pagina 99 11.11.2017
Ha vinto il club dei super ricchi
Uccisa la classe media, ora la diseguaglianza minaccia la democrazia
La disparità è la fine della democrazia
Derive | La globalizzazione e la Silicon Valley hanno imposto l’1% più ricco come nuovo ceto egemone. In tutto l’Occidente sono venute meno le istanze redistributive della classe media, che si è assottigliata, aprendo la strada ai populismi. Per fermarli, dice Branko Milanovic, occorre ripensare le politiche migratorie. E tassare l’eredità
di Gabriella Colarusso
Ci sarà pure un motivo se il presidente della Banca Mondiale, Jim Yong Kim, è arrivato a definire «vitale» la lotta alle diseguaglianze per combattere «l’instabilità politica» e salvaguardare la crescita; se il Fondo monetario internazionale (Fmi) è tornato a lanciare l’allarme sull’aumento delle diseguaglianze anche nell’ultimo Fiscal Monitor, ottobre del 2017, mettendo in guardia dai rischi per la coesione sociale; se il capo della Banca centrale europea (Bce), Mario Draghi, il 26 giugno scorso, rivolgendosi a un gruppo di studenti a Lisbona, ha parlato della diseguaglianza crescente in Europa come di «un fattore altamente destabilizzante» con cui bisogna fare i conti al più presto. Se, insomma, nel giro degli ultimi 12 mesi, tre delle più importanti istituzioni finanziarie mondiali hanno moltiplicato gli appelli ai governi nazionali perché comincino a occuparsi seriamente di una questione che sembra scivolata ai margini delle agende politiche occidentali. Si può pensare che quelli di Draghi, Yong Kim, Fmi siano tentativi di rabbonire le opinioni pubbliche scontente, mala faccenda è più complessa di così. Gli squilibri creati dalla globalizzazione e dall’automazione all’interno dei Paesi avanzati – negli Stati Uniti come nel vecchio continente – stanno cambiando il Dna politico delle nostre società e rischiano di travolgere la democrazia alimentando plutocrazia e populismo, sostiene Branko Milanovic, autore di Global Inequality: a New Approach for the Age of Globalization, pubblicato in Italia a ottobre dalla casa editrice della Luiss con il titolo Ingiustizia Globale, un’analisi illuminante sulla peste economica del nostro tempo e sulle sue ricadute politiche. A quasi 20 anni dalla nascita del movimento no global e a sei da Occupy Wall Street, la protesta si è istituzionalizzata: la vittoria di Trump e della Brexit, la crescita dei partiti anti-sistema in tutta Europa, sono parte di uno stesso processo.
• Vincitori e vinti della globalizzazione
Milanovic ha dedicato al tema della diseguaglianza più di 40 studi da quando era capo economista della banca mondiale. Tra il 1988 e il 2012, spiega, l’1% più ricco del pianeta, che «proviene con larga preponderanza dalle economie più ricche» – Stati Uniti in testa, e poi Europa occidentale, Giappone e Oceania – ha visto crescere i propri patrimoni, mentre la classe media si è indebolita un po’ ovunque in Occidente, al punto da non riuscire più a svolgere la sua funzione sociale storica: limitare l’influenza dei più facoltosi sulle scelte politiche, difendendo «l’offerta pubblica di servizi sociali come l’istruzione e la sanità» e contenere le spinte populiste dei più indigenti, contrari per esempio all’arrivo dei migranti e alla mobilità internazionale dei lavoratori. Prima di proseguire è necessaria però una premessa. Rispetto a 10, 20 o 30 anni fa, il mondo sta decisamente meglio. La povertà assoluta è calata drasticamente, la mortalità infantile pure, l’aspettativa di vita si è alzata dappertutto (vedere per credere i dati raccolti da Our World in Data). E anche la diseguaglianza globale si è ridotta in maniera significativa. La globalizzazione, cioè, ha portato sviluppo e benessere, ma i suoi benefici non sono stati distribuiti equamente e le diseguaglianze all’interno delle economie avanzate sono aumentate. A guadagnare sono stati l’1% più ricco del pianeta e le emergenti classi medie asiatiche, in Cina, India, nel Sud Est (il che non significa, tuttavia, che i loro redditi siano ancora paragonabili a quelli della middle class occidentale). Homi Kharas, economista della Brooking Institution, ha calcolato che il 42% della popolazione mondiale è oggi classe media, e che questa fascia socioeconomica si allargherà di circa 170 milioni di persone all’anno nei prossimi cinque anni fino a diventare per la prima volta nella storia la maggioranza dell’umanità. Una crescita che riguarderà soprattutto l’Oriente. «La stragrande maggioranza di coloro che entreranno nella classe media», scrive Kharas, «l’88% circa del prossimo miliardo, vivrà in Asia». Quali effetti questo potrà avere è presto per dirlo. Il politologo Moises Naim sostiene che questa nuova classe mostri già segni di insofferenza nei confronti di sistemi politici corrotti e autoritari e che potrebbe dare vita a instabilità e cambiamenti radicali in quelle aree del mondo, anche rivendicando più democrazia. In Occidente, invece, la “ribellione” della classe media rischia di seguire spinte contrarie.
• La fine della medietà
L’analisi di Milanovic segna come spartiacque il 1989: dopo la caduta del muro di Berlino diversi fattori hanno contribuito a fare crescere le diseguaglianze all’interno dei Paesi occidentali ricchi, invertendo una tendenza che dalla seconda guerra mondiale le aveva invece viste ridursi. La globalizzazione – con l’arrivo sui mercati di beni e manodopera a basso costo; lo sviluppo tecnologico «sbilanciato a favore delle alte qualifiche» e la nascita dei grandi monopoli della Silicon Valley, con una concentrazione sempre più elevata della ricchezza e del reddito; la progressiva perdita di potere contrattuale dei sindacati, la precarietà e la dequalificazione del lavoro; politiche fiscali a favore dei più facoltosi dovute alla influenza crescente che questi hanno sui decisori pubblici, soprattutto nel sistema americano basato sui finanziamenti privati alla politica, ma anche alla possibilità del capitale di muoversi globalmente e spostarsi con facilità verso regimi fiscali amici, sottraendosi alle normative nazionali. Confrontando sei Paesi – Usa, Regno Unito, Spagna, Italia, Giappone e Paesi Bassi – tra l’inizio degli anni Ottanta e il 2013, Milanovic rileva come in Uk, Usa e Italia l’aumento della diseguaglianza sia stato più significativo che in altri Stati: «I valori di Gini negli Stati Uniti e in Italia crescono di almeno 5 punti e quelli inglesi di più di 10 punti».
• Diseguaglianze e derive populiste
Un dato fotografa perfettamente il fenomeno. Secondo James Galbraith circa la metà dell’aumento della diseguaglianza negli Stati tra il 1994 e il 2006 si spiega con l’aumento della ricchezza in cinque contee statunitensi: New York, Washington, Santa Clara, San Francisco e San Mateo in California. Facile intuire, sottolinea Milanovic, che i «maggiori beneficiari siano individui che lavorano, o possiedono azioni nei settori finanziario, assicurativo e informatico. Hanno ricevuto enormi rendite». Parallelamente, dagli anni Ottanta in poi, la classe media si è ristretta sia in termini numerici che di reddito e di potere politico sia negli Stati Uniti che in Europa. Il Pew Reserach dice, dal 1991 al 2010, la contrazione maggiore in Europa ha riguardato a Germania, la Spagna e l’Italia. Ma la democrazia può sopravvivere senza classe media? Già Aristotele sosteneva che pace e stabilità non potessero essere ottenute in una comunità sociale e politica con troppe differenze, e che in assenza di un forte ceto medio lo sbocco verso la “democrazia” violenta, l’oligarchia o la tirannide sarebbe stato più probabile. Milanovic spiega che questo assottigliamento della middle class in America ha rafforzato un sistema plutocratico, nel quale le politiche pubbliche e fiscali sono sempre più influenzate dai ricchi. In Europa, invece, ha fatto crescere ciò che chiamiamo populismo. «Il welfare state è stato un elemento indispensabile nel rafforzare la classe media europea e il capitalismo democratico». Impoverita nel reddito e meno protetta, «la classe media e quella media inferiore si è spostata politicamente verso destra, verso partiti populisti e innatisti». Dal partito del popolo danese all’ungherese Jobbik, dai francesi del FrontNational agli austriaci dell’Fpo, tra il 2000 e il 2015 la comparsa e la crescita dei movimenti anti-sistema, di destra radicale, è stata costante. Il nemico numero uno è l’immigrazione, l’illusione è difendersi dalla globalizzazione ritirandosi da essa.
• Ripensare la tassazione e la cittadinanza
Che fare? Per certi aspetti potrebbe essere la stessa globalizzazione a correggere i suoi errori: la crescita delle classi medie asiatiche potrebbe per esempio portare a un innalzamento dei salari in quell’area e dunque a minore squilibrio con quelli occidentali. Nuove leggi antitrust potrebbero poi intervenire per scardinate rendite e monopoli tecnologici. Ma il ruolo dei governi e degli stati resta cruciale e va ripensato in un’ottica globale. Immaginando, per esempio, una diversa gestione dei flussi migratori. Milanovic suggerisce l’introduzione di un «premio di cittadinanza» che conceda diritti crescenti ai migranti mano a mano che l’integrazione sociale ed economica migliora. Ciò consentirebbe di non chiudere le frontiere, evitando di tagliare fuori l’Europa dal mercato del lavoro globale, e al contempo di non far esplodere la rabbia sociale. Sul piano delle politiche fiscali, l’idea dello studioso è che si possa agire non tanto sulla tassazione di un capitale sempre più inafferrabile, quanto sulla redistribuzione di quelle che chiama le «dotazioni»: garantendo istruzione pubblica di qualità per tutti; proponendo «imposte di successione più elevate» e politiche di «imposte sul reddito delle società che stimolerebbero le aziende a distribuire quote ai lavoratori», aiutando i «più indigenti e le classi medie a possedere e mantenere beni finanziari». Utopie? Può darsi. Ma se le maggiori istituzioni finanziarie del mondo continuano a lanciare allarmi sul potere destabilizzante delle diseguaglianze una ragione c’è: il rischio che corre la democrazia.
(sotto lo stesso titolo dell'articolo precedente)
Illusione social attivisti in trappola
Fuochi fatui | Da Occupy Wall Street alle primavere arabe, oggi la protesta prende piede velocemente e con uguale rapidità si spegne. La causa? I network come Facebook e Twitter usati da movimenti ancora poco strutturati per emergere all’improvviso e dai regimi per annegarli in una marea di fake news
di Elisa Venco
Il 31 maggio 2013, mentre la folla riempiva Taksim Square a Istanbul, per protestare contro lo sgombero di alcune tende di attivisti a Gezi Park, Cnn Turchia trasmetteva un documentario sui pinguini: una scelta finalizzata a compiacere il regime a dispetto del fatto che sui social network, oltre che su Cnn International, fossero visibili le immagini in diretta dalla piazza. Come ormai evidente a molti, esclusi alcuni dirigenti televisivi, l’informazione non passa più solo dai media tradizionali, ma anche attraverso il Web. Questo mutamento offre ai contestatori nuove opportunità di manifestare il dissenso, raccogliere simpatizzanti e mobilitarli in qualche forma di protesta. Tuttavia, la medesima tecnologia che permette il rapido passaggio dalla virtualità alla dimostrazione per le strade rappresenta uno dei fattori di debolezza dei movimenti nati in rete. Lo spiega la sociologa Zeynep Tufekci nel saggio Twitter and Tear Gas - The Power and Fragility of Networked Protests (Yale University Press) citando il caso di Occupy Wall Street (2011): terminata l’occupazione di Zuccotti Park, non ha prodotto una sola legge per ridurre le diseguaglianze. E neppure la Women’s March del gennaio 2017 ha prodotto effetti tangibili per le donne, per quanto abbia registrato l’adesione, in varie città, di circa 3 milioni e mezzo di persone. Perché oggi valutare l’impatto di un’organizzazione dal numero dei partecipanti ai suoi raduni, come si faceva nell’era pre-Internet, è un errore percettivo: si vede nello scendere in piazza lo sbocco di un prolungato coinvolgimento in una causa. Invece ora ne è solo l’inizio. E potrebbe pure non avere seguito, come dimostrano gli esempi sopra citati.
• Segnali troppo deboli
Per chiarire il diverso valore delle proteste di un tempo rispetto a quelle odierne, Tufekci esamina il precedente della marcia di Washington del 1963, ricordata per il discorso di Martin Luther King Jr. intitolato I Have a Dream (peraltro già tenuto in precedenza). In quanto culmine di una mobilitazione pluriennale da parte degli attivisti per i diritti civili, scrive Tufekci, «la marcia non fu significativa solo per gli eventi di quel giorno, ma in quanto “segnale” della capacità organizzativa che il movimento antirazzismo aveva costruito negli anni e avrebbe potuto mantenere a oltranza». Il Congresso colse il messaggio e nel 1964 passò il Civil Rights Act. Oggi invece «Internet autorizza la rapida espansione di movimenti di protesta, senza però che essi nel frattempo sviluppino le capacità di rispondere agli eventi che hanno generato». Il che spiega perché spesso i contestatori cadano vittima del proprio successo. La rapidità e facilità di mobilitazione permesse dal web non richiedono lo sviluppo di una serie di abilità, che nascono solo dal prolungato coordinamento dei simpatizzanti, dalla gestione del disaccordo tra di loro, dalla costruzione di una catena di responsabilità e dalla definizione di metodi per prendere decisioni collettive. Il segnale è debole, a tutto vantaggio della controparte. Così, per esempio, la scelta degli occupanti di Gezi Park di non avere leader designati, al fine di rendere impossibile una decapitazione del movimento da parte delle autorità, si rivelò controproducente nel momento in cui il governo turco invitò una delegazione a negoziare e non trovò nessun interlocutore. «Per quanto due organizzazioni fossero emerse durante le proteste, di cui una che riuniva centinaia di Ong», spiega Tufekci, «esse non erano accettate come leader né formalmente né informalmente. Allora il governo prima invitò persone non connesse al movimento, come alcune star tv, suscitando l’ironia degli occupanti del parco, poi riprovò con i capi di alcune Ong. E dunque, non scegliendo i loro capi, i membri del movimento lasciarono che fosse il governo a scegliere con chi trattare». I problemi non finirono lì: perché, quando il governo propose un plebiscito nazionale sulla sorte del parco, mancava un’autorità che si pronunciasse sull’offerta. «Nonostante molte discussioni, non si era trovato un meccanismo vincolante per decidere. Il governo annunciò che, fatta la proposta, il parco andava liberato e provvide a forza qualche ora dopo». L’incapacità di questi movimenti nati sul web di prendere decisioni collettive, perché per mobilitarsi non hanno mai dovuto farlo e dunque non hanno escogitato sistemi adeguati, presenta altre due controindicazioni: da un lato permette agli attivisti più scafati di controllare il movimento senza mai renderne conto; dall’altro comporta che i manifestanti, non nutrendo fiducia nelle opzioni elettorali e istituzionali, non sappiano come adattarsi al mutare delle condizioni e si condannino a un «congelamento tattico», ovvero a una coazione a ripetere le mosse iniziali che nel tempo si svuota sempre più di senso e di efficacia.
• La reazione dei governi
La “mossa del pinguino”, per richiamare l’operato di Cnn Turchia, dimostra una concezione superata della censura a fronte del moltiplicarsi delle fonti di notizie. Oltre agli attivisti, però, nel tempo anche le autorità si sono impratichite nell’uso delle nuove tecnologie e spesso sono in grado di operare in modo più sottile. Per decifrare come si sia mosso il governo cinese nel 2014, in occasione della rivoluzione degli ombrelli di Hong Kong, volta a chiedere più democrazia, un team di studiosi di Harvard ha esaminato milioni di post pubblicati su oltre mille servizi di social media locali (notoriamente in Cina sono bloccati Facebook, Twitter e YouTube). Gli esperti ne hanno valutato il contenuto, lo hanno situato lungo una scansione temporale e sono ritornati più volte su quei siti per vedere se i post erano stato censurati o no. In questo modo hanno scoperto che alcuni post sono stati fatti sparire entro 24 ore dalla pubblicazione. Contrariamente alle attese, però, non si trattava di quelli più critici verso lo Stato o il partito comunista, bensì di quelli che invitavano a un’azione collettiva. L’apparato censorio sembra apprezzare la passività nella popolazione al punto da cancellare certi post perfino quando propongono di mobilitarsi in favore del governo. Gli studiosi di Harvard hanno voluto anche verificare l’esistenza del cosiddetto partito da “50 centesimi”, un esercito di commentatori alle dipendenze dello Stato che si suppone riceva questa cifra per ogni post. I ricercatori hanno riportato che nel corso di un anno sono stati postati circa 490 milioni di messaggi su argomenti innocui con cui annegare gli interventi politici nel momento in cui gli attivisti hanno cercato di richiamare l’attenzione. Tra le armi di distrazione di massa figurano anche i commenti postati dall’“esercito dei troll russi”: alle probabili dipendenze del governo, questi utenti nascosti dietro pseudonimi diffondono fake news, ipotizzano complotti e attaccano i soggetti coinvolti costringendoli talora a giustificarsi per palesi fandonie. I troll non mirano tanto a inquinare la discussione, quanto a sconvolgere gli utenti con commenti violentemente sessisti, malevoli e spesso pure sgrammaticati in modo da indurre le persone di buon senso a disconnettersi. Questa nuova forma di censura per disinformazione presuppone l’attenzione come risorsa chiave per la gestione del potere. Abbassarne la soglia a botte di fuffa o distruggere la credibilità delle fonti, avanzando fantasiose teorie, però non equivale solo a ostacolare l’emergere di voci critiche credibili. Impedisce anche la formazione di un’opinione pubblica e, in ultima sintesi, mina la democrazia. «La cosa più rilevante delle campagne di disinformazione del 21mo secolo è che non cercano di persuadere le persone a credere a certi fatti o dati in particolare», precisa Tufekci. «Piuttosto, si cerca di sopraffarle con una marea di notizie distorte o in mala fede affinché rinuncino a distinguere il vero dal falso. Un meccanismo favorito dal business model dei social media, che si basa su entrate pubblicitarie in relazione al numero di click e su algoritmi che premiano i contenuti virali», i quali quasi mai sono post ragionati, autorevoli e legati all’attualità. Per esempio nell’estate 2014, al momento delle proteste di Ferguson, legate all’uccisione da parte della polizia dell’afroamericano Michael Brown, su Facebook il contenuto più visto riguardava la “ice bucket challenge”, la campagna anti Sla in cui i vip subivano secchiate di acqua gelata. Gli omicidi non vengono premiati dai likes. Il risultato è che, confusa in un magma di trending topics dalla scarsa rilevanza, la verità appare sempre più inattingibile e gli utenti sono indotti a nutrire un crescente senso di rassegnazione e ad allontanarsi dalla politica. L’amplificazione del nulla ad opera dei social fa comodo ai potenti: chi vuole cambiare le cose deve convincere gli altri della sua versione dei fatti mentre la paralisi legata all’eccesso di informazione perpetua lo status quo. Per un movimento (di contestazione) nessuna fine può essere più paradossale dell’immobilismo.
• Come reagire alle spam wars
I social media sono congegnati per fare restare più a lungo la gente su di loro a scapito dell’accesso a fonti di informazioni più autorevoli, con il risultato che cresce la percentuale della popolazione che si informa sui social. L’interfaccia di Facebook poi non aiuta a distinguere tra post generati da soggetti autorevoli come il New York Timeso da testate fittizie come il Denver Guardian, rendendo molto arduo stabilire il confine tra la verità e Photoshop. Inoltre i social network aumentano la polarizzazione tra cittadini perché non fanno che proporre loro le opinioni di cui sono già convinti, affossando il confronto. Così gli elettori già portati a votare Donald Trump si sono facilmente convinti della veridicità delle fake news create da alcuni ragazzini macedoni ai danni di Hillary Clinton. Insomma, nel tempo le piattaforme nate come spazio di libera espressione e strumento di empowerment per le voci critiche si sono tramutate in trappole per gli attivisti, le cui voci finiscono silenziate dagli algoritmi di Facebook, mentre le opinioni più estreme si fanno largo a colpi di fake news. Cosa possono fare i movimenti di protesta per il futuro? Varie cose: cercare di segnalare un impegno reale dei loro adepti anche dopo le manifestazioni, per esempio promuovendo raccolte fondi (i soldi sono un linguaggio immediatamente comprensibile per tutti, inclusi i politici). Riversare la loro influenza a favore di certi esponenti politici (come ha fatto Occupy Wall Street sostenendo Bernie Sanders) o contro altri, come Black Lives Matter, che ha messo fuori gioco i procuratori più morbidi verso i metodi della polizia. Possono mandare alcuni esponenti in Parlamento, come Syriza in Grecia o qui i 5 Stelle, o trovare metodi che, pur mantenendone la struttura acefala, consentano di prendere decisioni collettive: in Nuova Zelanda alcuni veterani di Occupy hanno dato vita a una piattaforma chiamata Loomio (usata anche dagli spagnoli di Podemos) che aiuta le organizzazioni orizzontali a prendere decisioni. In Argentina Pia Mancini, la leader del Net Party, ha creato Democracy Os, una piattaforma open source su cui votare. E non è escluso che gli attivisti si inventino altre forme di sopravvivenza alla dittatura dei social, per non passare da una condizione di libertà limitata dai pinguini a una offuscata dalle onnipresenti foto di gattini, che attraggono gli utenti molto più dei contenuti politici. E se Mark Zuckerberg sostiene che Facebook sia un network indifferente rispetto ai contenuti, ma in grado di aumentare, tramite la loro rapida diffusione, la libertà, la connessione e la condivisione tra le persone, l’analisi di Tufekci, al contrario, sembra avvalorare la tesi dello storico Melvin Kranzberg: «La tecnologia non è né buona né cattiva. Ma non è neanche neutrale».