Repubblica 29.11.1t
Lo Ius soli e il biotestamento
Quel vincolo diritto-vita
di Roberto Esposito
Il destino delle due leggi su Ius soli e biotestamento rischia di separarsi, lasciando la prima indietro e su un binario morto. Se ne capisce la ragione. Mentre sul biotestamento, anche dopo le coraggiose dichiarazioni di papa Francesco, l’opinione favorevole sembra ampia, sullo Ius soli pesa la cappa irrazionale costruita dagli imprenditori della paura. Eppure, mai come in questo caso, bisognerebbe tenere il punto. Non solo perché il cedimento avrebbe il sapore di una resa che metterebbe la parola fine alle residue speranze di riunire, se non subito almeno dopo le elezioni, i cocci sparsi della sinistra. Ma per un motivo più essenziale. E cioè perché, in una fase segnata dal crescente discredito nei confronti della politica, l’approvazione congiunta delle due leggi potrebbe acquisire il significato di un nuovo inizio. E anche di un nuovo modo di intendere la politica — non più come tattica strumentale alle alleanze, ma come decisione su contenuti concreti. E anzi sul più rilevante dei contenuti: la vita stessa di chi abita nel nostro Paese.
Quante volte si è detto che per riattivare il motore ingolfato della politica è necessario ridurne il tasso di astrattezza, radicandola nelle questioni vitali. E cosa c’è di più vitale che conferire uno statuto di uguaglianza ai bambini che già vivono tra noi, separati da una parete di diffidenza rispetto a chi può sentirsi italiano a tutti gli effetti? O restituire a ciascuno il diritto di interpretare liberamente quel momento decisivo della vita che è la morte? Le due leggi, collocate nella fase iniziale e finale dell’esistenza, rimandano l’una all’altra in una corrispondenza simbolica che non va rotta per calcolo politico. Naturalmente il calcolo delle conseguenze è necessario, ma entro certi termini, non sulle questioni di principio su cui si gioca l’identità della sinistra. E poi chi ha detto che un gesto di coraggio, spiegato e motivato, non paghi, aprendo una breccia nell’indifferenza che avvolge la politica? Esso servirebbe, se non altro, ad allargarne i confini, aprendoli ai tanti che hanno rinunciato non solo all’impegno militante, ma perfino al voto. Darebbe anima e corpo a qualcosa che è avvertito come una spoglia vuota.
Nel rapporto tra le due leggi c’è qualcosa di più che una semplice corrispondenza. C’è un nodo stretto, costitutivo della democrazia, che è quello che lega uguaglianza e libertà. Solo cittadini resi uguali dalla legge possono essere davvero liberi. E viceversa. Ciò vale di più quando ci si riferisce non solo al nomos, ma anche al bios. Non solo al diritto, ma anche alla vita. Immettere la forza del diritto nella vita concreta delle persone vuol dire sottrarla alla sua dimensione puramente biologica. Su cui, invece, la schiaccia il razzismo, antico e recente, di chi assume il corpo come luogo di discriminazione e di esclusione. Anche il cosiddetto Ius sanguinis resta dentro una cornice ancora biologistica della vita. Esso subordina la scelta della cittadinanza alla logica del sangue, facendo della discendenza una catena da cui non ci si può emancipare. Quando invece uno Ius soli, comprensivo dello Ius culturae, mette al centro la volontà soggettiva di far parte di una comunità, dopo un percorso di apprendimento portato a termine. Spezza il vincolo che fa della vita il luogo della necessità e la apre alla libertà e alla responsabilità. La libertà di scegliere un modello culturale. E la responsabilità di impegnarsi a rispettarne i valori fondativi.
Lo stesso nodo di libertà e responsabilità caratterizza la legge sul biotestamento. La vita, nel momento cruciale della sua fine, è sottratta alle maglie di una necessità che espropria il soggetto della possibilità di decidere cosa fare di se stesso. Si tratta di far prevalere la libertà su un destino prefissato. Certo, rispettando fino all’ultimo il valore della vita. Ma senza farne una gabbia inesorabile di dolore e sofferenza che può diventare peggio della morte.
La Stampa 29.11.17
Un bimbo su tre è figlio di genitori non coniugati
L’Istat: 100 mila nascite in meno dal 2008
Bonus bebè, l’assegno sarà dimezzato
Nascite in calo in Italia mentre cresce il numero dei figli di genitori non coniugati: sono quasi un terzo del totale. Secondo il rapporto stilato dall’Istat, lo scorso anno sono nati circa centomila bambini in meno rispetto al 2008. Novità dalla manovra: il bonus bebè diventa fisso ma l’assegno sarà dimezzato
di Paolo Baroni
Il bonus bebè messo in sicurezza, ma fortemente depotenziato, il superticket cancellato (ma solo per minori e redditi bassi) ed un nuovo fondo per aiutare i risparmiatori truffati dalle banche: assieme ad una miriade di micromisure sono queste le ultime novità inserite nella manovra 2018 dalla Commissione bilancio del Senato. Dopo l’ennesima maratona notturna la legge di Bilancio approda oggi in aula mentre in parallelo alla Camera il governo metterà la fiducia sul decreto fiscale.
Dunque il bonus bebè sarà per sempre, ma stando ad un emendamento messo ai voti in nottata, l’assegno per i nuovi nati sarà molto più leggero del passato. Tant’è che ieri Maurizio Lupi di Ap, pur apprezzando la decisione di rifinanziare l’operazione, ha subito detto che alla Camera si dovranno recuperare altre risorse per arrivare ad un rifinanziamento totale. Per ora infatti al bonus bebè sono stati assegnati 165 milioni per il 2018, 295 per il 2019 e 228,5 nel 2020. Ancora nel 2018 saranno corrisposti alle famiglie 80 euro al mese (960 in un anno), ma dal 2019 in poi l’assegno verrà dimezzato (40 euro al mese per un massimo di 480 l’anno). Non solo, rispetto alla prima versione questo bonus verrà versato solamente fino al primo anno di età (o di arrivo nel nucleo familiare) e non più fino al terzo anno. Invariata invece la soglia Isee di 25mila euro per accedere al beneficio.
Limato il superticket
Taglio del superticket regionale da 10 euro per i minori che frequentano la scuola dell’obbligo e le famiglie con Isee fino a 15mila euro. Secondo l’emendamento riformulato da Uras di Campo progressista e votato nel pomeriggio nasce un fondo strutturale destinato alle Regioni che intendono escludere queste due categorie dal ticket su diagnostica e specialistica. Stanziati per questo 60 milioni l’anno sino al 2020.
Banche, nuovi indennizzi
Su iniziativa del Pd Santini nasce anche un fondo per risarcire i risparmiatori colpiti dalla crisi delle banche venete. Si tratta di 25 milioni per il 2018 ed altrettanti per il 2019 destinati «a chi ha subito un danno ingiusto non altrimenti risarcito o indennizzato».
Dal 2020 solo radio digitali
Via libera anche ad un pacchetto di modifiche proposte dal governo: dal 2020 scatta l’obbligo di vendere solo radio con una interfaccia digitale, quindi si rendono più flessibili i trasferimenti nella Polizia di Stato riducendo il periodo di permanenza in sede, arrivano 40 carabinieri in più per rafforzare la sicurezza di musei e luoghi di cultura statali, vengono assegnati 2 milioni per nuove assunzioni nelle capitanerie di porto per fronteggiare l’emergenza migranti ed infine è stato esteso anche alle lavoratrici domestiche il congedo previsto per le vittime di violenze.
Tanti fondi a pioggia
Semaforo verde anche ad un bonus da 250 euro a favore della banda ultra larga e a buona parte delle richieste avanzate dall’Anci, ad iniziare da un ammorbidimento dell’obbligo di accantonare in bilancio i crediti di dubbia esigibilità che nel 2018 farà risparmiare ai comuni ben 270 milioni. E ancora: 30 milioni l’anno sino al 2030 vanno alla messa in sicurezza di edifici pubblici, 20 vengono stanziati per le emergenze del settore avicolo, 4 vanno agli italiani all’estero e 2 al contrasto del rischio idrogeologico nel bacino del Tevere, con 1,5 milioni verrà «stabilizzata» la scuola sperimentale del Gran Sasso, infine su proposta del pd Sposetti 1 milione finisce agli archivi storici di movimenti politici e sindacati. A loro volta ieri i senatori verdiniani sono riusciti a piantare un’altra bandierina ottenendo la sospensione delle rate di tutti i mutui nei Comuni di Ischia colpiti dal terremoto.
Corriere 29.11.17
L’Italia non fa figli: meno 100 mila Il caso bonus bebè
Il calo dei neonati in 8 anni. Manovra in Aula
I dati Istat: il primo parto avviene dopo i 32 anniDentro il matrimonio il 70 per cento delle nascite
Persi in otto anni 100 mila neonati Anche gli stranieri fanno meno figli
di Claudia Voltattorni
Meno 107.142 neonati in otto anni, dal 2008 al 2016. L’Istat fotografa un Paese che non aiuta le famiglie e non sostiene la natalità. Ultimi ritocchi alla manovra del 2018: il bonus bebè è reso strutturale, ma dal 2019 ridotto a un anno e dimezzato. Continua la fuga dei giovani all’estero. Prima destinazione, Londra.
Roma Meno 107.142 neonati. Persi in otto anni. Tutti italiani. Neanche mezzo milione di bambini nati nel 2016 (473.438), di cui oltre centomila hanno almeno un genitore straniero. L’Italia non è un Paese con figli. Non aiuta le donne, non aiuta le famiglie e quindi nascono meno bambini. E quei pochi che arrivano sono destinati ad essere figli unici con mamma e papà non più giovanissimi. Impietosa ancora una volta la fotografia del nostro Paese fatta dall’Istat nella sua analisi sulla «Natalità e fecondità della popolazione residente». Un calcolo che ha rilevato le nascite nel nostro Paese dal 2008 al 2016 e che evidenzia una curva sempre più in discesa. Anche quella dei bimbi nati da genitori stranieri: 70 mila lo scorso anno, erano oltre 78 mila appena 6 anni fa.
«Le donne italiane in età riproduttiva — spiega l’analisi — sono sempre meno numerose e mostrano una propensione decrescente ad aver figli». Una scelta? Solo per pochissime, evidenzia l’Istat: «L’incidenza più alta delle donne che dichiarano che l’avere figli non rientra nel proprio progetto di vita si registra tra le 40-44enni (2,8%) e tra le più giovani (2,3% per le 18-24enni)». Si tratta però di «un fenomeno molto contenuto nel nostro Paese» dove «a determinare l’aumento della quota di donne senza figli sono più gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione dei progetti familiari».
Colpa soprattutto della crisi economica, da cui tutto è partito, ma non solo. Adele Menniti, dell’Istituto di ricerche sulle popolazioni (Irpps) del Cnr: «L’Italia ha un problema di conciliazione della vita lavorativa con la genitorialità, mancano politiche di sostegno, strutture, ma anche un aiuto maggiore da parte del partner e una cultura più baby friendly : se si uniscono tutti questi tasselli si spiegano le difficoltà, oltre alle politiche bisogna sradicare una cultura, è un’impresa difficile».
Si esce più tardi di casa («difficoltà per i giovani nell’ingresso del mondo del lavoro e la diffusa instabilità del lavoro stesso, difficoltà nel mercato delle abitazioni»...), ci si sposa molto meno e in età più adulta e il primo figlio nasce sempre più tardi.
I dati: dal 2008 al 2014 i matrimoni sono passati da 246.613 a 189.765. Sono risaliti solo negli ultimi anni fino a superare le 200 mila celebrazioni nel 2016 (203.258). Ma sale anche l’età media delle nozze: 34,9 per gli uomini, 31,9 per le donne. Quindi si diventa genitori più tardi: «Primi figli passati dai 283.922 del 2008 ai 227.412 del 2016». Ma, secondo l’Istat, in Italia ancora il 70% delle nascite è all’interno del matrimonio. Sono in crescita però i nati da genitori non sposati: 141.757 nel 2016, oltre duemila in più rispetto all’anno prima. «Il loro peso relativo è più che triplicato rispetto al 1995 e raggiunge il 29% nel 2016». Anche sui figli ci sono poi «due Italie» con donne senza bambini al Nord (1 su 4) e al Centro (1 su 5) e 1 su 3 con un solo figlio. Diversa la situazione al Sud, dove, pur in aumento le donne senza figli, «il modello con due bambini resta maggioritario: 57,1% al Sud e 55,1% nelle Isole».
E gli stranieri? Hanno avuto più figli degli italiani ma meno rispetto agli anni scorsi: poco più di 100 mila nel 2016. Sofia e Francesco anche nel 2016 sono stati i nomi più scelti dagli italiani, seguiti da Alessandro e Aurora. Sofia è piaciuto anche per le bimbe straniere, seguito da Sara, mentre per i maschietti Adam e Rayan hanno preceduto Youssef e David.
Repubblica 29.11.17
Denatalità
Il tardi diventa mai così l’Italia ha perso centomila bambini
L’Istat fotografa un Paese che non riesce a contrastare il calo delle nascite. Aumentano le nozze ma i figli sono sempre di meno
di Chiara Saraceno
I primi passi di uscita dalla crisi riaccendono la voglia di sposarsi, spesso ufficializzando una convivenza già in essere. Ma non riescono a contrastare il calo delle nascite, ormai diventato strutturale e in qualche misura irreversibile nel breve- medio periodo. La riduzione della fecondità, in atto ormai da decenni con poche interruzioni, ha infatti progressivamente ridotto la numerosità delle generazioni più giovani, ovvero quelle in grado di procreare. Secondo i dati Istat, quasi tre quarti della differenza nel numero di nascite tra il 2008 e il 2016 (circa 100.000 nati in meno) è dovuta alla modificazione della struttura per età della popolazione femminile. Allo stesso tempo, i giovani, specie se donne, scoraggiate dalle incertezze economiche e da persistenti asimmetrie di genere sia nel mercato del lavoro sia nel lavoro domestico e di cura, rimandano e riducono al minimo le scelte di fecondità. Una sorta di tempesta perfetta: chi è in grado di procreare diminuisce numericamente e per giunta è ostacolato a farlo anche quando lo desidererebbe.
Il tasso di fecondità aveva raggiunto il suo punto più basso (ed uno dei più bassi al mondo) già a metà degli anni Novanta, quindi ben prima della crisi, senza che ciò destasse particolare riflessione a livello delle policies, salvo rituali rimproveri ai giovani « che non vogliono impegnarsi » e in particolare alle donne « egoiste » che anteporrebbero la carriera e l’autonomia economica al lavoro. Rimproveri che glissano (glissavano) — si pensi agli stucchevoli dibattiti sui “ mammoni”, i choosy e simili — sulle difficoltà a trovare un lavoro stabile e ad accedere ad una abitazione senza doversi affidare ai risparmi di famiglia o a mutui ventennali e sulla necessità, per le donne, ad avere un reddito proprio per proteggere sé e i propri figli dal rischio di povertà. La crisi, che ha colpito in modo particolare le opportunità dei giovani nel mercato del lavoro, reso ancora più vulnerabili a licenziamenti più o meno legali le donne che vanno in maternità e ridotto le risorse per i servizi, ha interrotto la piccola ripresa che aveva caratterizzato i primi anni duemila, invertendo di nuovo la tendenza. Ma che altro ci si può aspettare in un paese in cui una donna lavoratrice su 5 è costretta a lasciare il lavoro quando ha un figlio e dove, secondo gli ultimi dati dell’Ispettorato del lavoro, il 78% delle dimissioni “ volontarie” ha riguardato lavoratrici madri, con un aumento, nel 2016, del 45% rispetto all’anno prima di coloro che hanno dichiarato di non farcela a tenere insieme tutto?
Il calo delle nascite riguarda innanzitutto gli italiani. Sta avendo esiti, non solo demografici, drammatici soprattutto al Sud, dove i tassi di fecondità sono ormai stabilmente più bassi che nel Centro-Nord e dove, come ha documentato l’ultimo Rapporto Svimez, i giovani più istruiti hanno ripreso numerosi ad emigrare non solo fuori Italia, ma al Nord. Il veloce invecchiamento della popolazione che sta caratterizzando le regioni meridionali si somma quindi anche ad un depauperamento del capitale umano, ad una perdita di risorse che può rendere ancora più difficile la ripresa in quelle regioni. Il calo delle nascite riguarda anche, sia pure in minor misura, anche gli stranieri, che tradizionalmente hanno un tasso di fecondità più alto. In parte è l’esito di un processo di integrazione culturale, nella misura in cui i migranti tendono ad avere un comportamento più simile a quello del paese di arrivo che a quello di partenza, per quanto riguarda la fecondità. Ma l’entità del calo segnala che la crisi e i suoi effetti di lungo periodo ha colpito anche i migranti, modificandone le aspettative rispetto alle opportunità che vedono per sé e per i figli.
A maggior ragione i loro figli, come i nostri, dovrebbero essere considerati un bene prezioso su cui investire, cui dare riconoscimento e un futuro come membri a tutti gli effetti della nostra società. Senza di loro saremmo ancora più vecchi e poveri di risorse umane, con un orizzonte ancora più ristretto.
Corriere 29.11.17
La paura del futuro
Perché non facciamo più figli?
di Antonio Polito
Perché non facciamo più figli? Ogni volta che l’Istat ci ricorda il drammatico calo delle nascite (centomila bambini in meno in otto anni), riparte stanco il dibattito. I politici lanciano l’allarme (a chi? a se stessi?); se sono all’opposizione reclamano nuove misure di welfare per sostenere la maternità (che immaginiamo si aggiungano, chissà come, a quelle per sostenere le vecchiaia); se sono al governo si affidano al bonus bebè, in un Paese in cui le politiche sociali stanno diventando una specie di giungla di gratifiche, e l’85% per cento dei contributi assistenziali vanno agli over 65 anni. Intendiamoci: ben vengano nuove misure, gli sconti fiscali per i pannolini o la tata, testimonierebbero quantomeno la consapevolezza dello Stato che il problema è grande anche dal punto di vista sociale, perché di questo passo non avremo più abbastanza lavoratori giovani per pagare le pensioni al numero crescente di anziani. E d’altra parte non ha senso sperare di sostituire gli italiani mancanti con una ondata di lavoratori immigrati.
Ma questa carestia di culle ha cause culturali forse anche più profonde di quelle sociali. Altrimenti non si spiegherebbe perché le don-ne immigrate, che di certo godono di meno aiuti pubblici, facciano 1,97 figli ciascuna, e le italiane solo 1,26. La lunga e dolorosa crisi economica ovviamente c’entra, e infatti nel 2016 si segnala finalmente un timido segno di ripresa nella propensione alla nascita dei primi figli. È evidente che molte donne hanno ritardato la maternità in attesa di tempi migliori. Ma così facendo sono arrivate al parto all’età media di 31,8 anni, due anni in più che nel 1995. In questo modo il serpente si morde la coda: si comin-cia a far figli più tardi, quindi aumentano i problemi di infertilità, quindi nascono meno bimbi, e tra loro meno future donne fertili. Se si aggiunge una illimitata e spesso superficiale fede nelle risorse della tecnica, quasi che la provetta potesse sostituire del tutto e a qualunque età il ventre materno, si può giungere a paventare, come nell’omonimo libro di Lucetta Scaraffia, la «Morte della madre», inte-sa come figura simbolo di una società declinante. La crisi ha agito come un potente depressivo sulle famiglie italiane, e soprattutto sulle coppie più giovani. E non solo per il minor reddito disponibile, ma per l’enorme nu-vola nera che ha proiettato sul futuro del Paese. Eppure già da prima si poteva avvertire che dietro il calo delle nascite si nascondeva il senso di sfiducia generalizzato, di pessimismo, che attanaglia ancora l’Italia nonostante i primi segni di ripresa, e si concentra sul timore che per i nostri figli non ci sarà più abbastanza la-voro e benessere. Osservando la loro condizione precaria e incerta, i giovani di oggi riluttano a mettere al mondo i giovani di domani. L’altro potente fattore di freno alla maternità affonda probabilmente le sue radici nella persistente arretratezza che caratterizza da noi i rapporti tra i sessi. Colpisce il numero di donne che nel-la vita di ogni giorno, interrogate sul perché non abbiano ancora figli, rispondono: perché non ho ancora trovato l’uomo giusto. Dove «l’uomo giusto» sarebbe quello che non scarica addosso a loro tutto il peso della maternità, dell’allevamento, della cura, della vigilanza, della educazione dei figli. E, diciamoci la veri-tà, per quanto molte cose stiano cambiando, i padri italiani non sembrano ancora campioni di responsabilità parentale. Si fanno dunque meno figli per paura del futuro. Ma le famiglie meno numerose producono a loro volta un effetto sul futuro. Una generazione di figli unici sta crescendo nelle nostre case senza fratelli, con molti nonni e qualche bisnonno, con i quali convive per un tempo sempre più lungo. Gli stessi valori su cui è fondata la nostra civiltà possono essere affetti da queste mutazioni. Ha notato lo scrittore Christian Raimo, per esempio, che il concetto di fratellanza è molto più difficile da apprendere in famiglie senza fratelli. Un’inversione di tendenza potrà dunque avvenire solo quando ci sarà piena consapevolezza di queste cause culturali. Quando ricominceremo a pensarci come una comunità invece che come un agglomerato di interessi, e riprenderemo a premiare chi investe sul futuro, invece di dilaniarci per risorse sempre più limitate di spesa pubblica. Come seppero fare i nostri genitori, la cui spinta vitale generò il baby boom del Dopoguerra, in un Paese dalle condizioni economiche e sociali non certo migliori di quelle di oggi.
Corriere 29.11.17
La demografa: «Questione culturale La maternità? Un obiettivo tra tanti»
Farina: le coppie italiane non guardano avanti, la crisi economica ha un peso relativo
di Alessandra Arachi
ROMA Patrizia Farina, lei che è una demografa dell’Università Bicocca di Milano, e anche membro del Sistan, il Sistema statistico nazionale, ha visto i dati forniti oggi dell’Istat? Continuano a certificare un calo delle nascite nel nostro Paese...
«Un calo inevitabile».
Perché?
«Intanto per come è fatta la struttura della nostra popolazione, ci sono sempre meno donne e quindi sempre meno donne in età fertile. E poi esiste un’importante questione culturale che non possiamo ignorare».
Non ignoriamola. Cosa vogliamo dire?
«Fino a 50 anni fa essere madri, e anche madri di molti figli, era in pratica l’unico desiderio di una donna sposata».
Adesso non è più così...
«Ora diventare madre è uno dei tanti possibili obiettivi di una donna, sposata o non».
Per questo abbiamo un tasso di natalità così basso?
«Siamo scesi a 1,26 figli per donna italiana da 1,34 che avevamo ed era già piuttosto basso».
Come mai secondo lei?
«Perché le alternative alla maternità sono tante».
La carriera, ad esempio?
«Ad esempio, certo. Ma il ventaglio di alternative è talmente ampio, e suona come una cosa un po’ paradossale rispetto alla nostra tradizione religiosa».
Abbiamo abbandonato la tradizione e la religione?
«È successo anche questo. Ma il problema è che noi donne qui in Italia non siamo capaci di trovare un compromesso fra essere madri o essere un’altra cosa».
Quindi o facciamo l’una o facciamo l’altra?
«Non sempre, ma tendenzialmente questo è l’atteggiamento. E lo si può vedere bene analizzando i numeri».
Quali numeri?
«Quelli dove l’Istat ci fa vedere che la riduzione del numero dei primi figli è responsabile al 57 per cento del calo complessivo della fecondità».
Come legge questo dato, professoressa?
«È un numero che abbatte in maniera evidente l’idea che non si fanno figli per problemi economici».
«I problemi economici — che pure esistono — frenano l’idea di fare un secondo o un terzo figlio. Ma quando non si mette al mondo il primo figlio lo si fa principalmente per tanti altri motivi. Però non è giusto fermarsi qui».
Cosa intende?
«Sarebbe interessante indagare le aspettative dei percorsi della vita, ma non fermarsi soltanto a quelli delle donne».
Quindi dobbiamo occuparci degli uomini?
«Non dovrei dirlo perché sono un membro del Sistan, ma quando la statistica parla di fecondità dovrebbe indagare anche gli aspetti relativi agli uomini, la loro fertilità, i loro desideri, le loro aspettative».
E cosa si scoprirebbe?
«Si riuscirebbe a capire finalmente perché stiamo marcendo su questi 1,3 figli per donna».
Ci vuole quindi anche un contributo statistico sugli uomini per indagare nel profondo la nostra denatalità?
«Mi sembra logico. I figli si fanno in due. E le coppie in Italia dimostrano di non avere la voglia o la capacità di guardare avanti».
Ovvero?
«Non hanno voglia di vedere che il proprio orizzonte si prolunga attraverso i figli».
La Stampa 29.11.17
I nati fuori dal matrimonio disegnano una nuova Italia
Il rapporto dell’Istat:lo scorso anno 100 mila bambini in meno rispetto al 2008 In crescita soloi figli delle coppie non sposate:rappresentano il terzo del totale
di Linda Laura Sabbadini
Nascite in calo. Oltre 100 mila in meno rispetto al 2008, 12 mila in meno rispetto al 2015. Dati durissimi. Dati annunciati. Crescono solo i nati fuori dal matrimonio e sono quasi un terzo del totale. La diminuzione delle nascite registrata dal 2008 è da attribuire interamente al calo dei nati all’interno del matrimonio. D’altro canto i matrimoni sono crollati dal 2008 al 2014: 53.000 in meno. Dal 2014 al 2016 crescono solo di 6000 unità. Il che vuol dire che abbiamo recuperato solo l’11% del crollo avvenuto.
Un recupero così piccolo potrà incidere poco sui livelli di fecondità. Ma se le nascite nel matrimonio diminuiscono, continuano a crescere quelle fuori dal matrimonio. Una crescita incessante, anno dopo anno che evidenzia che le libere unioni nel nostro Paese non sono più come in passato solo il modello di convivenza prematrimoniale, periodo di prova dell’unione, ma si stanno anche consolidando come forma di vita familiare che si affianca al matrimonio. Prima se si voleva avere i figli ci si sposava dopo aver convissuto.
Ora è normale averli anche all’interno della libera unione. E’ il segno di cambiamenti culturali e di costume. 141.757 i nati da genitori non coniugati nel 2016, oltre duemila in più rispetto al 2015. Il loro peso relativo è più che triplicato rispetto al 1995 e raggiunge il 29,9% dei nati nel 2016. La percentuale arriva a un terzo tra le coppie di italiani, al 37% tra quelle miste, al 17% tra quelle di soli stranieri.
Ma allora che cosa sta succedendo? Quali sono i motivi del calo? Il problema non è che non si vogliono avere figli. Solo l’1,8% delle donne da 18 a 49 anni che non hanno figli ha dichiarato di non avere come progetto di vita l’avere un figlio, praticamente nessuna. Il che vuol dire che ci sono ostacoli al trasformare i desiderio di avere figli in realtà. E’ l’effetto della crisi che ha colpito soprattutto i giovani che rimandano la formazione di una famiglia e la costruzione di una vita indipendente. E’ anche l’effetto del lungo calo delle nascite che ha caratterizzato il nostro Paese. Se nel 1995 si è toccato il minimo della fecondità, quella generazione, come quelle degli anni successivi, a venti, trenta anni di distanza, non può che essere molto meno numerosa di quella nata 20,30, 40 anni prima. E anche se quelle donne avessero un ugual numero di figli delle generazioni precedenti, ciò non basterebbe a uguagliare il numero di nati degli anni passati. Dovrebbero in media fare molti più figli delle donne nate prima di loro. E invece succede il contrario. Le donne nate nei primi Anni 20 avevano in media 2.5 figli, quelle nate tra il 1945 e il 1949 ne avevano 2, quelle nate nel 1976 solo 1.4. Per di più, mentre all’inizio del calo della fecondità la riduzione avveniva soprattutto sul fronte dei figli di ordine superiore al primo, ora aumentano decisamente con il passare delle generazioni le donne che arrivano alla fine del periodo fecondo senza nessun figlio. L’11% del totale delle nate nel 1950 non ha avuto figli, il 13% di quelle nate nel 1960 e il 21% delle nate del 1976. Un vero tracollo a cui dobbiamo rimediare.
Dal 2012 diminuiscono, seppur lievemente (-7 mila), anche i nati con almeno un genitore straniero pari a poco più di 100 mila nel 2016 (21,2% del totale). Il calo maggiore si evidenzia per i nati da genitori entrambi stranieri, che nel 2016 scendono per la prima volta sotto i 70 mila. Il numero medio di figli per le donne straniere si colloca a 1,97, era 2,43 nel 2010. Una diminuzione molto accentuata. Le italiane arrivano a 1,26 contro 1,34 nel 2010. D’altro canto non dobbiamo meravigliarci. Oltre al naturale processo di convergenza dei comportamenti degli stranieri e degli italiani dovuto ad una maggiore integrazione nel nostro Paese, va sottolineato che gli stranieri hanno subito i colpi della crisi più degli italiani. Inoltre la struttura per età delle donne straniere è più invecchiata che in passato e aumenta il peso di comunità come quelle dell’Est, e le stesse filippine e ucraine con minori livelli di fecondità. D’altro canto anche loro per effetto della crisi rinviano il momento della nascita dei figli e in questo momento anche più degli italiani sul primo figlio. Il calo di nati da stranieri rispetto al 2008 per il 70% dei casi è dovuto a primi figli. Per gli italiani era al 70% lo scorso anno e ora è sceso al 57%, dato sempre alto ma con piccoli segnali di recupero.
La Stampa 29.11.17
Sempre meno privilegi e più burocrazia
Ecco perché le nozze hanno perso appeal
Resta qualche vantaggio fiscale, ma solo se il reddito è basso
di Maria Corbi
In un mondo precario, anche in amore non esiste più il «per sempre» e l’istituzione del matrimonio rischia di diventare anacronistica. E se da noi non è ancora come in Gran Bretagna, Germania, Francia, Danimarca, Finlandia, dove i conviventi superano le coppie sposate, i dati indicano che la strada è la stessa. Ci si sposa di meno per diversi motivi: sono cambiati i costumi, certo, ma soprattutto diminuisce la «convenienza» del contratto sentimentale a lunghissimo termine («fine pena mai», come dicono i detrattori). Perché le varie leggi che si sono succedute (ultima quella sulle Unioni civili e le convivenze di fatto che ha preso il nome dalla senatrice Monica Cirinnà), hanno eroso i privilegi di status, economici, e anche successori che il matrimonio ha fino a poco tempo fa portato con sè.
Intanto, dal 2012 in Italia non ci sono più differenze tra figli naturali nati fuori dal matrimonio e figli legittimi. E la legge Cirinnà ha fatto il resto, eliminando molte delle differenze riguardanti i rapporti tra i due partner. Nella seconda parte (la prima è dedicata alle Unioni civili) si disciplina la convivenza di fatto tra due persone che non sono sposate che potranno stipulare i contratti di convivenza, in forma scritta, davanti a un notaio. Vi si può indicare la residenza, le modalità di contribuzione economica alla vita comune dei due conviventi, il regime patrimoniale della comunione dei beni come da codice civile (che può essere modificato in qualunque momento). Quindi in pratica mentre nel matrimonio i contratti «prematrimoniali» che tanto vanno di moda negli Stati Uniti non sono validi, nelle convivenze di fatto sono possibili, aumentando «l’appeal» di questo tipo di accordo rispetto alle nozze.
Il matrimonio però mantiene qualche «privilegio» fiscale, come ci spiega il dottore commercialista Francesco Luvisotti, ma solo in alcuni casi e quando il reddito non è alto. «Nel matrimonio se lavora solo uno dei due coniugi l’altro può risultare fiscalmente a carico cosa che non è possibile in caso di convivenza di fatto», spiega l’esperto. Possibilità concessa invece alle Unioni civili. Qui i partner dello stesso sesso sono assimilati al coniuge ai fini fiscali, anche ai fini dell’applicazione di detrazioni per familiari a carico. Resta fermo il requisito di reddito del familiare a carico che non deve essere superiore a 2 mila 840,51 euro lordi.
Altra convenienza del «matrimonio» sta nel fatto che in caso di separazione l’assegno per gli alimenti può essere detratto interamente dal reddito di chi lo deve pagare. Ma quel che accade per questa «differenza» è che a volte ci si separi per avere un vantaggio fiscale. E quindi il matrimonio ne esce perdente ancora una volta.
Per non parlare dei costi e delle pratiche burocratiche che un divorzio porta con sé. Mentre lasciarsi da una convivenza, anche se registrata e regolata, è molto più facile. «Il matrimonio è una istituzione rigida», dice Marcello che dopo un matrimonio finito adesso convive ed è diventato di nuovo padre. «Per separarmi da mia moglie è stato un calvario emotivo, burocratico ed economico. Anche se eravamo d’accordo quasi su tutto. Non credo che mi risposerò anche perché mio figlio ha gli stessi diritti dei fratelli nati in costanza di matrimonio. E con la mia compagna abbiamo siglato un accordo di convivenza che la tutela in caso io mi ammali, muoia o anche se ci lasciassimo».
il manifesto 29.11.17
Biotestamento, si può fare. Ma il Senato ancora tentenna
FIne vita. Sit-in a Montecitorio dell’Associazione Coscioni, con Radicali italiani e Campo progressista. Pressing del M5S, appello del ministro Martina, Bersani e Delrio insistono anche sulla cittadinanza
di Eleonora Martini
Il ministro Graziano Delrio non ha dubbi: non solo il biotestamento ma anche la legge sulla cittadinanza sarebbero, nelle intenzioni del Pd, da incassare entro la fine della legislatura: «Faremo la nostra battaglia fino in fondo, non abbiamo nessun dubbio che entrambe vanno perseguite – ha affermato ieri da Radio Capital – Poi è chiaro che bisogna lavorare con il parlamento e che bisogna correre. Se ci sarà bisogno di mettere la fiducia io credo che il presidente del Consiglio prenderà le decisioni giuste». Il titolare dei Trasporti fa la sua parte, ma se la strada per varare il testo sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) è tutta in salita e puntellata da varie possibili soluzioni procedurali per evitare l’ostruzionismo, quella dello ius soli è decisamente già quasi scomparsa dalle mappe parlamentari, sia per l’impopolarità del tema che per i tempi ristretti, per la risicata maggioranza dei consensi e per il prevedibile fallimento di un’eventuale ricorso alla fiducia.
Ai dem, per fare qualcosa di sinistra, non rimane che puntare sul biotestamento ma in Senato la capigruppo che dovrebbe calendarizzarlo è slittata di nuovo: la riunione si terrà domani, ma al centro dell’attenzione c’è soprattutto la legge di Bilancio e la relativa questione di fiducia da votare. Dunque bisognerà aspettare probabilmente lunedì o martedì della prossima settimana per sapere se e quando la legge che può contare su un appello sottoscritto da 26 mila cittadini, i quattro senatori a vita e oltre 70 sindaci sarà quanto meno discussa in Aula.
A rimarcare l’importanza di «approvare immediatamente e senza variazioni» la norma sul fine vita «che consente alle persone di decidere sulla propria vita», ci ha pensato l’Associazione Luca Coscioni che ieri ha manifestato a piazza Montecitorio con un sit-in al quale hanno partecipato anche i Radicali italiani e Campo progressista, e che ha raccolto il consenso perfino della vicepresidente del Pd (spaccato al proprio interno sul tema) Barbara Pollastrini. «Domani manifesteremo di nuovo, stavolta davanti al Senato con un walk around, che non ha bisogno di autorizzazioni – spiega la segretaria dell’associazione, Filomena Gallo – e ci saremo anche la prossima settimana, fino a quando la legge non sarà calendarizzata e approvata». «Se c’è la volontà politica – aggiunge Riccardo Magi, segretario di Ri – si può trovare il tempo e creare le condizioni per approvare sia le Dat che lo ius soli».
La pensa così anche Pierluigi Bersani, leader di Mdp: «Bisogna farli tutti e due, c’è tempo per farlo. Noi ci siamo, ne votiamo tre di fiducie».
Ma a votarla, la fiducia, non ci starebbe sicuramente il M5S (contrario in ogni caso allo ius soli) che invece insiste sulle Dat e risponde allo sciocchezzaio di Matteo Salvini che aveva sentenziato: «Io più che del fine vita mi preoccupo della vita e a me piacerebbe che questo Parlamento si occupasse degli italiani che stanno vivendo». «Il #BioTestamento serve ai vivi. È un diritto sacrosanto – twitta Alessandro Di Battista – Il Mov5Stelle chiede la sua immediata approvazione. Si può fare in 24 ore!». E non ci sta neppure l’alleato di governo: «Su biotestamento e ius soli siamo stati molto chiari, non accetteremo nessuna richiesta di fiducia da parte del governo», ribadisce il coordinatore nazionale di Ap, Maurizio Lupi.
E allora la soluzione potrebbe essere quella già sondata dalla senatrice Pd Emilia De Biasi, il cosiddetto «canguro», ossia il voto unico su tutti gli emendamenti accorpati che consente di aggirare le manovre ostruzionistiche di Ap, Fi e Lega. La relatrice in commissione, prima di dimettersi per portare il testo direttamente in Aula, aveva infatti scritto al presidente Pietro Grasso, il quale aveva risposto lasciando la porta aperta all’eventuale procedura.
Una soluzione che potrebbe incassare perfino qualche voto tra i liberali del centrodestra, ai quali si rivolge il ministro Maurizio Martina, vicesegretario del Pd, con un appello alla «sensibilità» di ogni parte politica: «Chi ha dovuto come me, in casa, nell’esperienza familiare, avere a che fare con storie di questo tipo, quando vede questi temi buttati lì in un modo troppo propagandistico, chiede un alt per il bene di tutti».
Il Fatto 29.11.17
Poche donne e poco lavoro: 100 mila neonati in meno
Meno 18% dal 2008: crisi economica e il calo demografico di 40 anni fa
Poche donne e poco lavoro: 100 mila neonati in meno
di Virginia Della Sala
Sempre meno nascite, anche tra i migranti. Lo ha certificato ieri l’Istat, nel giorno in cui è stato oltretutto presentato in commissione Bilancio un emendamento che dimezza il bonus bebè: dal 2008 al 2016 sono nati 100 mila bambini in meno. L’anno scorso all’anagrafe ne sono stati registrati 437.438, 12 mila in meno rispetto al 2015. Colpa della crisi, ma non solo.
L’Italia sta scontando il calo delle nascite del periodo che va dal 1976 al 1995, quando è stato toccato il minimo storico di 1,19 figli per donna. Così, oggi le donne residenti in Italia tra i 15 e i 29 anni sono poco più della metà di quelle tra 30 e 49 anni (il range 15-49 rappresenta “l’età feconda”). Meno donne in età feconda (o più donne in età avanzata, seppur feconda) implicano meno nascite. “Questo fattore – spiega l’Istat – è responsabile per i tre quarti circa della differenza di nascite osservata tra il 2008 e il 2016”, ovvero 74 mila bambini non nati. “Durante gli anni 60 nascevano quasi un milione di bambini all’anno – spiega Massimo Livi Bacci, professore di Demografia all’Università di Firenze –, poi la natalità ha rallentato. Un calo avvenuto nella gran parte del mondo sviluppato e in parte di quello in via di sviluppo”. Quindi la flessione tra il 1976 e il 1995: “Diverse le cause, dalla diffusione della contraccezione all’aumento del livello di coinvolgimento delle donne nel mondo del lavoro”. Il calo di almeno 25 mila nascite dipende invece da quella che viene definita “diminuzione della propensione ad avere figli”. Si è passati dalla media di 1,45 figli per donna del 2008 a 1,34 del 2016. In questa fascia si trova “l’effetto crisi”, suffragato dal calo di primi figli del 20 per cento su tutto il territorio. “La diminuzione – si legge – è marcata anche nelle regioni del Nord e del Centro che avevano sperimentato una fase di moderata ripresa, riconducibile soprattutto alle nascite da coppie con almeno un genitore straniero”. Che, invece, diminuiscono dal 2012. “Gli stranieri sono una quota relativamente piccola della popolazione italiana (5 per cento, ndr) – spiega Livi Bacci – non possono quindi influire più di tanto. Però, man mano che l’immigrazione matura e che aumenta il tempo di residenza, le coppie degli stranieri tendono ad adeguarsi ai comportamenti e ai livelli di natalità della popolazione italiana”. Oggi hanno un tasso di fecondità intorno a 1,9 figli per donna, molto inferiore alla media dei Paesi di origine.
E anche se sembra essere in ripresa la propensione a sposarsi, dato positivo perché – rileva l’Istat – è ancora forte la correlazione tra nozze e natalità, resta il progressivo ritardo con cui si arriva alle prime nozze causato dalle difficoltà lavorative. Come dice l’Istat: “L’allungamento dei tempi formativi, ma soprattutto le difficoltà che incontrano i giovani nell’ingresso nel mondo del lavoro e la diffusa instabilità del lavoro stesso”. Le donne senza figli saranno il 21,8% di quelle nate nel 1976.
Insomma, in Italia esiste una “questione demografica”, c’è una demografia molto debole che si riflette nel rapido invecchiamento, nella bassissima natalità e che crea e creerà dei costi per la collettività in termini di sviluppo sul lungo termine. Le ricette? “Almeno tre: favorire tutto ciò che restituisca autonomia ai giovani, che li renda finanziariamente ed economicamente indipendenti prima. Poi, più donne al lavoro, visto che c’è bisogno di due redditi in famiglia e minore differenza nei tempi dedicati alla cura dei figli”.
Anche perché sul futuro pende un ulteriore problema: “C’è e ci sarà uno squilibrio – conclude Livi Bacci – : si deve a questo il fatto che l’età pensionistica venga aumentata. Ed è uno squilibrio destinato ad ampliarsi con conseguenze economiche”. Saranno infatti più difficili i trasferimenti tra la forza lavoro, che diminuirà, e i pensionati, che invece aumenteranno.
Il Fatto 29.11.17
3 domande a Chiara Saraceno
“Servono riforme strutturali: gli incentivi passano, i figli restano”
“I figli hanno questo vizio: restano anche quando i bonus finiscono. I genitori sono razionali: solo un pazzo ne farebbe un altro per 80 euro di bonus”.
I dati dell’Istat non sono incoraggianti.
Ce ne sono due: la natalità indica quanti bambini nascono, la fecondità quanti per donna. Una popolazione vecchia per forza ha una natalità bassa. Non amo gli allarmismi, ma il rapporto mostra che ci sono poche donne in età feconda e che non hanno voglia o possibilità di fare più di un figlio. Spesso neanche uno. È evidente al Sud, tradizionalmente a più alta fecondità: oggi Catania ha una fecondità più bassa di Milano.
Perché?
I giovani faticano a entrare nel mercato del lavoro o ad avere stipendi decenti, oppure emigrano. Alle donne, poi, non basta più che lui si stabilizzi e per lei è ancora più importante visto che la maternità, tra contratti precari e meno tutele, è un rischio. Il 75% delle dimissioni volontarie nel 2016 è stato di lavoratrici madri. Qui la maternità è affare complicato.
Anche per i migranti?
Rappresentano gli strati economicamente meno fortunati. Se poi si pensa che vengono per un futuro migliore per i loro figli, è ragionevole che investano su quelli che hanno e non ne facciano altri. I figli sono un bene comune. Chi pagherà le pensioni? La società rischia di ripiegarsi su se stessa, mancano politiche di sostegno strutturali stabili e durature.
La Stampa 29.11.17
Il “Grasso day”
Pronta la discesa in campo contro il Pd
di Marcello Sorgi
Pietro Grasso ci sarà. Non lo ha ancora annunciato perché domani l’aula di Palazzo Madama darà via libera alla legge di stabilità e fino a quel momento il presidente del Senato vuol essere sicuro del risultato e non vuol dar pretesti per polemiche politiche. Ma da domenica 3 dicembre, quando interverrà all’assemblea di Mdp, Sinistra italiana e Possibile, Grasso, ufficializzando la scelta che in cuor suo ha maturato da tempo, diventerà candidato - il candidato numero uno, verrebbe da dire - della lista di sinistra avversaria di Renzi e del Pd.
Laura Boldrini invece non andrà all’assemblea. In parte per le stesse ragioni che hanno convinto Grasso a ritardare il suo annuncio fino alla vigilia: la legge di stabilità licenziata dal Senato infatti arriverà alla Camera e ci resterà un paio di settimane, per essere discussa, emendata, approvata e infine rispedita al Senato per il voto finale. E anche Boldrini è consapevole che in questi giorni il suo principale dovere è assicurare che l’iter parlamentare proceda senza intoppi. Ma non è affatto escluso che dopo quest’adempimento anche la presidente della Camera decida di candidarsi con il pezzo di sinistra che ha Renzi come nemico. L’ipotesi di una sua candidatura con Pisapia e Campo progressista, che sembrava più concreta prima della pausa estiva, quando l’iniziativa dell’ex sindaco di Milano puntava ancora a federare tutto il centrosinistra rimasto fuori dal Pd, sembra ormai sfumata. E per Boldrini il richiamo della sinistra radicale, vendoliana, che l’aveva eletta la prima volta alla Camera, potrebbe rivelarsi decisivo.
A differenza di Grasso, che a chi glielo ha chiesto ha spiegato che si è sentito spinto fuori dal Pd dalle scelte del vertice renziano - ultima, far votare un testo fotocopia della legge elettorale, senza consentire un minimo di dibattito al Senato -, Boldrini non è stata tirata di qua e di là, né ha avuto il problema di rompere con il Pd, dato che non ne aveva mai fatto parte. I suoi vecchi compagni domenica vorrebbero anche lei all’assemblea che darà il via alla campagna elettorale. Ma è comprensibile che lei mantenga le sue riserve, per il dovere istituzionale che la aspetta e perché è chiaro che quello sarà il «Grasso day», la star del giorno sarà il suo dirimpettaio di Palazzo. Così alla fine i due presidenti delle Camere saranno candidati dell’opposizione. A meno che, ma sarebbe davvero una sorpresa, Renzi, e non solo Pisapia, trovi il modo per bussare alla porta della Boldrini.
Corriere 9.11.17
La Cosa rossa è pronta, Grasso sarà il leader Il logo? Senza «Sinistra»
Il vertice al Senato. Sul nome i paletti di D’Alema
di Alessandro Trocino
ROMA Non ci saranno candidati alternativi all’assemblea di domenica, indetta da Articolo Uno-Mdp, Sinistra italiana e Possibile. Tutti insieme proporranno come leader quello che Massimo D’Alema considera «un valore aggiunto importante», «una grande personalità che gode di rispetto, è autorevole e sa comandare». Ovvero Pietro Grasso, presidente del Senato. Che ieri ha incontrato a Palazzo Giustiniani i tre segretari delle formazioni che domenica all’«Atlantico Live» di Roma lanceranno la nuova proposta politica, Nicola Fratoianni (Sinistra italiana), Roberto Speranza (Mdp) e Pippo Civati (Possibile).
Non si sa ancora se Grasso sarà votato o eletto per acclamazione, ma ormai la sua leadership a sinistra sembra sicura. Domenica non si parlerà ancora del simbolo (bisognerà aspettare probabilmente fino a Natale), mentre ancora si sta discutendo del possibile nome della nuova formazione. Tra i più accreditati ci sono «Italia progressista», «Futura», «La sinistra» e «Libertà e uguaglianza».
«Liberi e uguali» non dispiacerebbe a Pippo Civati, come spiega a Un giorno da pecora : «Soprattutto il riferimento all’uguaglianza a me piace molto. Quindi sì, sarebbe un bel nome». D’Alema, invece, a testimonianza del fatto che la scelta del nome non è solo simbolica ma ha un’importanza tutta politica, spiega: «Come si chiamerà non lo so, lo decideranno in queste ore altri. Ma la parola sinistra non ci sarà. Ci sono state 151 assemblee con 45 mila persone, la maggior parte non inquadrate in nessun movimento. Il processo ha visto una partecipazione larga, dal basso, con una piattaforma ampia. La parola sinistra non rende l’idea. È un’audience più larga, per usare un linguaggio televisivo».
Non si tira indietro, invece, D’Alema, all’idea di candidarsi: «Io sono stato parlamentare sempre e soltanto del Salento. E se i miei elettori mi vorranno candidato, sarò disponibile». Il lìder Maximo non contempla la falsa modestia nel suo armamentario: «Io sono sempre stato candidato in un collegio uninominale. E ho sempre vinto, in un collegio, quello di Gallipoli, dove la sinistra aveva sempre perso».
Pier Luigi Bersani è soddisfatto e spiega che il «3 dicembre metteremo in moto un percorso nuovo, una sinistra plurale e civica che proporrà al Paese di ridurre le disuguaglianze». Margini per un’intesa con il Partito democratico, ormai, non ce ne sono più: «Quelli che votano noi non votano Pd. Se lo scordino. Il Pd a traino renziano è stato rifiutato più volte». Quanto al voto utile, «sarà con chi non va con la destra». Anche se, ammette Bersani, «con questa legge elettorale balorda, ci sono tutti i rischi che si vada di nuovo alle elezioni in estate».
La presidente della Camera Laura Boldrini, intanto, prova a frenare le voci su una sua discesa in campo, come spiega un comunicato stampa di Montecitorio: «Sui quotidiani degli ultimi giorni sono apparse supposizioni e presunte notizie circa la futura collocazione politica di Laura Boldrini. La presidente della Camera ricorda che è in arrivo a Montecitorio un provvedimento importante, complesso e delicato come la legge di Bilancio. Fino alla conclusione dell’esame — che impegnerà Commissioni e Aula nelle prossime settimane — si atterrà esclusivamente ai suoi doveri istituzionali. Solo successivamente farà conoscere le sue scelte rispetto alle prossime elezioni».
La Stampa 9.11.17
Dal Pavese al Sichuan: partito il primo treno che collega Italia e Cina
Trasporta merci per 11.000 chilometri in 18 giorni
di Alberto Mattioli
Alla fine, il treno è partito con dieci minuti d’anticipo rispetto all’orario annunciato ai giornalisti, 11,50 invece che mezzogiorno, e questa sarebbe già una notizia. Quella importante è che si tratta del primo merci dall’Italia alla Cina, per la precisione da Mortara a Chengdu, due località che da ieri in comune non hanno più solo la prevalenza delle risaie ma anche una linea ferroviaria diretta. Diciotto giorni di viaggio per fare gli 11 mila chilometri che separano la Lomellina dal Sichuan, decisamente meno dei 40-45 che ci mette una nave. Anche e forse soprattutto nella logistica, il tempo è denaro.
Per Mortara, 15 mila abitanti, nota soprattutto per il suo salame d’oca, è l’evento più eclatante da quando, a inizio Settecento, passò dagli spagnoli ai Savoia. La posizione è strategica, fra Milano, Torino e Genova, vicino alle autostrade e non lontana da un grande porto. Del Polo logistico integrato è azionista al 99,85% la Fondazione Banca del Monte di Lombardia, che dal 2009 ci ha investito 87 milioni di euro, «ma arriveremo a cento», annuncia il suo presidente, Aldo Poli. La Regione Lombardia ha contribuito con un decimo della somma, 8,7 milioni, il governo di Roma, per ora, con una lettera di felicitazioni del ministro delle infrastrutture Graziano Delrio.
Dall’altra parte, i cinesi, che da quando hanno scoperto il capitalismo si sono abituati a fare le cose in grande. Quello della nuova Via della Seta, ricorda Poli, è un progettino da 800 miliardi di dollari che renderà la Cina molto più vicina all’Occidente di quanto lo sia mai stata. Del resto, non è che l’Italia sia stata proprio prontissima a cogliere l’attimo: questo da Mortara è il tredicesimo collegamento ferroviario merci diretto fra Europa e Cina.
La cerimonia d’inaugurazione, in ogni caso, promette bene, come se la vecchia cara provincia italiana si risintonizzasse sulla lunghezza d’onda della globalizzazione. Ci sono dappertutto bandiere italiane e cinesi, c’è la banda che suona gli inni e poi «’O surdato ‘nnammurato» che fa sempre tanto Italia, ci sono le autorità civili e militari, i notabili locali, gli esperti internazionali di logistica, e si ringrazia di essere intervenuto sua eccellenza il prefetto di Pavia. Soprattutto, ci sono i cinesi, in primis il magnate Shijiu Bo, fondatore e presidente del colosso della logistica Changjiu, personaggio chiaramente molto importante e altrettanto compiaciuto dell’operazione. Cita l’immancabile Marco Polo e l’inevitabile proverbio cinese: «Una delle cose più belle della vita è incontrare amici che vengono da lontano». Applausi, flash, strette di mano, la soddisfazione è palpabile.
Plaudenti, e il dettaglio è interessante, anche i leghisti. Mortara è una delle loro città, il sindaco Marco Facchinotti al secondo mandato alla guida di un monocolore del Carroccio. Dalla Padania hanno sempre tuonato contro il dumping commerciale cinese, l’invasione delle merci taroccate, il pericolo giallo. Ma il capogruppo leghista al Senato, Marco Centinaio, di Pavia, spiega che l’occasione era troppo ghiotta, che se arriveranno delle merci dalla Cina ne partiranno però anche per la Cina e insomma, testuale, «business is business». All’assessore alle Infrastrutture della Regione, Alessandro Sorte, di Forza Italia, la battuta è servita su un piatto d’argento: «Ancora una volta la Lombardia è la locomotiva d’Italia».
Intanto la locomotiva, quella vera, parte con un grande striscione in ideogrammi sulla fiancata. Non a pieno carico, ma sono pur sempre una ventina di container zeppi di macchinari, mobili, piastrelle e automobili, insomma il solito «Made in Italy» che piace a tutti, figuriamoci ai cinesi. Approfittando della recente riduzione dei dazi doganali della Repubblica popolare, si esporteranno anche moda, vino, cibo e perfino il riso, che è un po’ come vendere il ghiaccio agli eschimesi. Però, spiega Poli, «il nostro riso è molto diverso dal loro» (e aggiungiamo pure: migliore).
A regime, da gennaio, si parla di due coppie di treni settimanali, ma qui ogni intervenuto, cinese o italiano, fa previsioni diverse. Si tratta, in sostanza, di un esperimento: se funzionerà, sarà facilissimo potenziare i collegamenti. «Come ogni novità, il problema principale è far sapere che esiste e farlo capire al mondo imprenditoriale italiano. Ma il primo convoglio non è uno spot: è l’inizio di un rapporto», spiega Andrea Astolfi, presidente del Polo. Intanto l’Orient-Express dell’import-export è partito. Adesso si tratta di farlo fruttare.
il manifesto 29.11.17
Mentre Xi sfratta i migranti la Nuova via della seta arriva in Italia
Cina. A Pechino migliaia cacciati da casa in una campagna di 40 giorni per la sicurezza e contro i lavoratori migranti. Da Mortara, Pavia, parte il primo treno per Chengdu a unire Cina e Italia nella Nuova via della seta
di Simone Pieranni
Ieri è partito il primo treno merci diretto Italia-Cina. Dal terminal ferroviario del polo logistico integrato di Mortara, in provincia di Pavia, il convoglio affronterà un viaggio lungo 10.800 chilometri e 18 giorni. A metà dicembre arriverà a Chengdu e poi effettuerà il viaggio di ritorno.
ALL’ANDATA porterà prodotti italiani, al ritorno prodotti cinesi. Si tratta dell’ennesimo viaggio su rotaie dalla Cina all’Europa dopo quello con destinazione Madrid, inaugurato nel 2014, e quello per Londra, inaugurato a inizio del 2017.
Tutto questo fa parte del mastodontico progetto della Nuova via della seta (yi dai yi lu), voluto fortemente da Xi Jinping e inserito nello statuto del partito comnista al recente congresso: si tratta di un disegno che coinvolgerà 65 paesi, oltre 4 miliardi di persone a dimostrare la nuova postura internazionale della Cina. E questa rinnovata determinazione «globale» cinese sembra avere distratto un po’ tutti da alcuni nodi che invece animano l’interno della Cina.
A dimostrazione di questo, in uno strambo gioco temporale, proprio mentre il treno da Mortara iniziava la sua lunga corsa, a Pechino inizia un terribile vagabondare di migliaia di lavoratori migranti improvvisamente sfrattati dalle proprie abitazioni e lasciati con qualche borsa, vestiti ed effetti personali per strada, proprio nel momento in cui nella capitale cinese scende l’inverno solitamente gelido.
QUESTA CAMPAGNA di 40 giorni decisa dal governo per sfrattare i lavoratori migranti da abitazioni, capannoni industriali, piccoli negozi, i luoghi dove persone con pochi soldi possono ormai trovare riparo nella costosa Pechino, segue una tragedia avvenuta una settimana fa. In un quartiere meridionale di Pechino le fiamme hanno infatti provocato la morte di almeno 19 persone di cui sette bambini. L’edificio colpito dal fuoco è uno dei tanti dove vivono i lavoratori migranti: con questo precedente e la volontà di combattere gli abusi edilizi e per garantire «la sicurezza» ai cittadini il governo ha deciso dunque di ripulire la città da questi assembramenti per fare posto a nuove e scintillanti strutture. Pechino, infatti, per volere della dirigenza dovrà assomigliare sempre più a una vetrina internazionale dove possano vivere e consumare solo gli appartenenti alla novella middle class locale. Il problema è che, come qualcuno ha fatto osservare sui social media, le persone sfrattate e probabilmente costrette a lasciare la città sono quelle che garantiscono alla classe media il delivery dei propri acquisti o,ad esempio, lo scorrazzamento per la città (grazie agli autisti, per lo più migranti); dopo che la prima generazione di migranti interni si era messa sulle spalle il miracolo economico cinese, questa nuova generazione è la manovalanza del boom dell’e-commerce locale.
CONTRO L’AZIONE DEL GOVERNO centrale di Pechino sono insorti un centinaio di intellettuali che hanno firmato una petizione contro la «campagna», ma ancora più rilevante è stata la reazione della popolazione locale e dei media statali. Non sono mancati esempi e manifestazioni di solidarietà nei confronti degli sfrattati, mentre la stampa controllata dal partito comunista, più o meno indirettamente, anziché non riportare quanto accaduto, come spesso accade, o sostenere la decisione del Pcc, ha deciso di optare per una critica seppure molto soft.
PERFINO IL GLOBAL TIMES, quotidiano nazionalista e spesso concorde con le posizioni più dure del governo, ha ritenuto la campagna eccessiva in questo momento dell’anno. Agli sfratti, infatti, non è seguita alcuna proposta sulla sistemazione delle persone cacciate.
Un segnale minimo, ma importante: la trasformazione della Cina da paese trainato dalle esportazioni a paese trainato dal mercato interno comporta decisioni molto complicate: gestire una massa ingente di persone che arrivano nella capitale alla ricerca di un lavoro e tentare di rimandarle alle proprie città di origine, provando a sviluppare anche lì mercato interno, servizi e infrastrutture, potrebbe rivelarsi un problema, finendo per minare quel «mantenimento della stabilità» che costituisce il vero mantra «interno» della dirigenza cinese.
Repubblica 29.11.17
Commercio
Nuova tratta per la Cina
Il treno che apre la (ferro)via della seta
Mortara, partito il primo merci per Chengdu In diciotto giorni porterà mobili e macchinari
di Ettore Livini,
MORTARA ( PAVIA)
Un serpentone di metallo lungo 420 metri, carico di piastrelle, componenti auto, mobili e macchinari ha cambiato ieri per sempre i rapporti tra Italia e Cina accorciando di 17 giorni la distanza (commerciale) tra i due paesi. Il fischio del capotreno è arrivato puntuale alle 11 al Polo logistico di Mortara, tra le risaie della Lomellina. La locomotiva E483 ha scaricato i suoi 300 kilonewton di potenza sulle rotaie. Un centimetro alla volta, con un cigolio di ferraglia, il convoglio numero 80174 — 34 container da 40 piedi, peso mille tonnellate — si è messo in moto.
Destinazione: Chengdu, Cina.
«Mi sento un po’ Marco Polo» dice Shijiu Bo, presidente di Changjiu, regista dell’operazione. Esagerazione?
Nemmeno troppo. Il viaggio del treno 80174 — durata 18 giorni, lunghezza 10.800 km — inaugura il servizio merci di linea su rotaia tra Italia e Cina.
Ed è la prova su binari della rapidità con cui la nuova Via della seta, la rivoluzione infrastrutturale da 140 miliardi voluta da Xi Jinping, sta avvicinando Europa e Cina.
«Stasera alle 22.40 saremo a Tarvisio» promette salutando dal finestrino il macchinista Carlo Morante. «Partiamo con viaggio alla settimana, presto raddoppieremo a due», assicura Aldo Poli, presidente di Fondazione Banca Monte di Lombardia, primo socio del centro di Mortara. L’obiettivo non è nemmeno troppo ambizioso: il trasporto merci su rotaia da Pechino al Vecchio continente è quintuplicato dal 2013 rubando centinaia di tonnellate alle stive delle navi e ai cargo aerei. «I treni hanno un rapporto costi/benefici migliore» spiega Gang Chen, di Changjiu Logistics. Spedire un container da 9,6 tonnellate in jet costa 50mila dollari, su rotaia 8mila, via mare 3mila. Ma il viaggio in nave dura 35 giorni, 17 in più della ferrovia. E per i prodotti che patiscono l’umidità, come i mobili in legno, il binario è una scelta (quando c’è) obbligata.
Trovare la linea più dritta tra Italia e Cina nella ragnatela di collegamenti ferroviari mondiale non è stato facile: «Abbiamo dovuto dribblare il gelo sui tratti in quota, le aree ad alta instabilità politica, i passi alpini con gradienti di salita troppo elevati per carichi così pesanti», racconta Cheng. Non tutti i problemi però sono stati risolti: «In Russia, Bielorussia e Kazakistan la distanza tra le rotaie sale dai 143,5 di Europa e Cina a 153,5 cm», dice Morante.
Risultato: il viaggio del treno 80174 («velocità di crociera 100 km/h» garantisce orgoglioso il macchinista) si spezzerà in tre: i container saranno trasportati dalle gru a un convoglio a passo più largo in Polonia per tornare su uno “normale” dopo Astana.
A complicare le cose l’embargo alla Russia e le frizioni sull’asse Mosca-Pechino. «I treni che partono da Mortara non potranno trasportare prodotti alimentari per le sanzioni contro Putin», dice Cheng. E Xi Jinping — per cautela — ha investito altri miliardi nella Baku-Tbilisi-Kars, linea “di scorta” che taglia fuori la Russia via Azerbagian, Georgia e Turchia con due traghetti per treni attraverso Mar Caspio e Dardanelli.
La lunga marcia della nuova Via della Seta — oliata via mare, terra e aria dai miliardi messi a disposizione dallo Stato — non si ferma del resto davanti a nulla.
Mortara è la tredicesima destinazione europea su strada ferrata. Scelta per la posizione strategica all’incrocio tra il corridoio Genova-Kiev e il Genova-Rotterdam. «Se l’Italia farà squadra ci sono grandi opportunità di crescita — garantisce il presidente del polo Andrea Astolfi — anche perché la Cina ha appena ridotto i dazi doganali». I container porteranno in Oriente farmaci, arredamento, vino, birra whisky, abiti delle griffe, chimica e componentistica auto. Al ritorno si riempiranno di iPad usciti dagli stabilimenti Foxconn, pc, piante, prodotti per la casa, oggetti di cuoio. Un giorno, magari, ci saranno pure scompartimenti per passeggeri.
«Trasportiamo merci e cultura come i cammelli e i cavalli di Marco Polo» filosofeggia Bo tagliando il nastro tricolore.
Intanto ha obbligato l’organizzazione ad appiccicare sul muso verde-argento della E483 una coccarda rossa. «Porta fortuna», dicono gli assistenti.
La banda suona l’Inno di Mameli. I primi 34 container sono partiti per Chengdu. E la Cina, vista oggi da Mortara, sembra davvero dietro l’angolo.
La Stampa 29.11.17
La sfida in Africa
ì dell’Unione Europea al rivale cinese
di Stefano Stefanini
Oggi e domani, Europa e Africa celebrano la partnership col 5° vertice Ue-Unione africana (Ua) ad Abidjan. Contemporaneamente, una delegazione economica cinese ad alto livello è in Marocco, che da un paio d’anni Pechino ha individuato come porta dell’Africa, accoltavi col tappeto rosso. La gara fra Cina ed Europa si corre (anche) in Africa.
Prima ai blocchi di partenza, l’Ue sta subendo il sorpasso di Pechino che opera con una spregiudicata penetrazione di massicci progetti e investimenti , come la città industriale di 300 mila abitanti che il gruppo Haite intende costruire ex novo nei pressi di Tangeri, con la benedizione di re Mohammed VI e del presidente Xi Jinping. Con la stessa rapidità e risolutezza la Cina si sta insediando da un angolo all’altro del continente, dal Kenya all’Angola, dalla Nigeria al Congo.
Abidjan può essere una risposta europea a due condizioni: che sia alleggerito il ciarpame declaratorio; che seguano, in tempi ragionevoli, iniziative concrete e tangibili. Non sarà facile. Ue e Ua sanno come soddisfare le rispettive esigenze politico-burocratiche ma non hanno il controllo dell’effettivo impatto su economia e investimenti. Pechino opera invece al contrario. L’onere dei seguiti sarà soprattutto europeo. A fronte di una penetrazione cinese spesso capillare (basta pensare a Huawei), occorre che gli africani vedano crescere la presenza europea e ne avvertano i benefici.
L’Africa è importante per più di un motivo. È la parte del mondo con il maggior potenziale di crescita e di sviluppo; può essere il miracolo della prima metà del secolo XXI, come l’Asia lo è stato negli ultimi 30-40 anni. I partner naturali sono Europa, Cina e, forse, Brasile, più che Stati Uniti o la psicologicamente lontana Russia. Il legame con l’Europa è geografico, con il Mediterraneo da anello di congiunzione (pensiamo ai viaggi di Ulisse), e storico; pur controverso, il passato coloniale ha lasciato una rete di collegamenti culturali ed economici. Il rapporto con la Cina è meno diretto (l’Oceano Indiano è ben largo) ma risponde a una logica d’interdipendenza. L’Africa è il versante Sud della variante marittima della nuova via della Seta; Pechino è affamata di materie prime e di energia che il continente possiede.
La Cina ha bisogno dell’Africa; è ormai una potenza globale ma la sua sfida è più debole in altre parti del mondo, come l’America Latina, vuoi perché si misura con altri grandi Paesi emergenti come Brasile e Messico, vuoi per la concorrenza Usa. Per motivi diversi, l’Europa ne ha altrettanto (se non più) bisogno. Si possono ridurre a tre: demografia, stabilità politica e sicurezza.
Con un tasso di natalità su punte del 40-30 per mille in alcuni dei Paesi più popolosi, come la Nigeria (poco meno di 200 milioni), si stima che l’attuale circa miliardo di africani possa raddoppiare in trent’anni. Rebus sic stantibus non c’è verso che questa crescita non si traduca in un’ondata migratoria, spinta anche da cambiamenti climatici, Stati falliti, penetrazione jihadista e rivalità tribali. Per ridurre la pressione ed evitare focolai di minaccia, l’Europa ha bisogno di un’Africa prospera e politicamente stabile. Questo il senso di un’autentica parthership fra i due continenti.
Con un’agenda che parla di giovani, occupazione, governance, pace e sicurezza, vertice di Abidjan lo ha ben presente. In questi campi l’Ue è certamente davanti alla Cina e gli africani lo sanno. L’imperativo categorico rimane però far crescere l’Africa attraverso commercio e investimenti. Senza sviluppo economico e sociale, il resto, per quanto importante, rimane solo parole.
La concorrenza cinese è brutalmente spregiudicata perché Pechino fa poche domande su democrazia, diritti umani, stato di diritto o su trasparenza degli affari e corruzione. Per l’Ue sono invece linee rosse da rispettare. Tenerle ferme è anche nell’interesse dell’Africa, lo dimostra la gioia nelle strade di Harare dopo la caduta di Robert Mugabe. I principi vanno tuttavia accompagnati da un radicale snellimento e alleggerimento delle procedure e da un pragmatismo che guardi all’impatto sulle condizioni di vita e ai risultati nella crescita. In Africa l’asticella della trasparenza e della governance non può essere collocata alla stessa altezza dell’acquis comunitario. Altrimenti si fa un torto agli africani e un regalo alla Cina.
il manifesto 29.11.17
Stefano Rodotà, la dignità sociale dell’uomo
di Gaetano Azzariti
Alle origini della riscoperta della dignità – nel secondo dopoguerra – ci fu la reazione agli orrori che avevano portato non solo ad una guerra come tante altre del passato, ma ad una guerra di distruzione contro l’umanità, contro la stessa idea di umano: l’olocausto, Auschwitz, ma anche la bomba atomica avevano oltrepassato ogni limite. Per salvare l’umanità bisognava ricordarsi che non basta sopravvivere alle tragedie.
Subito dopo la guerra, nel 1947, la Costituzione italiana fu la prima al mondo ad individuare nel principio di dignità la leva del riscatto. Ne fa esplicito riferimento in tre articoli, operando un gioco di rinvii di straordinario valore.
L’anno successivo la dignità aprirà la Carta dei diritti dell’Onu. L’8 maggio del 1949 sarà la volta della legge fondamentale tedesca. Da allora nessuno ha più contestato il valore della dignità umana. Un successo, indubbiamente.
Non si può però tacere che, spesso – e forse sempre più – è apparso anche un successo fatto più di parole che non di concrete azioni. Tant’è che – in seguito – persino delle guerre sono state dichiarate in nome della dignità di popoli offesi, contro altri popoli ritenuti indegni. Ciò è potuto accadere perché è prevalsa la retorica dei concetti sulle istanze materiali che questi stessi concetti vogliono tutelare.
Il contributo straordinario di Stefano Rodotà credo sia stato quello di aver fornito una ricostruzione della dignità antiretorica e storicamente fondata. Sottolineo solo tre passaggi della sua riflessione che ritengo possano dare il senso della profondità del suo pensiero.
UNO. Per Rodotà la dignità è un mezzo per fare assumere «una rilevanza primaria alla condizione reale della persona». Scriverà che è necessario passare dal soggetto astratto alla persona concreta. Per questo ciò che deve essere assicurato non è tanto la dignità immateriale, quanto la più specifica dignità «sociale», così com’è esplicitamente scritto in Costituzione. Una dignità che, dunque, non può essere solo individuale, ma che deve investire per intero la vita di relazione. In tutti i suoi momenti anche – anzi soprattutto – in quelli più drammatici. Esiste una dignità del vivere, esiste persino quella del morire, ci ha ricordato in tanti suoi scritti.
DUE. Su quale fondamento ciò si rende possibile? Le gambe su cui si regge la ricostruzione della dignità di Stefano Rodotà sono due: la storia e la norma.
È, infatti, l’attenzione alla storia che porta Rodotà ad affermare che la nuova antropologia dell’homo dignus è il frutto di una specifica evoluzione storica. Ma, al contempo, è anche il risultato di una «grande operazione giuridica».
Sono la storia e il diritto, assieme, che hanno finito per produrre una netta cesura rispetto alla diversa antropologia che aveva dominato il secolo XIX: quella dell’individualismo proprietario.
Un’antropologia, quest’ultima, che aveva trovato la sua massima espressione nel Code civil, voluto da Napoleone, nel momento in cui mise fine alla rivoluzione francese. Imponendo un modello di regolazione che pose al centro del vivere civile un «terribile» diritto, quello di proprietà; e che ha configurato l’individuo come soggetto isolato.
Ciò ha certamente favorito la crescita del capitalismo, forse ne è stato un suo presupposto necessario, ma ha dovuto pure dare per scontato che il lavoro potesse essere indegno, così come indegna poteva essere la vita delle persone concrete.
Questo il modello dominate nell’Ottocento, che non ha retto dinanzi alla rivoluzione della dignità. Un radicale cambiamento fu reso possibile – sono parole di Rodotà – «attraverso la costituzionalizzazione della persona».
TRE. Che vuol dire, in concreto? Qual è stato il processo storico reale che ha determinato questo ribaltamento?
Il punto di partenza della riflessione di Rodotà è esplicito. Lo ha sintetizzato meglio di ogni altro Luigi Mengoni, con queste semplici e lineari parole: «Il modello antropologico dell’individualismo proprietario è stato corretto dal diritto del lavoro», volendo in tal modo indicare che la nuova antropologia è stata fissata con la scrittura dell’articolo 1 della nostra Costituzione, che qualifica il nostro ordinamento democratico in quanto fondato sul principio-valore del lavoro.
Rodotà va oltre, guardando alla radice di questa trasformazione, riuscendo a fornire non solo alla dignità, ma anche al lavoro, una dimensione propriamente costituzionale. Non solo gli articoli 1 (lavoro) e 3 (dignità sociale), ma è l’intera Costituzione che si pone alla base di questo cambiamento.
È qui che Rodotà ha dimostrato la sua grandezza di giurista impegnato. In quelle straordinarie pagine ove egli, in un crescendo progressivo, esamina le connessioni tra il principio di dignità e gli altri principi costituzionali.
Non si limita ad esaminare – magis ut valeat – i pur fondamentali articoli che richiamano direttamente il concetto di dignità: l’eguaglianza dei cittadini come mezzo per assicurare la pari dignità sociale ai sensi dell’articolo 3; la retribuzione dei lavoratori come condizione per assicurare un’esistenza libera e dignitosa secondo le auliche espressioni dell’articolo 36; i limiti all’iniziativa economica privata che non può in nessun caso svolgersi in contrasto con la dignità umana come impone l’articolo 41. Forse già questo sarebbe sufficiente.
RODOTÀ, PERÒ, VA OLTRE. Egli dimostra, in uno straordinario giuoco di rinvii, come sia la Costituzione per intero a dover essere interpretata alla luce del principio di dignità. Così l’articolo 1, che rinviene il fondamento democratico della Repubblica nel lavoro. Così, ancora, l’articolo 2, sui diritti inviolabili e lo sviluppo della personalità, e così via. Come ebbe a riassumere: la dignità in sostanza porta a una «complessiva ricostruzione del sistema costituzionale».
A questa ricostruzione di fondo Rodotà ha improntata il suo lavoro scientifico, ma anche il suo impegno civile. Basta qui ricordare la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, alla cui stesura contribuì in modo decisivo. Non solo l’articolo d’apertura, ma l’intero primo capo è integralmente dedicato alla dignità.
Un ultimo punto che è però decisivo. È legittimo interrogarsi se sia sufficiente proclamare la dignità perché questa sia assicurata. Voglio rispondere con le sue parole a questa fondamentale domanda: «Bisogna chiedersi, a questo punto, se la dignità non sia un fondamento troppo fragile per reggere tante sfide, indebolita dalla sua stessa polisemia, da intime ambiguità, da indeterminatezza». Tanto è consapevole Rodotà dei rischi che si corrono che nel suo testo più significativo – il diritto di avere diritti – fa seguire al capitolo sulla dignità un altro che si intitola «Diventare indegni».
C’è però un passaggio di Rodotà che può spiegare perché, nonostante tutto, la dignità rappresenta un valore che non può essere abbandonato. «La dignità appartiene a tutte le persone», quale che sia la sua condizione e il luogo in cui si trova. È per questo che della dignità non possiamo fare a meno. Anche se non potremmo mai darla per scontata. È una conquista da rivendicare ogni giorno.
È stata l’attenzione alla vita prima delle regole che ha portato Rodotà a definire la dignità delle persone concrete. È questa la dignità sociale di cui parla la Costituzione, è questa la dignità di Stefano Rodotà.
Testo dell’intervento al convegno La vita prima delle regole – Idee ed esperienze di Stefano Rodotà tenutosi alla camera dei deputati lunedì 27 novembre.
Il Fatto29.11.17
Israeliani e palestinesi. Il paradosso di Bertrand Russell vale ancora oggi
La stampa italiana non ne ha parlato, non so quella estera. Ma la notizia è molto preoccupante e deve allertare tutti i democratici. La terza sessione del Tribunale Russell sulla Palestina, a cui hanno partecipato giuristi e intellettuali di tutto il mondo, ha dichiarato ufficialmente che il popolo palestinese è “soggetto a un regime istituzionalizzato di dominazione che integra la nozione di apartheid come definita in diritto internazionale”. E continua sostenendo che se la situazione sudafricana e quella israelo-palestinese sono diverse da un punto di vista storico e di contesto, molte delle pratiche israeliane superano, addirittura, a livello di discriminazione e oppressione, quelle della realtà sudafricana.
Ezio Pelino
Tra Sudafrica e Israele nei decenni della Guerra fredda è scorso sotterraneo uno scambio fruttuoso di know-how sulla Bomba atomica. I due regimi, accomunati dal “Tribunale (di opinione) Russell” nell’apartheid e nel “sociocidio” (neologismo che ricorda il genocidio ma di potenza lessicale e immaginifica assai ridotta), hanno indugiato a lungo in una proficua alleanza bellica che secondo gli autorevoli membri della commissione (riunita per la conclusione dei suoi lavori proprio in Sudafrica) era prima di tutto di adesione a una certa visione (razzista, viene detto) del mondo.
Il destino del Sudafrica è poi passato dal bianco e nero all’arcobaleno, Mandela è diventato popolare quanto Lady D compiendo un miracolo anche mediatico che nemmeno Madre Teresa, e ora l’apartheid dell’ex colonia britannica contesa ai boeri è solo sociale ed economico.
Da Israele invece i palestinesi continuano a subire – non solo secondo il Tribunale senza pena che porta il nome del suo fondatore, il filosofo e molto altro Bertrand Russell, ma anche per diversi organismi internazionali – da decenni un’emarginazione e un trattamento da casta inferiore (a proposito, Gandhi esordì come avvocato dedito alla non violenza proprio in Sudafrica) che sembra non avere soluzione, sballottati tra le faide dei propri rappresentanti politici (Fatah e Hamas riconciliati apparentemente di fresco) e il disinteresse della comunità internazionale (chi grida più: giù le mani dal valoroso popolo palestinese?). Nel 1929 una commissione britannica guidata dal giudice Walter Russell Shaw condannò sia arabi che israeliani per le reciproche violenze. Dunque vale sempre il detto “La causa fondamentale dei problemi è che nel mondo moderno gli stupidi sono sicuri di sé mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi” (Bertrand Russell).
Stefano Citati
La Stampa 29.11.17
In Birmania il Papa tra fede e realpolitik
di Gian Enrico Rusconi
La Stampa TuttoScienze 29.11.17
Arrivano le protesi neurali:
“Potenzieremo la mente e parleremo con il pensiero”
Le ricerche fantascientifiche tra cellule e bytes
di Fabio Sindici
«Lo stato della tecnologia delle interfaccia tra un cervello umano e uno elettronico equivale a due supercomputer che cerchino di dialogare tra loro usando un vecchio modem a 300 baud». L’autore della metafora è Philip Alvelda, ex scienziato della Nasa, ora della Darpa, l’agenzia del Pentagono per i progetti avanzati di difesa.
Alvelda sa qualcosa delle «Bci», le «Brain Computer Interface», i canali sempre più sofisticati - ma ancora non abbastanza - per collegare neuroni e transistor, sinapsi e algoritmi: è il program manager del «Nesd», il «Neural Engineering System Design», uno dei filoni di ricerca più ambiziosi della Darpa sulla strada della simbiosi tra uomo e macchine. L’obiettivo è creare dispositivi in grado di ricevere segnali distinti e precisi da un milione di neuroni. Le interfaccia oggi in uso, invece, riescono ad aprire fino a 100 canali, in ciascuno dei quali si aggregano e si confondono gli impulsi di migliaia di neuroni. Il risultato è simile a una chiacchierata tra radioamatori d’antan in una tempesta.
Le applicazioni potenziali e futuribili di questa tecnologia sono molteplici, dal recupero delle funzioni di vista e udito al potenziamento della memoria e delle facoltà di apprendimento. Ma il «Nesd» è solo uno dei programmi finanziati dalla Darpa, che ha a disposizione un budget di 3 miliardi di dollari. Tra i più fantascientifici, c’è l’«ElectRX», destinato a progettare un micro-impianto nel sistema nervoso periferico, anziché nel cervello. Le dimensioni dovrebbero essere quelle di una fibra nervosa e l’impianto registrerebbe il funzionamento degli organi vitali, trasmettendoli a un server. Non solo. La funzione sarebbe quella di un peacemaker intelligente che, agendo sulla neuromodulazione, aiuterebbe il corpo umano a curarsi da solo. È il sogno della medicina olistica, che si è incarnato per ora solo in personaggi dei fumetti e del grande schermo, come «Wolverine» (che è, guarda caso, frutto di un esperimento militare).
Se la Darpa è in prima linea nel finanziare i test sulle connessioni macchine-cervelli, a creare il termine «Bci» è stato, negli Anni 70, Jacques Vidal della University of California at Los Angeles: all’inizio gli accademici californiani sviluppano neuroprotesi in cui il sistema nervoso viene collegato a un dispositivo elettronico, ma il salto avviene a partire dal 2000, con la connessione con i computer. Matt Nagle, tetraplegico, è stata la prima persona, nel 2005, a controllare una mano artificiale grazie a una «Bci».
Oggi la corsa al supercervello vede la ricerca militare (non solo negli Usa, ma anche in Cina e Russia) in competizione con Silicon Valley. Il traguardo non è solo il recupero di aree danneggiate del cervello, ma il suo potenziamento. Elon Musk, l’imprenditore di SpaceX e Tesla, ha lanciato Neuralink, start-up mirata a produrre un enigmatico «laccio neurale», primo passo verso la progressiva fusione tra intelligenza umana e digitale. Intanto Mark Zuckerberg promette che gli utenti di Facebook comunicheranno con il pensiero, ma sempre attraverso i server di FB, ovviamente. La divisione sperimentale di Menlo Park lavora a un sistema di «optical neuro-imaging» che permetterebbe a un individuo di digitare 100 parole al minuto, direttamente dalla propria testa a un pc.
Un passo avanti agli altri, almeno in apparenza, è stato compiuto da Bryan Johnson, che ha venduto la sua Braintree al colosso Paypal e ha reinvestito 100 milioni di dollari nella Kernel, con l’obiettivo di sviluppare algoritmi e dispositivi in grado di tradurre pensieri in bytes e bytes in memoria. Un primo test è avvenuto su una paziente affetta da epilessia. Poi Johnson e Theodore Berger - il creatore dell’algoritmo - hanno preso strade divergenti e così, oggi, il consulente principe della Kernel è Ed Boyden, direttore del Synthetic Neurobiology Group al Mit di Boston.
Proprio al Mit si lavora a micro-computer organici nelle cellule e Johnson, secondo alcune indiscrezioni, studia un prototipo di neuromodulatore in grado non solo di stimolare i neuroni, ma di leggerne i segnali e di tradurli. «La neuromodulazione è una delle prospettive più intriganti - dice Silvestro Micera, neuroscienziato che guida il team d’ingegneria neurale dell’Istituto di Biorobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa -. Ci sono sistemi di neuromodulazione esterni, usati su pazienti depressi. Quanto agli impianti, siamo alla vigilia di una rivoluzione neuro-bio-digitale. In teoria un giorno caricheremo nella mente programmi per giocare a golf o fare il kung fu, come fossero un’app. Come in Matrix, per intenderci». E intato l’utopia del pianeta connesso in una Internet neurale si scontra con la distopia di un’umanità trasformata in superorganismo. Simile a un formicaio.
La Stampa TuttoScienze 29.11.27
Cervello
Il vero e il falso su quello che si può fare con i neuroni
Perché non è possibile imparare una lingua straniera in appena sette giorni e perché la volontà supera ostacoli impensabili: le scoperte inattese di Mariano Sigman
di Marco Cambiaghi
Come si può imparare il cinese o un’altra lingua di cui non sapete nulla in 7 giorni? Come posso migliorare le capacità mnemoniche dopo una lezione online? Ho rivolto queste domande a Mariano Sigman, neuroscienziato argentino che si dedica allo studio dei processi decisionali e delle dinamiche cognitive complesse. La sua risposta, a dire il vero, non ha nulla di complesso e si può riassumere in tre parole: «Non è possibile». E si prova un po’ di delusione, visto che i pop up con cui dobbiamo combattere non appena apriamo un sito web sostengono il contrario.
Sigman - insignito della Medaglia Pio XI della Pontificia Accademia delle Scienze - affronta i confini, più o meno noti, del cervello nel suo nuovo libro «La vita segreta della mente» (Utet), dedicando molto spazio a capire che cosa succede nella nostra testa quando impariamo un nuovo concetto o una nuova abilità. Qualche mito è da demolire, mentre altri sono da smussare. Vediamoli.
Con l’età adulta il nostro cervello fa più fatica ad imparare. Falso! «Se con il tempo cambia qualcosa, è la nostra motivazione che si arena nella noia e nella difficoltà di apprendere qualcosa di nuovo», ci spiega Sigman. Per imparare servono tempo e impegno: «I bambini dedicano mesi e anni della loro vita a imparare a parlare, camminare o leggere. Quale adulto può permettersi tutto questo per imparare una cosa nuova?». In effetti, un radiologo, che in un attimo identifica stranezze che nessun altro vede in una lastra, ha imparato a «leggere» questo tipo di scrittura dopo anni di esercizio quotidiano.
Vedere per imparare non basta. Vero, almeno in parte. «Ci sono informazioni che il cervello non può richiamare esplicitamente: pensate a una persona che fa spesso lo stesso tragitto, ma da passeggero. Il giorno che deve guidare, però, non sa bene dove andare». Ovviamente prestava attenzione al percorso, ma alcuni processi di consolidamento della conoscenza hanno bisogno della prassi. «Una cosa è assimilare un’informazione per sé, ben altro è esprimerla: pensiamo anche ad un allievo che guarda il maestro di chitarra. Vede come si articolano le dita per comporre un accordo, ma non è immediatamente in grado di replicarlo».
Quelli che stanno più attenti imparano meno. Vero, ma non usatelo come scusa per non seguire una lezione. Come chiarisce Sigman, «abbiamo svolto un esperimento in cui si è visto che quelli che imparano meno attivano di più la corteccia prefrontale, ovvero si sforzavano di più e stavano più attenti. L’aspetto decisivo dipende da ciò che già si conosce sull’argomento, anche in modo frammentario». Chi ha meno conoscenze segue il dialogo passo per passo… perdendosi nei particolari. Chi, invece, può saltare interi «paragrafi» – perché li conosce – può imparare il cammino, poiché lo percorre senza dover far attenzione ad ogni passo. «Un dato che va preso con le pinze: a parità di conoscenze prestare più attenzione è meglio».
Il limite delle prestazioni umane è genetico. Falso, anche se la genetica di tenacia e talento viene spesso celata dal mito. Qui la questione si fa complessa. «Può sembrare strano ma, quando è nato, Messi non era Messi e Mozart non era Mozart. Restiamo nello sport: ci sono i Roger Federer, con un grande talento, e i Rafael Nadal, uno di quelli che ci mette anima e corpo». Di solito lo spettatore giudica separando grinta e talento. «L’ammirazione per il talentuoso non è empatica, mentre la grinta e la tenacia ci stanno più simpatiche, perché abbiamo l’impressione che siano alla portata di chiunque ci metta il giusto impegno». Sigman spiega però che la capacità di metterci l’anima ha una forte componente genetica, sebbene ciò non significhi che sia qualcosa di immutabile. «È solo più resistente al cambiamento. Gli allenatori sanno che la resistenza fisica è facile da migliorare, mentre altri parametri come la velocità, la grinta o, meglio, il temperamento cambiano meno e con più fatica». Molti studi hanno confermato che il 20-60% del temperamento è riconducibile al corredo genetico: quindi, se una metà del temperamento si spiega con i geni, l’altra metà dipende dall’ambiente.
Il talento è un dono innato. «No… è quasi sempre frutto di un duro lavoro. Se pensiamo all’orecchio assoluto di Mozart, crediamo sia qualcosa di straordinario. Ma non è così: la maggior parte dei bambini nasce con un orecchio quasi assoluto, ma, se non viene esercitato, si atrofizza. Tant’è che, tra i bambini che iniziano presto il conservatorio, c’è un’alta incidenza con orecchio assoluto… Quindi non si tratta di genio, ma di lavoro». Sigman, che da buon argentino ama il calcio, torna sull’esempio di Messi: «Credere che a 8 anni non fosse un esperto è l’inizio dell’errore. A quell’età aveva già calciato più palloni della maggioranza delle altre persone». Si potrebbe allora ribattere che molti bambini calciano migliaia di palloni all’età di 8 anni, ma non diventano Messi. «Qui l’errore sta nel presupporre che si possa predire quali bambini saranno i geni del futuro: è quasi impossibile prevedere il limite massimo raggiungibile a partire dai primi passi».
Si tratta di cambiare la macchina cerebrale, così da risolvere i problemi che incontriamo. Passo dopo passo.
La Stampa TuttoScienze 29.11.17
Nella galleria del vento virtuale l’armonia della matematica parla alla ragione e all’estetica
di Sara Ricotta Voza
«La matematica è invasiva e pervasiva, ma bisogna farla affiorare; sta dietro ogni cosa, ma bisogna portarla davanti». Come sempre, è molto chiaro Alfio Quarteroni, docente di Matematica Numerica al Politecnico di Milano, non a caso noto come uno dei massimi esponenti della «matematica applicata» o «concreta». L’ha detto alla inaugurazione dell’iLab Matematica del Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano, il nuovo laboratorio interattivo dedicato interamente alla disciplina e nato in partnership con Leonardo, la società attiva nei campi dell’aeronautica, della difesa e della sicurezza.
Il pezzo forte del nuovo spazio, che nasce secondo i principi della «educazione informale» o «hands-on/brains-on», è la galleria del vento virtuale, la prima in un museo pubblico. Qui, grazie a un software di simulazione realizzato dal Politecnico di Milano, il visitatore potrà sperimentare la fluidodinamica su se stesso, immergendo la propria immagine in un fluido. Il primo a testare lo strumento è stato un olimpionico del ciclismo sul pista, Elia Viviani (oro a Rio de Janeiro), che in sella alla sua bici ha provato vari caschi e movimenti per trovare quelli più aerodinamici.
Vedere la propria immagine in corsa sullo schermo della galleria virtuale è di grande impatto, ma dov’è la matematica? «Quelle linee che tutti vediamo sono equazioni - spiega Quarteroni -. È un grande sforzo tecnologico alimentato dalla matematica, il modo migliore di spiegarla: partire dal mondo reale per arrivare a quello dei numeri». Quarteroni ha quindi mostrato altre applicazioni dei modelli a cui sta lavorando, dalla simulazione delle funzioni cardiache a quella dei terremoti, fino a quelle, famose, per trovare le forme migliori per le barche di Coppa America. Tutto, sempre, per mostrare come la matematica sia onnivora.
Altre novità dell’iLab? La sperimentazione del caos attraverso l’utilizzo del pendolo doppio, l’impiego di penne 3D per costruire modelli geometrici e un’altra decina di attività pensate per età e interessi diversi. Istruttiva per tutti quella, sempre realizzata dal Politecnico, che spiega la natura matematica (altro che dea bendata) dei giochi d’azzardo, dai gratta & vinci alle slot machine. «Anche questo fa parte dell’obiettivo di contribuire alla crescita della cittadinanza scientifica nel nostro Paese», dice il direttore del Museo, Fiorenzo Galli. «Il nostro supporto va al raggiungimento di uno dei Sustainable Goals dell’Agenda Onu 2030, quello che riguarda la “formazione di qualità”», ha spiegato Alessandro Profumo, amministratore delegato di Leonardo.
La Stampa 29.11.17
Torino di piombo
Il processo Il primo processo alle Br si apre nel maggio del 1976 e va avanti per alcuni anni, tra minacce, uccisioni e rinunce da parte dei giurati popolari
di Giorgio Ballario
Ora che il terrorismo è un fenomeno internazionale, gli assassini parlano un’altra lingua e professano una lontana religione di morte, tanto da sembrarci quasi alieni, pare impossibile che ci sia stata un’epoca in cui i «nemici» erano fra noi, uguali a noi. Erano figli nostri, compagni di scuola, vicini di casa. Sparavano e uccidevano senza scrupoli in nome di un’ideologia, colpendo bersagli in apparenza meno casuali di quelli di oggi. Anche se, a scorrere l’elenco delle vittime del terribile Decennio di Piombo di Torino, si scopre che nel mirino di Brigate Rosse, Prima Linea e Nuclei Comunisti finivano spesso persone comuni, uomini normali colpevoli solo di svolgere, agli occhi deformati dei terroristi, compiti «da servo dei padroni». In altri casi per venir fatti fuori era sufficiente passare nella strada sbagliata o entrare in un bar considerato «fascista», come è successo a due studenti, Emanuele Iurilli e Roberto Crescenzio.
Il clima cupo della nostra città nel decennio del terrorismo è ben rievocato nel volume «Torino Anni di Piombo - 1973-1982» di Gianni Oliva, pubblicato dalle Edizioni del Capricorno, in vendita in edicola con La Stampa fino al 19 dicembre. Un libro agile e sintetico, che non si propone certo di fornire nuove analisi sul complesso fenomeno del terrorismo, ma sceglie piuttosto di presentare una suggestiva carrellata sugli avvenimenti sanguinosi del decennio, ricostruendo quegli anni grazie anche a uno straordinario apparato iconografico che mette in fila immagini, volti, pagine di giornale e documenti dell’epoca.
Un’epoca che al giorno d’oggi, a circa quarant’anni di distanza, i più giovani non conoscono e molti di coloro che pure «c’erano» hanno in qualche modo rimosso. Torino, città diventata suo malgrado una della «capitali» del terrorismo, insieme a Roma e Milano, pagò un pesante tributo di sangue: 19 morti, decine e decine di feriti, centinaia di attentati a bassa intensità, un clima perenne di odio e violenza che per molti anni avvelenò il clima cittadino.
Il fenomeno nasce e si sviluppa rapidamente all’inizio degli anni Settanta, ma è nel terribile triennio 1977-1978-1979 che Torino viene messa in ginocchio dall’offensiva terrorista. Ed è nello stesso periodo che la città trova inaspettate risorse per reagire: è a Torino che si celebra il primo processo alle Brigate Rosse, malgrado le intimidazioni che portano all’uccisione del presidente degli avvocati subalpini Fulvio Croce. Ed è sempre a Torino che viene catturato Patrizio Peci, uno dei capi brigatisti, il primo «pentito» che con le sue confessioni aprirà una crepa insanabile nel muro di omertà della più forte organizzazione terroristica del mondo occidentale. Passeranno ancora due anni di terrore, con colpi di coda e altri inutili morti ammazzati. Ma la fine del terrorismo «rosso» è segnata.
Corriere 29.11.17
Fake news ieri e oggi
Quella bufala di tredici secoli fa su Costantino
di Gian Antonio Stella
Non c’è gara: la bufala più grande di tutti i tempi, per quanto si sforzino i russi e tutti gli altri fabbricanti di menzogne stranieri e nostrani, è già stata pubblicata. Tredici secoli fa. E cambiò la storia del mondo.
N on c’è gara: la bufala più grande di tutti i tempi, per quanto si sforzino i russi e tutti gli altri fabbricanti di menzogne stranieri e nostrani, è già stata pubblicata. Tredici secoli fa. E cambiò la storia del mondo. F inché non sbucò fuori Lorenzo Valla che nel 1440, mettendo a frutto gli studi di filologia e di retorica ma più ancora esercitando lo spirito di uomo libero, scrisse Il Discorso sulla falsa e menzognera donazione di Costantino .
Il documento, scrive Carlo Ginzburg, aveva avuto una «circolazione larghissima» per tutto il Medioevo. E «certificava che l’imperatore Costantino, in segno di gratitudine verso papa Silvestro che lo aveva guarito miracolosamente dalla lebbra, si era convertito al cristianesimo, donando alla Chiesa di Roma un terzo dell’impero».
In realtà, continua lo storico, è opinione oggi condivisa «che il constitutum sia stato redatto verso la metà del secolo VIII per fornire una base pseudo-legale alle pretese papali al potere temporale», ma per molto tempo la donazione «non venne assolutamente messa in dubbio». Nemmeno da Dante, convinto che quel potere temporale avesse gettato le premesse della corruzione della Chiesa: «Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,/ non la tua conversion, ma quella dote/ che da te prese il primo ricco patre».
Certo è che quando Valla provò in modo inequivocabile e con parole aspre l’impossibilità che il testo fosse autentico («si può parlare di Costantinopoli come di una delle sedi patriarcali, quando ancora non era né patriarcale né una sede né una città cristiana né si chiamava così, né era stata fondata, né la sua fondazione era stata decisa?»), questa prova del falso, per quanto preceduta da opinioni simili come quella del filosofo Nicolò Cusano, sollevò uno scandalo. Sopito per decenni dalla difficoltà con cui circolavano venticinque manoscritti. Ma esploso quando il tedesco Ulrich von Hutten, nella scia di Lutero e delle tesi affisse sul portale della cattedrale di Wittenberg, riprese il testo e decise di stamparlo. Era il 1517: esattamente mezzo millennio fa.
Eppure, come ricorda Luciano Canfora nel suo La storia falsa (Rizzoli, 2008), la donazione di Costantino non è la bufala più antica. Ben prima, infatti, sarebbe falsa una lettera attribuita a Pausania, nella quale l’allora potentissimo «reggente» spartano avrebbe scritto a Serse, il re dei Persiani appena sconfitto: «Ti restituisco questi prigionieri catturati in battaglia volendoti fare cosa gradita e ti propongo, se piace anche a te, di sposare tua figlia e di sottomettere al tuo potere Sparta e tutta la Grecia. Ritengo di essere in grado di realizzare questo piano se mi metto d’accordo con te. Se dunque qualcosa di questa proposta ti piace, manda qualcuno fidato con cui possa proseguire la trattativa». Un’offerta di tradimento da prender con le pinze, scrive Erodoto («Sempre che sia vero ciò che si dice…»), ma che Pausania pagò cara: condannato a morte, si rifugiò in un tempio dove non potevano toccarlo. E lì, senza toccarlo, lo murarono vivo. A morire di fame e di sete. Per un messaggio probabilmente falso scritto da altri.
La lettera del resto, insiste Canfora, «è in qualunque epoca il genere falsificabile per eccellenza». E racconta di «una lettera di Cicerone che descrive, con accenti quasi trionfali, come egli avesse smascherato, per semplice analisi “interna”, un dispaccio giunto in Senato mentre si era in seduta, e falsamente attribuito a Bruto, il cesaricida, allora impegnato a organizzare le forze repubblic ane in Oriente».
Per non dire della misteriosissima missiva che nel 1165, secondo il cronista Alberico delle Tre Fontane, arrivò a papa Alessandro III, all’imperatore bizantino Manuele I Comneno e a Federico Barbarossa da «Gianni il Presbitero, per la grazia di Dio e la potenza di nostro Signore Gesù Cristo, re dei re e sovrano dei sovrani». Il quale si offriva di mettere le sue ricchezze e i suoi eserciti a disposizione per muover guerra agli islamici e difendere la Terra Santa. Era il mitico «Prete Gianni», inventato a quanto pare da un monaco tedesco, ma destinato a diventare una leggenda e spasmodicamente atteso per decenni e decenni…
E come dimenticare la clamorosa notizia arrivata a Londra il 21 febbraio 1814? La portò, fingendo d’esser appena sbarcato a Dover, uno spossato «ufficiale» in divisa rossa: «Napoleone è stato ucciso dai cosacchi! L’hanno fatto a pezzi. Letteralmente». La Borsa schizzò all’insù. E poi più su, su, su… Finché scoppiò il panico: era tutto falso! L’inchiesta puntò diritto su Thomas Cochrane, ammiraglio, politico, finanziere: arrestato, condannato, degradato per aggiotaggio. E destinato a fornire lo spunto ad Alexandre Dumas per una delle vendette del conte di Montecristo.
Ancora più sensazionale, per la sua diffusione, fu la news sparata dai principali giornali del mondo il 23 maggio 1871: i difensori della Comune di Parigi, e più precisamente le pétroleuses , le donne incendiarie, avevano «incenerito il Louvre». L’eco fu enorme: ecco cosa sono i comunardi! Barbari! Friedrich Nietzsche e Jacob Burckhardt, racconta lo storico Manfred Posani Loewenstein che sta lavorando al tema per farne un libro, «si incontrano e piangono insieme l’“autunno della civiltà”» e «in Italia, mentre in Parlamento si discute dei fatti di Parigi e un deputato ricorda che “una parte del suo patrimonio artistico (…) forse in questo momento è rovinata sotto le bombe a petrolio degli odiatori dell’umanità”, un articolo della “Gazzetta dell’università” (un giornale studentesco pisano) cerca di giustificare le ragioni degli incendiari». Il cattolico «Lo Trovatore» va oltre. E «celebra nella distruzione del Louvre una punizione divina per le conquiste (e i saccheggi) dell’era napoleonica». Troppo ghiotta, la notizia, per non sfruttarla. Al punto che, perfino dopo la smentita ufficiale (già il 24 maggio sui giornali inglesi), c’è chi insiste: «Ci sono quotidiani che riportano la falsa notizia ancora il 13 giugno, come l’italiano (e ultracattolico) “La frusta”, altri che mettono in discussione le smentite»…
Un classico, il rifiuto delle smentite. Che si ripeterà ad esempio coi Protocolli dei Savi di Sion . Sono passati 97 anni dall’inchiesta del «Times» del 1921 che dimostrò come il fantomatico piano segreto ordito dagli ebrei nel cimitero di Praga per impossessarsi di tutte le ricchezze del mondo fosse un documento falso frutto di diverse scopiazzature e «prodotto» nel 1903 dall’Okhrana, la polizia segreta zarista. Eppure ancora oggi, ricordava Umberto Eco, «il parere dominante è sempre quello dell’antisemita britannica Nesta Webster: “Sarà un falso, ma è un libro che dice esattamente ciò che gli ebrei pensano, quindi è vero”». I risultati sono noti: i lager, le camere a gas, la Shoah…
E Orson Welles? La cronaca in diretta dello sbarco dei marziani sul suolo americano trasmessa il 30 ottobre 1938 dalla rete radiofonica Cbs resterà memorabile. Sembrò così «vera» che non solo il giorno dopo era su tutte le prime pagine, ma che un’ascoltatrice fece causa al geniale conduttore per aver fatto avere uno choc.
Più spiritosa era stata due anni prima la reazione di Stalin all’Associated Press che chiedeva conferme alla notizia che fosse morto: «Egregio signore, per quel che mi risulta dalle notizie della stampa estera, io ho già da tempo lasciato questa valle di lacrime (…). Poiché alle notizie della stampa estera non si può non accordare fiducia, a meno che non si voglia venir cancellati dal novero delle persone civili, La prego di credere a queste notizie e di non violare la mia pace nel silenzio dell’aldilà. Con stima I. Stalin».
Corriere 29.11.17
Scenari Dalla notizia di Napoleone ucciso dai cosacchi al fantomatico complotto dei Savi di Sion, la lunga tradizione dei falsi storici
Così cinquecento anni fa scoprimmo cosa sono le fake news
Stampato nel 1517 il testo di Lorenzo Valla che sconfessava la donazione di Costantino
di Gian Antonio Stella
Non c’è gara: la bufala più grande di tutti i tempi, per quanto si sforzino i russi e tutti gli altri fabbricanti di menzogne stranieri e nostrani, è già stata pubblicata. Tredici secoli fa. E cambiò la storia del mondo. F inché non sbucò fuori Lorenzo Valla che nel 1440, mettendo a frutto gli studi di filologia e di retorica ma più ancora esercitando lo spirito di uomo libero, scrisse Il Discorso sulla falsa e menzognera donazione di Costantino .
Il documento, scrive Carlo Ginzburg, aveva avuto una «circolazione larghissima» per tutto il Medioevo. E «certificava che l’imperatore Costantino, in segno di gratitudine verso papa Silvestro che lo aveva guarito miracolosamente dalla lebbra, si era convertito al cristianesimo, donando alla Chiesa di Roma un terzo dell’impero».
In realtà, continua lo storico, è opinione oggi condivisa «che il constitutum sia stato redatto verso la metà del secolo VIII per fornire una base pseudo-legale alle pretese papali al potere temporale», ma per molto tempo la donazione «non venne assolutamente messa in dubbio». Nemmeno da Dante, convinto che quel potere temporale avesse gettato le premesse della corruzione della Chiesa: «Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,/ non la tua conversion, ma quella dote/ che da te prese il primo ricco patre».
Certo è che quando Valla provò in modo inequivocabile e con parole aspre l’impossibilità che il testo fosse autentico («si può parlare di Costantinopoli come di una delle sedi patriarcali, quando ancora non era né patriarcale né una sede né una città cristiana né si chiamava così, né era stata fondata, né la sua fondazione era stata decisa?»), questa prova del falso, per quanto preceduta da opinioni simili come quella del filosofo Nicolò Cusano, sollevò uno scandalo. Sopito per decenni dalla difficoltà con cui circolavano venticinque manoscritti. Ma esploso quando il tedesco Ulrich von Hutten, nella scia di Lutero e delle tesi affisse sul portale della cattedrale di Wittenberg, riprese il testo e decise di stamparlo. Era il 1517: esattamente mezzo millennio fa.
Eppure, come ricorda Luciano Canfora nel suo La storia falsa (Rizzoli, 2008), la donazione di Costantino non è la bufala più antica. Ben prima, infatti, sarebbe falsa una lettera attribuita a Pausania, nella quale l’allora potentissimo «reggente» spartano avrebbe scritto a Serse, il re dei Persiani appena sconfitto: «Ti restituisco questi prigionieri catturati in battaglia volendoti fare cosa gradita e ti propongo, se piace anche a te, di sposare tua figlia e di sottomettere al tuo potere Sparta e tutta la Grecia. Ritengo di essere in grado di realizzare questo piano se mi metto d’accordo con te. Se dunque qualcosa di questa proposta ti piace, manda qualcuno fidato con cui possa proseguire la trattativa». Un’offerta di tradimento da prender con le pinze, scrive Erodoto («Sempre che sia vero ciò che si dice…»), ma che Pausania pagò cara: condannato a morte, si rifugiò in un tempio dove non potevano toccarlo. E lì, senza toccarlo, lo murarono vivo. A morire di fame e di sete. Per un messaggio probabilmente falso scritto da altri.
La lettera del resto, insiste Canfora, «è in qualunque epoca il genere falsificabile per eccellenza». E racconta di «una lettera di Cicerone che descrive, con accenti quasi trionfali, come egli avesse smascherato, per semplice analisi “interna”, un dispaccio giunto in Senato mentre si era in seduta, e falsamente attribuito a Bruto, il cesaricida, allora impegnato a organizzare le forze repubblic ane in Oriente».
Per non dire della misteriosissima missiva che nel 1165, secondo il cronista Alberico delle Tre Fontane, arrivò a papa Alessandro III, all’imperatore bizantino Manuele I Comneno e a Federico Barbarossa da «Gianni il Presbitero, per la grazia di Dio e la potenza di nostro Signore Gesù Cristo, re dei re e sovrano dei sovrani». Il quale si offriva di mettere le sue ricchezze e i suoi eserciti a disposizione per muover guerra agli islamici e difendere la Terra Santa. Era il mitico «Prete Gianni», inventato a quanto pare da un monaco tedesco, ma destinato a diventare una leggenda e spasmodicamente atteso per decenni e decenni…
E come dimenticare la clamorosa notizia arrivata a Londra il 21 febbraio 1814? La portò, fingendo d’esser appena sbarcato a Dover, uno spossato «ufficiale» in divisa rossa: «Napoleone è stato ucciso dai cosacchi! L’hanno fatto a pezzi. Letteralmente». La Borsa schizzò all’insù. E poi più su, su, su… Finché scoppiò il panico: era tutto falso! L’inchiesta puntò diritto su Thomas Cochrane, ammiraglio, politico, finanziere: arrestato, condannato, degradato per aggiotaggio. E destinato a fornire lo spunto ad Alexandre Dumas per una delle vendette del conte di Montecristo.
Ancora più sensazionale, per la sua diffusione, fu la news sparata dai principali giornali del mondo il 23 maggio 1871: i difensori della Comune di Parigi, e più precisamente le pétroleuses , le donne incendiarie, avevano «incenerito il Louvre». L’eco fu enorme: ecco cosa sono i comunardi! Barbari! Friedrich Nietzsche e Jacob Burckhardt, racconta lo storico Manfred Posani Loewenstein che sta lavorando al tema per farne un libro, «si incontrano e piangono insieme l’“autunno della civiltà”» e «in Italia, mentre in Parlamento si discute dei fatti di Parigi e un deputato ricorda che “una parte del suo patrimonio artistico (…) forse in questo momento è rovinata sotto le bombe a petrolio degli odiatori dell’umanità”, un articolo della “Gazzetta dell’università” (un giornale studentesco pisano) cerca di giustificare le ragioni degli incendiari». Il cattolico «Lo Trovatore» va oltre. E «celebra nella distruzione del Louvre una punizione divina per le conquiste (e i saccheggi) dell’era napoleonica». Troppo ghiotta, la notizia, per non sfruttarla. Al punto che, perfino dopo la smentita ufficiale (già il 24 maggio sui giornali inglesi), c’è chi insiste: «Ci sono quotidiani che riportano la falsa notizia ancora il 13 giugno, come l’italiano (e ultracattolico) “La frusta”, altri che mettono in discussione le smentite»…
Un classico, il rifiuto delle smentite. Che si ripeterà ad esempio coi Protocolli dei Savi di Sion . Sono passati 97 anni dall’inchiesta del «Times» del 1921 che dimostrò come il fantomatico piano segreto ordito dagli ebrei nel cimitero di Praga per impossessarsi di tutte le ricchezze del mondo fosse un documento falso frutto di diverse scopiazzature e «prodotto» nel 1903 dall’Okhrana, la polizia segreta zarista. Eppure ancora oggi, ricordava Umberto Eco, «il parere dominante è sempre quello dell’antisemita britannica Nesta Webster: “Sarà un falso, ma è un libro che dice esattamente ciò che gli ebrei pensano, quindi è vero”». I risultati sono noti: i lager, le camere a gas, la Shoah…
E Orson Welles? La cronaca in diretta dello sbarco dei marziani sul suolo americano trasmessa il 30 ottobre 1938 dalla rete radiofonica Cbs resterà memorabile. Sembrò così «vera» che non solo il giorno dopo era su tutte le prime pagine, ma che un’ascoltatrice fece causa al geniale conduttore per aver fatto avere uno choc.
Più spiritosa era stata due anni prima la reazione di Stalin all’Associated Press che chiedeva conferme alla notizia che fosse morto: «Egregio signore, per quel che mi risulta dalle notizie della stampa estera, io ho già da tempo lasciato questa valle di lacrime (…). Poiché alle notizie della stampa estera non si può non accordare fiducia, a meno che non si voglia venir cancellati dal novero delle persone civili, La prego di credere a queste notizie e di non violare la mia pace nel silenzio dell’aldilà. Con stima I. Stalin».
Repubblica 29.11.17
Steven Spielberg “Difenderò sempre i giornali e la verità
Ma ora salviamo il cinema da Netflix”
di Silvia Bizio,
Trovo incredibili i podcast.
Riportano indietro alla radio, come quando eravamo ragazzini e ascoltavamo la radio magari facendo altre cose senza guardare uno schermo».
Fra lei, Tom Hanks e Meryl Streep avete 41 candidature all’Oscar. Come mai ci è voluto tanto per lavorare insieme?
«Le ha contate? Io e Tom abbiamo fatto cinque film insieme ma è la
Los Angeles La storia dei Pentagon Papers sui rapporti segreti tra Vietnam e Usa. La lotta per pubblicarli da parte del primo editore donna nella storia del giornalismo Usa, Katharine Graham (Meryl Streep), e del direttore del Washington Post Ben Bradlee (Tom Hanks).
Questo racconta Steven Spielberg in The Post. Film lampo: sceneggiatura letta a febbraio, riprese a giugno, uscita il 22 dicembre negli Usa.
Ha scelto questa storia per difendere il ruolo dei giornali?
«Più ancora dell’importanza della carta stampata, visto che tutto oggi è digitale, difendo l’importanza della verità, che non sarà mai fuori moda. Quando ho letto questa sceneggiatura ho sentito che dovevo raccontarla immediatamente e non aspettare di avere il tempo di farlo nel 2018.
Così ho messo da parte il film che sto girando ora, Ready player one, e ho fatto questo».
La storia del film è molto attuale.
«Infatti quando ho letto il copione, scritto da una giovane di 31 anni, sembrava di leggere una storia contemporanea, quella di Kay e Ben sembra di oggi. Ma è anche la storia di una donna che cerca la sua voce in un mondo di uomini. Fra il 1942 e il 1945 le donne hanno mandato avanti questo paese, costruendo carri armati e navi che ci hanno permesso di vincere la guerra. Poi siamo tornati indietro alla situazione degli anni 30, c’è voluto tempo per progredire.
Katherine Graham è l’esempio di dove erano arrivate le donne».
È anche un film sulla libertà di stampa oggi.
«Ci sono similitudini tra la situazione dell’informazione di oggi e quella del 1971 quando l’amministrazione Nixon ha cercato di fermare gli articoli del Washington Post e del New York Times sui Pentagon Papers. È stato un tentativo di bloccare i diritti del primo emendamento della costituzione e di mettere la museruola a quello che chiamiamo il quarto potere, il giornalismo. Questo per me è un film patriottico, non di parte, non l’ho fatto da democratico ma da uomo che crede nel giornalismo, nella libertà di stampa, nel primo emendamento, e come antidoto a questo orribile termine che è “fake news” che ci fa domandare cosa sia vero e cosa sia falso. Gli eroi di questo film sono i giornalisti, sono loro i veri eroi.
Bradlee e Graham fecero una cosa incredibile, perché con la pubblicazione dei Pentagon Papers e poi con i loro reportage sul Watergate, si sono imposti come controllo sul governo».
Quale è il suo rapporto con i giornali?
«Io ancora li leggo, ogni giorno leggo il New York Times, il Los Angeles Times, il Wall Street Journal e ogni tanto il Boston Globe. Guardo la Cnn e la Nbc e a volte la Fox News per vedere cosa dicono gli altri. Non mi piace avere le notizie da Internet, mi piace la stampa o la televisione.
prima volta che faccio un film con Meryl, che ritengo la più grande attrice americana del suo tempo.
Ho sempre voluto lavorare con lei, ma non trovavo mai il ruolo giusto in un mio film, anche se Daniel Day Lewis, quando ha vinto l’Oscar per Lincoln, ha detto scherzando che Meryl era stata la mia prima scelta! Sul set mi davo i pizzichi: ho 70 anni, e finalmente lavoro con questi due attori insieme. Si avvera un sogno».
Cosa pensa della disputa tra gli Oscar e Netflix? I film dovrebbero essere visti in sala?
«È un problema importantissimo che mi preoccupa molto. Per me il cinema è cinema e la televisione è la televisione. Per questo abbiamo gli Emmy per onorare show televisivi e gli Oscar per onorare i film. Mi disturba che si faccia confusione tra ciò che viene realizzato perché il pubblico lo veda in un cinema e cosa passa per pochi giorni in un piccolo cinema per poi finire subito sul piccolo schermo. Serve una grande discussione sull’argomento. Netflix e Amazon sono i veri pericoli. Qual è la regola oggi? Solo sette giorni in un cinema per avere i requisiti per gli Oscar? Ce ne vorrebbero quaranta! Un film dovrebbe stare nei cinema almeno quaranta giorni se vuole essere considerato un film per il cinema e non un film televisivo. Dobbiamo continuare a difendere i diritti del cinema».
E gli scandali sessuali che hanno investito Hollywood?
«Io so soltanto una cosa: le vittime hanno trovato la loro voce quest’anno, così come Kay Graham aveva trovato la sua voce nel 1971 anche se su un tema che non aveva niente a che fare con gli abusi sessuali. L’ horror show cui abbiamo assistito negli ultimi due o tre mesi ha permesso alle donne di superare la vergogna e il peso di sentirsi vittime. Che sia successo cinque minuti o quarant’anni fa, ora hanno una piattaforma per parlare. E io spero che sempre più donne lo facciano».