Repubblica 24.11.17
Kamel Daoud
“L’Islam imprigiona i corpi delle donne Voi le loro anime”
di Anais Ginori
PARIGI
«Scrivere è l’unico stratagemma efficace contro la morte. Gli uomini
hanno provato con la preghiera, i farmaci, la magia o l’immobilità, ma
credo di essere l’unico ad aver trovato la soluzione: scrivere».
Kamel
Daoud ha tenuto per anni una rubrica su Le Quotidien d’Oran, punto di
riferimento del dibattito intellettuale in Algeria. La pubblicazione del
romanzo Il caso Mersault l’ha proiettato verso un successo
internazionale. Daoud è diventato uno degli intellettuali più ascoltati e
pubblicati in Occidente, con posizioni talvolta controverse, mai
allineate. Lo scrittore algerino non vuole essere portavoce di nessuno,
né delle vittime del “Sud” o del “mondo cosiddetto arabo”, né delle
ragioni del “Nord” o dell’Occidente. Le mie indipendenze (che esce ora
in Italia per La nave di Teseo) è una selezione degli articoli
pubblicati tra il 2010 e il 2016, in cui si ritrovano molte delle sue
posizioni e idee: sulle donne, la sessualità, l’islamismo, il Dio
sottratto al dogma. Lo stile è sempre scorretto, aspro, folgorante.
Nel
libro c’è anche l’articolo sulle violenze sessuali del Capodanno 2015 a
Colonia che lei scrisse per il nostro giornale e che le è valso molte
critiche e l’accusa di islamofobia, e le ha fatto decidere di ritirarsi
per un periodo dalla scena pubblica.
Lo riscriverebbe ancora oggi?
«Dalla prima all’ultima riga.
Smetterò
di dire che esiste un problema sul rapporto con il corpo, il desiderio,
la sessualità nel mondo arabo-musulmano solo il giorno in cui le donne
potranno uscire la sera, disporre del loro corpo, avere diritto al
piacere e all’orgasmo».
È un tema su cui riflette da tempo. Il
primo articolo della raccolta, datato 2010, s’intitola “Decolonizzare il
corpo”. Cosa significa?
«In Algeria, come in altri Paesi
cosiddetti arabi, si tramanda un culto del corpo morto, non si fa altro
che ricordare i martiri, i caduti delle guerre. Siamo impregnati
dell’elogio della morte e del sacrificio, non del desiderio,
dell’incontro dei corpi, del piacere sessuale.
Inoltre, siamo
figli di una cultura religiosa molto specifica che ci priva del nostro
corpo, la nudità deve essere nascosta, la sessualità è sempre perversa.
L’unico
modo di gioire fisicamente è morire e rinascere in paradiso. Sono
arrivato ormai alla conclusione che molti dei nostri problemi passano da
questo rapporto patologico al corpo».
Non pensa che lo scandalo
Weinstein e tutto ciò che sta provocando racconti invece qualcosa sul
rapporto con il corpo in Occidente?
«Nel mondo arabo-musulmano si
mette il velo sul corpo della donna. In Occidente, invece, il corpo è il
velo sulla donna. In Occidente non si tratta di liberare il corpo, ma
di liberare la donna. E credo che sia in corso un movimento non solo
femminista ma universale».
È rimasto sorpreso dalle accuse di violenza sessuale fatte al predicatore musulmano Tariq Ramadan?
«L’affaire
in sé non m’interessa molto, sarà la giustizia a decidere l’eventuale
colpevolezza. Mi colpiscono invece le reazioni da noi, al Sud, e nelle
comunità musulmane in Europa: si scivola subito nel complottismo, nella
paranoia.
Molti musulmani hanno un atteggiamento di rigetto nei
confronti della realtà. E c’è anche una straordinaria ingiustizia
rispetto a quello che ho subito dopo il mio articolo su Colonia».
Nella strumentalizzazione
dello scandalo?
«Mi
avevano accusato di essenzialismo sulla base di un fatto di cronaca,
anche se la mia era una riflessione più ampia e antica. Oggi, le stesse
persone utilizzano l’affaire Ramadan per fare quello di cui mi
accusavano, ovvero ridurre un tutto, una comunità, a un uomo. Ramadan
non rappresenta l’Islam. È scandaloso dirlo. Sono contrario a questa
generalizzazione pur non avendo nessuna simpatia per Ramadan, anzi penso
che la religione dovrebbe finalmente sbarazzarsi dei predicatori».
È più difficile esprimersi quando si diventa un intellettuale globale?
«All’inizio
c’è stato un effetto quasi paralizzante. Quando si scrive per un
circuito chiuso, si è pressapoco certi che il testo sarà interpretato
nel senso desiderato. Nel momento in cui si entra nel circuito
internazionale, ogni frase può assumere molte interpretazioni. Un mio
commento dal titolo In cosa i musulmani sono utili per l’umanità non è
letto allo stesso modo in Algeria e in Europa. È un’equazione difficile
da risolvere».
Come scrivere senza essere frainteso o strumentalizzato?
«Il
dilemma si è posto in egual misura durante la Guerra Fredda, tra chi
denunciava lo stalinismo e veniva accusato di fare il gioco
dell’imperialismo, e chi faceva l’elogio del comunismo tacendo gli
orrori del gulag. Voglio denunciare lo stalinismo e i gulag. Se i miei
testi vengono strumentalizzati da qualche estremista, pazienza.
L’alternativa sarebbe scegliere un prudente silenzio, darsi per vinti».
Lei non è stato solo oggetto di critiche, ha ricevuto insulti, minacce di morte.
«La
responsabilità degli intellettuali si è evoluta nell’epoca di Internet
con una diffusione che non ha più frontiere geografiche, fusi orari,
barriere linguistiche. Dopo aver attraversato un momento di crisi, aver
lungamente riflettuto, mi sono detto che — in qualsiasi caso — non sono
responsabile di come gli altri mi leggono. E non voglio neppure
anticipare quale sarà la reazione ai miei testi.
Sono vivo, e voglio continuare ad occuparmi di cose che urtano, feriscono, fanno male proprio perché sono parte della vita».