lunedì 6 novembre 2017

pagina 99 3.11.2017
Artisti, metteteci una croce sopra 
Fenomeni | Perso il ruolo di primo committente, la Chiesa impone ancora limiti alla libertà creativa. Una riflessione a partire dalla mostra di Bill Viola a Milano
di Dario Moalli


La rappresentazione delle emozioni è una chimera che ossessiona ogni artista. Uno di quelli che più è riuscito ad affascinare il pubblico con le sue opere, intrise di interrogativi senza tempo, è certamente Bill Viola che, dopo l’antologica a Palazzo Strozzi di Firenze, arriva a Milano nella cripta della Chiesa di San Sepolcro. Nonostante la presenza di soli tre lavori, risulta efficace la combinazione tra il luogo e i temi rappresentati. The Quintet of the Silent (2000), un video la cui estrema lentezza permette di cogliere ogni minimo cambiamento espressivo dei personaggi, ha una chiara derivazione dai dipinti di Caravaggio, presenti nella collezione della Pinacoteca Ambrosiana (posta dietro la chiesa). La simbologia della morte, evocata in The Return (2007), si lega al luogo stesso della cripta, modellata come una copia del sepolcro di Cristo. Suggestivi sono anche il richiamo alla terra presente nell’ultimo video Earth Martyr (2014) – della serie Martyrs dedicata ai quattro elementi naturali –e la collocazione sotterranea della mostra. Quello che colpisce maggiormente, al di là dell’indiscutibile fascino delle opere, è la scelta di Bill Viola: porre all’interno di una chiesa delle opere di arte contemporanea è sempre un’operazione molto complicata a causa del rapporto secolare tra arte e istituzione cattolica, venuto sempre più a mancare negli ultimi tempi. La Chiesa ha perso, nel tempo, diversi primati che la contraddistinguevano, tra cui quello di principale committente. Il primo a rendersene conto fu Paolo VI che, nel 1964, durante un’omelia rivolta agli artisti, affermò in una parziale ammissione di colpa: «Noi, vi si diceva, abbiamo questo stile, bisogna adeguarvisi, noi abbiamo questa tradizione, e bisogna esservi fedeli; noi abbiamo questi maestri, e bisogna seguirli; noi abbiamo questi canoni, e non v’è via d’uscita. Vi abbiamo talvolta messo una cappa di piombo addosso, possiamo dirlo; perdonateci!». Successivamente anche papa Benedetto XVI, in un incontro con alcuni artisti nel 2009, sottolineò un’esigenza nei confronti delle arti ancora viva e urgente nella Chiesa. Quattro anni dopo questo incontro arriva la prima partecipazione della Santa Sede alla Biennale di Venezia con il proprio padiglione: l’apertura sperimentale all’interno della rassegna più importante dell’arte contemporanea dura poco, appena due edizioni. Questo inceppamento può essere la conseguenza di molteplici fattori, ma è ancora una volta la prova della difficoltà con la quale la Chiesa si confronta con l’arte contemporanea, anche in un ambiente “neutro” come la Biennale, quindi senza le problematicità di relazionarsi con un edificio sacro e senza l’incombenza di adattare le opere dei selezionati a funzioni liturgiche o spirituali. In verità, non mancano esempi estremamente riusciti di collaborazione, come la vetrata di Gerhard Richter a Colonia o l’intervento di Dan Flavin alla Chiesa Rossa di Milano. Il successo di queste collaborazioni è spesso lastricato da complesse ed estenuanti tensioni tra il committente e l’artista. La Chiesa si pone ancora oggi come soggetto interlocutorio forte, imponendo dei restringimenti legati ai propri valori che spesso faticano a essere condivisi dagli artisti, normalmente abituati a una libertà espressiva molto più ampia. Per via di questo atteggiamento la via d’uscita più comoda, adottata largamente dall’istituzione cattolica, si risolve in una selezione a priori che restringe molto il campo, ma non comporta problematicità di adattamento troppo ampie. La scelta degli artisti da coinvolgere prende spesso in considerazione, per prima cosa, stilemi estetici adatti o comunque derivanti da quelli tradizionali e, in secondo luogo, tematiche dallo spirito universale che in qualche modo si sovrapponga alla metanarrazione spirituale cristiana. Per questo motivo l’opera di Dan Flavin nella Chiesa Rossa funziona: la luce nella religiosità cattolica è emanazione della divinità, anche se dall’artista è utilizzata per altre ragioni. Lo stesso si può dire, anche se per altri motivi, per la già citata opera di Richter, così come per le opere di Bill Viola. Questa relazione complicata è destinata a durare e riflette in maniera chiara la distanza che ormai esiste tra due mondi caratterizzati da approcci comportamentali totalmente differenti: uno radicato nella società contemporanea e sviluppatosi all’interno di ragionamenti estetici, l’altro legato a una narrazione religiosa che fatica a modificare le proprie modalità espressive.