennemente innestato,
le sentenze dei magistrati che valgono per l’incandidabilità ma non
vengono valutate politicamente, l’ambiguità connaturata nelle alleanze
che gli impedirà di governare, ma che intanto adesso lo aiuta a vincere.
Bisognerebbe
comprendere che la rottamazione è un escamotage fisico da campagna
elettorale muscolare, ma non è una politica e tantomeno un’identità. Che
il patrimonio di tradizioni e di valori del Pd è stato lasciato
deperire in nome di un mitologico nuovo inizio che non è mai davvero
incominciato, che la tensione per il cambiamento senza cambiamento si
riduce a tensione, e basta. Che in mezzo a tante narrazioni è mancato il
senso della storia, del passaggio tra le generazioni facendosi carico
di un’esperienza collettiva, da innovare certamente ma da riconoscere e
valorizzare. Che il sentimento di sinistra, a forza di non essere
convocato e rappresentato si è infine “privatizzato”, con le persone che
non votano perché la loro identità politica non corrisponde più
all’insieme. Oppure votano, ma per se stesse, come una conferma
individuale staccata dal contesto.
Così la sinistra galleggia,
alla deriva, mentre la destra galoppa, nelle sue diverse forme. Il primo
leader che coniugasse responsabilità e generosità, mettendo questo
orizzonte allarmante per il Paese al primo posto, aprirebbe la vera
discussione di cui la sinistra oggi ha bisogno, e ne ricaverebbe le
scelte necessarie. E invece con ogni probabilità si annuncerà tempesta,
poi tutto si risolverà con un temporale per la spartizione dei posti in
lista, nel bicchier d’acqua dov’è ormai ridotto il riformismo italiano.