Repubblica 1.11.17
Ma quanto Machiavelli c’è nel populismo 3.0
Da
Kim Jong-un a Putin, ecco perché i leader carismatici o i despoti di
oggi somigliano tanto ai protagonisti dei grandi classici letterari sul
potere
di Stefano Massini
L’AMORE “Il Principe” spiega come gli autocrati si facciano invocare a gran voce dalle masse
LA PAURA Sofocle racconta l’angoscia del capo, Alfieri il terrore collettivo da cui nasce
C’è
tutto Trump nel “Principe” di Machiavelli. E c’è anche molto su Kim
Jong-un. Eppure non credo — fino a prova contraria — che né il paffuto
coreano né The Donald abbiano mai sfogliato l’acuto libello del
Segretario fiorentino. Peccato per loro: vi troverebbero più di una
dritta sull’ingrato mestiere che gli è toccato in sorte, quello del
leader carismatico. Dal rischio di congiure interne al volubile mutar
del popolo, non c’è in fondo niente che non sia stato messo già per
iscritto da messer Niccolò e non solo da lui, in duemilacinquecento anni
di trattati sull’uomo solo al comando.
Ve n’è abbastanza per
ricavarne insomma un ritratto a tutto tondo di quello che potremmo
definire il leader populista 3.0: erede di altri leader più antichi,
quasi sempre tiranni, spesso coronati da epiloghi infausti. Perché in
fondo l’equilibrio che sostiene un personaggio di questo tipo è sempre
precario, affidato a quel fattore del tutto irrazionale che è la paura.
Ed è un dato di fatto, lucidamente delineato da Vittorio Alfieri nel
1777, nel suo Della tirannide: il supremo capo è un’entità che prende
forma dal terrore collettivo (dettato da qualsiasi minaccia, militare,
sociale, politica) per poi stabilizzarsi in un’aura di angoscia da cui
egli stesso è logorato.
Già all’alba del I secolo dopo Cristo, il
latino Valerio Massimo ci racconta che il tiranno greco di Siracusa
viveva talmente ossessionato dall’essere ucciso che permetteva solo alle
figlie di radergli il viso (fino a che non cominciò a nutrire dubbi
perfino su di loro, e gli proibì l’uso dei rasoi facendosi bruciare la
barba con gusci di noce incandescenti). Come a dire che l’esercizio
accentrato del potere comporta di fatto una convivenza con la paura di
perderlo: Erdogan ha comminato ergastoli anche ai morti, Kim Jong-un è
perfino accusato di aver ucciso fratello e zio pur di sedare
cospirazioni al vertice, mentre il dittatore peruviano Fujimori arrivò a
dilapidare capitali immani per tirare a sé i suoi sobillatori. Anche
qui: Machiavelli scripsit. Ed ecco profilarsi l’inattesa contraddizione
di cui già diceva Platone: il tiranno è solo all’apparenza un vincente
(«io sono uno che nella vita non ha mai perso», copyright Mr. Trump),e
dietro la sua fierezza si nasconde un essere infelice, dilaniato dalla
continua percezione della propria precarietà.
Il drammaturgo
Sofocle ci consegna non per nulla in Edipo e Creonte due ritratti di
tiranni fragili, maldestri, esposti all’errore, pieni di zone d’ombra e
di proverbiali scheletri nell’armadio. Va da sé che proprio la
consapevolezza di questi limiti si traduca poi in maggiore arroganza,
per disperato bisogno di nascondersi in una corazza, senza la quale il
despota è nudo (ricordo un bel racconto di Dino Buzzati, tutto
ambientato fra cani, dal titolo Il tiranno malato). Da Hitler a Saddam,
da Gheddafi a Napoleone, il leader celebra da sempre nel corpo il mito
della sua infallibilità, ostentando la propria prestanza in una
narrazione quasi mitologica. «Il tuo potere è provvisorio!» tuonava
Savonarola contro Lorenzo de’ Medici, e dunque cosa di meglio se non
celare questa provvisorietà dietro un vigore leggendario?
Infatti:
Stalin impose agli scultori di aumentargli la statura di almeno venti
centimetri, e fece sì che negli asili ogni mattina i bambini lo
chiamassero papà. Quanto alla retorica fascista, imperversavano achillei
filmati in cui Mussolini scandiva i giorni della settimana con
indefesse attività sportive (lunedì marcia, martedì nuoto, sabato
scherma e via dicendo).
Nasce così insomma — come un formidabile
paravento — il grande connubio fra il despota e lo sport, in cui
naturalmente egli non si limita a competere ma come minimo primeggia:
basta sfogliare le pagine dei nostri quotidiani per ammirare Putin
judoka o il sanguinario dittatore ceceno Ramzan Kadyrov immortalato
mentre dribbla Ronaldinho su un campo da calcio di Grozny. Non fa anche
qui eccezione l’atomico Kim, di cui è nota la passione per il basket, al
punto tale da imporre uno strappo al suo fervido antiamericanismo:
Dennis Rodman campione dell’Nba non solo viene e va da Pyongyang, ma ha
avuto il privilegio di comunicare lui al mondo la nascita della prima
figlia del sommo leader.
Si dirà che tutto questo amore per lo
sport è anche un vettore di consenso. E in effetti è sacrosanto che
perfino nel regime più despotico non c’è tiranno senza un volgo che
sotto sotto lo acclami, come scrisse Coluccio Salutati nel De Tyranno. È
innegabile che l’assolutismo sia una patologia da cui il corpo
democratico si lascia volutamente contagiare, alla dannata ricerca di
una protezione da chissà quali insidie: come scrive caustico Giacomo
Leopardi, il popolo inneggia alla dittatura mentre è ancora caldo il
sangue del tiranno ucciso. Ma perché? Niente è più feroce e volubile
delle masse, ci suggerisce Alexis de Tocqueville nel suo illuminante La
democrazia in America, ed è un’amara verità: il Leviatano di Hobbes
prende forma da un istinto cieco, che assoggetta il branco all’autorità
di un padre di famiglia, cui ci si rimette con una delega prima
affettiva che politica. Fra il popolo e il suo capo si tratta dunque in
origine di un amorevole abbraccio, che tutto sembra fuorché la rottura
drammatica di quel patto di eguaglianza che sta alla base degli stati
democratici, e non per nulla il tiranno — alla ricerca di una sintonia
di carne più che di cervello — ama sempre presentarsi come un essere
istintivo, antipolitico, anticonformista, talvolta addirittura
iconoclasta ed eccentrico fino all’eccesso (si pensi a Caligola, a
Nerone, a Domiziano, il cui sfarzo davvero ricorda i leoni d’oro
massiccio dei resort trumpiani in Florida). È dunque una questione anche
di linguaggio: più sarà concreto — ai limiti del triviale — e più si
avrà la sensazione di una dimestichezza familiare, senza cerimonie,
garanzia quasi di una intesa amicale (Vladimir Putin ha buon gioco
allora a dire che «stanerà i terroristi anche nelle tazze dei cessi»).
Torniamo
così ancora una volta a Machiavelli, ai ritratti fulminanti e
modernissimi dei suoi Agatocle, Oliverotto da Fermo o del duca
Valentino: essi ebbero la forza non di sovrastare, ma di farsi chiedere
dal popolo stesso di sopraffarlo, sorvolando sui metodi abietti della
loro ascesa e sugli abomini della giungla cortigiana. Poterono farlo
perché al di là di tutto il popolo li amava, vedendo magari in loro il
simbolo di un’identità collettiva di cui riappropriarsi (il terribile
Mobutu nel Congo si spacciò per anni come il padre che riportava tutti
alle perdute radici di un’età dell’oro: make Zaire great again…). È il
profondo insegnamento di secoli e secoli di trattati: la tirannia non è
un virus, non è un’infezione. È molto peggio: una malattia autoimmune.