Repubbica 15.11.17
La traversata verso il nulla
di Massimo Giannini
SE
È VERO che la sinistra italiana somiglia alla Nazionale di Ventura
(come ha scritto Tommaso Cerno alla vigilia della direzione del Pd e del
match contro la Svezia), allora il destino è segnato. La spavalda
sicumera di Matteo Renzi che nel 2015 annuncia a Putin «vogliamo vincere
i mondiali in Russia» è la stessa del segretario del Pd che oggi dice
«vinceremo le elezioni del 2018». Al di là del paradosso, il “nemico dei
gufi” che diventa gufo di se stesso, la sconfitta è sicura.
L’apertura di gioco del leader ai “fuoriusciti” non dà risultati. Uno sforzo c’è stato.
IL
PERSEGUIMENTO di «una coalizione più larga possibile», dopo aver
teorizzato il dogma dell’autosufficienza del Pd. Il cedimento su alcune
misure sociali nella manovra, dopo aver rifiutato ogni abiura sulle cose
fatte. Ma non basta: troppo poco e troppo tardi, obietta la “sinistra
della sinistra”. Così si condannano entrambe a patire, rivisitata, la
profezia di Arturo Parisi: perdere, e perdersi. Per vincere bisognerebbe
sapere qual è il campo di gioco, insieme trans-nazionale e nazionale.
Ma la sinistra non lo sa. Del primo non parla affatto. Del secondo parla
a vanvera.
Il campo trans-nazionale, per una cultura politica che
da Gramsci in poi lo ha arato per vocazione, è diventato terra
incognita. Come lamenta Prodi, nessuno indica quale ruolo abbiamo in
Europa, nel Mediterraneo, nel mondo. La Cina capital-comunista di Xi
investe 1.800 miliardi di dollari sulla “Via della Seta”, mentre qui i
nostri eroi combattono ancora la battaglia sugli 80 euro. L’Onu denuncia
gli orrori dei lager libici, mentre qui i nostri eroi si rifugiano
nella cinica contabilità del “piano Minniti”. McKinsey avverte che i
robot possono sostituire 54 milioni di lavoratori in Europa e 9 milioni
in Italia, mentre qui i nostri eroi si accapigliano sull’articolo 18.
Il
campo nazionale, per un ceto politico che voleva costruirci una torre
con le macerie dei due partiti di massa del Novecento, è diventato campo
minato. Come lamenta Veltroni, la sinistra si arrocca a palazzo in un
clima da Anni Trenta. Non sa più parlare a quel che resta del ceto
medio, agli ultimi e ai penultimi della Grande Recessione. E lascia
questo spazio ideale e sociale alla destra. Quella in doppio petto blu
di Berlusconi che a 81 anni rinverdisce il suo Ventennio, quella in
felpa verde di Salvini che vende tutto a saldo al supermarket delle
paure, quella in “chiodo” nero di CasaPound che si fa Stato nel Paese-
senza-Stato.
Non bastano né la narrazione governista né la
torsione “socialista”, per recuperare il tempo e il terreno perduto. È
ovvio che Renzi, Boschi, Lotti non sono solo un groviglio di trame di
famiglia tra Rignano, Arezzo, Laterina. È evidente che Bersani, D’Alema,
Speranza non sono solo un grumo di rancori personali deflagrati con la
scissione. C’è di più, e c’è anche di buono, nelle azioni e nelle
intenzioni di queste “anime perse” della diaspora. Ma non viene fuori, e
comunque non serve a ricucire gli strappi. Queste sinistre non ci sono
nei luoghi del lavoro delocalizzato, che ormai vota Lega, né in quelli
del lavoro giovanile precario, che non vota più. Non ci sono nei
non-luoghi come Ostia, dove invece le teste rasate con i tatuaggi del
duce, oltre a botte e minacce, distribuiscono anche sacchi di pane,
pasta e olio per gli anziani.
Tutta questa sinistra, un po’
riformista un po’ populista, sembra ora concentrata soprattutto nella
“spartizione dei posti” (come accusa un’altra sua costola rotta, quella
“civica” di Tomaso Montanari). Non vede più il Paese, che infatti se ne
va. L’astensionismo è uno sbocco naturale, nella saldatura tra la crisi
sociale e la crisi democratica: il 54% di non voto alle regionali in
Sicilia è solo il prodromo di quello che accadrà alle politiche del
2018. Un bacino immenso di delusi, smarriti, arrabbiati, che neanche il
cyber-populismo pentastellato riesce più a drenare.
L’altro
sbocco, fatale, è quindi a destra. Una destra che nel Paese non ha mai
cessato di esistere e forse di essere maggioritaria. Nel 2013 il Pdl
perde 6,3 milioni di voti. Di questi solo un terzo va ai Cinque Stelle.
Il resto finisce in frigorifero, congelato per quattro anni. Oggi,
complice il totale fallimento dell’Opa renziana sul Centro e il mancato
sfondamento grillino, il blocco si scongela e rifluisce di nuovo nel suo
invaso d’origine. La destra, appunto. Ancora una volta a trazione
forzaleghista. Non ancora un programma politico, perché dall’euro ai
diritti civili la confusione lì dentro è sovrana. Ma già un elettorato,
pronto a rispondere al “richiamo della foresta” come nel 1994, nel 2001,
nel 2008.
Contro questa Resistibile Armata, oggi, sarebbe
chiamata a misurarsi la sinistra. Ed è inaudito che non sia in grado di
farsi almeno a sua volta “cartello”. Che i suoi leader non siano capaci
di sminare il campo dalle troppe mine che loro stessi hanno seminato.
Fino a un anno fa alle feste dell’Unità si sentivano dire: «Per favore,
siate uniti». Oggi la preghiera è diventata anatema: «Per carità, mai
con quegli altri».
È proprio questa sindrome “sconfittista” e
“nichilista” che una classe dirigente credibile e responsabile dovrebbe
saper curare, dentro se stessa e dentro il suo popolo. Guidando e
invertendo la “fase”, che vede ogni sinistra in campo da sola, in ordine
sparso, rassegnata a una consapevole disfatta. Pronta a essere
minoranza nella prossima legislatura. Disposta a una lunga traversata
nel deserto verso il nulla. La Nazionale si può liberare di Ventura, la
sinistra si può condannare a questa sventura?