Repubblica 3.11.17
Il viaggio di uno scrittore nelle idee di società “giusta”. Dai classici a oggi
La democrazia dei nostri sogni tra Platone e lo Stregatto
di Alberto Manguel
Qualunque
classico (qualunque dei libri che abbiamo deciso di chiamare classici)
getta luce in un modo o nell’altro sulla domanda fondamentale di
qualunque cittadino di qualunque società: come costruire una società
ragionevolmente giusta e adeguatamente felice? Indicazioni in tal senso
le troviamo in Omero, in Virgilio, nel “Don Chisciotte”, in “Cent’anni
di solitudine”. Ma forse la guida più chiara, più generosa
per me è
La Repubblica di Platone. Come tutti i dialoghi di Platone, è un
insieme di idee, sprazzi, suggerimenti, invenzioni su una gran varietà
di temi. È soprattutto, come il suo genere letterario indica, una
conversazione. Quando lo lessi per la prima volta, da adolescente,
rimasi deluso dalla sua mancanza di alterigia e prepotenza: mi aspettavo
di trovarmi di fronte a un testo arido, declamatorio, perentorio. Si
rivelò l’esatto contrario: un libro ameno, a tratti umoristico, amabile,
appassionato, un andirivieni di osservazioni, idee lasciate a metà,
giochi verbali degni più di una chiacchierata tra amici che dell’arte
oratoria. E in effetti a questo assomigliava La Repubblica, a una di
quelle interminabili nottate insonni in cui io e i miei amici, con
l’energia intellettuale e fisica che si possiedono solo a sedici
diciassette anni, discutevamo del significato del mondo, confessavamo le
nostre paure e speranze e cercavamo di trovare soluzione ai grandi
problemi politici e metafisici dell’universo, fino a quando il sonno
aveva la meglio e ci addormentavamo sul tappeto.
Questo dialogo
non ha nulla del rigore accademico che i nostri pregiudizi attribuiscono
ai filosofi classici: invece di trovare nella Repubblica un precedente
simile alle matematiche strutture retoriche di uno Spinoza o di un Kant,
il lettore sorpreso (e riconoscente) trova un lontano antenato degli
esilaranti dialoghi logici di Alice nel paese delle meraviglie. Il
Socrate di Platone ha qualcosa del Bruco (che pretende che Alice
risponda con precisione alla domanda «chi sei tu?») o allo Stregatto
(che dice ad Alice, quando lei gli chiede di indicarle la strada, che
dipende da dove vuole arrivare), mentre il lettore concorda con le
parole di Alice di fronte al Cappellaio Matto: «Mi pare che potreste
impiegar meglio il vostro tempo piuttosto che sprecarlo a fare
indovinelli senza risposta». È noto che Platone appartiene alla storia
della filosofia; tuttavia, per il lettore privo di pregiudizi, il suo
vero posto è tra i grandi creatori di personaggi letterari, Shakespeare,
Cervantes, Dostoevskij, Flaubert.
Il punto di partenza della
conversazione centrale della Repubblica è questo: «Se assistessimo
teoricamente», dice Socrate, «alla nascita di una città, vedremmo anche
nascere la giustizia e l’ingiustizia?». Dalla primordiale volontà di
condividere e aiutarsi gli uni con gli altri nasce la necessità di un
governo composto dai cittadini più intelligenti e capaci: questa
aristocrazia si converte nel governo di coloro che riscuotono rendite, a
cui succede l’oligarchia, che a sua volta degenera in democrazia –
sistema che Platone aborriva – e infine in tirannia, il peggiore di
tutti i regimi. La conclusione, che non è veramente una conclusione, è
infinitamente triste. «Ma quale delle costituzioni vigenti, secondo te, è
appropriata alla filosofia? », domanda uno degli interlocutori.
«Neanche una», risponde Socrate. Forse una delle ragioni per cui La
Repubblica è uno dei testi che godono di immortalità intellettuale sta
nel fatto che non offre risposte e non propone soluzioni, ma mette a
nudo i nostri dubbi e le nostre angosce di fondo. Ogni lettore della
Repubblica finisce per essere uno dei suoi interlocutori. Anch’io.
Nell’arco di oltre cinquant’anni, ho vissuto in mezza dozzina di
società. Prima in un’Atlantide inventata partendo da terre confiscate
(Israele), poi in una sequela di dittature militari (l’Argentina), più
tardi in un’aristocrazia che promuove la separazione delle classi
(l’Inghilterra), dopo di che in una colonia mascherata da territorio di
oltremare (Tahiti), più tardi ancora, negli anni ‘80, in una fugace
democrazia (il Canada), e oggi di nuovo in Argentina, un Paese che
ancora sta cercando se stesso. A queste potrei aggiungere numerose
microsocietà di cui ho fatto parte, microcosmi in cui si stabiliscono
regole di convivenza: club, cenacoli, campeggi, collettività etniche e
filosofiche, circoli intellettuali e cenacoli artistici. Molte altre non
le conosco: le tribù indigene della foresta, le società tribali del
deserto, i popoli nomadi, le famiglie poligame (poliginiche, come i
mormoni, o poliandriche, come i tibetani), i comunismi, gli ordini
religiosi. Sospetto che, come le società che ho conosciuto, nessuna di
queste ultime sia perfetta.
Di fronte alle domande aperte che La
Repubblica lascia ai suoi lettori, quali abbozzi di risposte possiamo
offrire? Se qualsiasi forma di governo è in qualche modo nefasta, se
nessuna società può vantarsi di essere eticamente e moralmente sana, se
la politica si rivela implacabilmente un’attività infame, se qualsiasi
impresa collettiva si sbriciola in meschinità e viltà individuali, che
speranza abbiamo di vivere più o meno pacificamente, vantaggiosamente,
rispettandoci e prendendoci cura gli uni degli altri?
La cosa
certa è che quasi tutti noi (compreso chi ha commesso le più atroci
ingiustizie) sappiamo, come Socrate e i suoi interlocutori, cosa è
giusto e cosa no. Quello che ovviamente non sappiamo è come agire con
giustizia in ogni momento, collettivamente, come società, e ciascuno per
parte sua, come cittadino. Qualcosa ci spinge verso il beneficio
materiale e personale, senza tenere conto degli altri; qualcosa di
opposto ci attrae verso i benefici più sottili del dono, della
condivisione, di ciò che può essere utile non a noi bensì al prossimo.
Qualcosa ci conduce a sapere che per quanto possa essere potente la
spinta data dall’ambizione di ricchezze, potere e fama, l’esperienza, la
nostra e quella del mondo, finirà per mostrarci che di per sé
quell’ambizione non vale nulla.
Racconta Socrate che quando
l’anima di Ulisse si trovò a scegliere una nuova vita, dopo la morte,
«essendo ormai guarita dall’ambizione grazie al ricordo dei travagli
passati», cercò la vita di «uno sfaccendato qualsiasi » e «tutta
contenta se la prese ». Non è da escludere che questo sia stato il suo
primo atto realmente giusto.
(Traduzione di Fabio Galimberti)