giovedì 9 novembre 2017

La Stampa 9.11.17
La potenza delle parole al femminile
di Federico Taddia

«Perché ripeti sempre bambine e bambini quando ci parli?». Me lo ha chiesto all’improvviso Sofia alla conclusione di un incontro in una scuola elementare, così come a nove anni sanno essere diretti e spontanei i bambini e le bambine. Le ho spiegato che mi sembrava giusto, bello e rispettoso rivolgermi in quel modo alla classe, visto che c’erano sia maschietti che femminucce.
E lei, con la semplicità e l’assenza di filtri che solo a nove anni hai, con il ditino alzato perché ha capito che stava facendo una piccola lezione a un adulto, mi ha espresso il suo pensiero tutto d’un fiato: «Ma no, sbagli. Io anche se sono una bambina, mi puoi chiamare bambino: sono i bambini che non puoi chiamare bambine». Non sarebbero state contente le 314 insegnanti francesi contrarie alla norma per cui il maschile prevale su quello femminile, ultima protesta a favore della nuova grammatica a favore della parità. Io, nel mio piccolo, ho cercato di scalfire l’assoluta certezza di Sofia con altri esempi, tentativo fallito dal suono della campanella della ricreazione. Lei si sentiva bambina, appartenente alla categoria dei bambini. Tutto normale, certo. Ma indicativo nel nostro chiacchierare quotidiano. Le parole non sono solo un suono. Le parole creano identità. Contenuto. Differenze. E pregiudizi. Le parole non sono neutre e i linguisti ben lo sanno. Ma basta un «sindaca», un «ministra», un «ingegnera» a superare un uso del linguaggio dove la donna pare sovente in posizione di sottomissione e a modificare un vocabolario orientato al maschile? Ovviamente no, anche se la questione è analizzata da vari decenni, nel nostro Paese, a partire dal saggio «Il sessismo nella lingua italiana» di Alma Sabatini, pubblicato nel 1987. Riflessioni accademiche che faticosamente hanno varcato gli ambienti del femminismo, tanto che in uno scritto datato 2008 del Parlamento europeo si dice: «In Italia il dibattito su un uso non sessista della lingua è ancora agli esordi, e nella lingua correntemente usata dai media, e in particolare dalla stampa, nonché nel parlato e nello scritto, si utilizzano a tutt’oggi pochissimi neologismi e si tende a usare il maschile con funzione neutra». Parole nuove per definire ruoli vecchi, ma in un modo diverso: questa è l’urgenza, per alimentare una cultura paritaria. La lingua però non è un algoritmo che si può modificare con un software. Non bastano le leggi, i documenti della pubblica amministrazione riscritti con acrobazie lessicali, imporre vocaboli non discriminanti algidi e astratti. Il boldrinismo insegna: il mantra ossessionante della «presidenta», ripetuto, ostentato e alzato a bandiera, non fa altro che mettere in secondo piano una finalità urgente e condivisibile, generando distacco, incomprensione e antipatia. Che da «il governante» a «la governante» nel percepito comune ci sia un abisso nessuno lo mette un dubbio e chiunque capisce quanto la lingua possa essere ingannevole e perfida. Limitarsi a correggere il dizionario è una scorciatoia pericolosa. Non sono i biglietti da visita a rivoluzionare una società: servono trasformazioni radicali, moderne. Ad ogni livello. In un’Italia fatta di sindache, assessore, presidentesse e ministre tutti metterebbero le vocali giuste al posto giusto. «Margherita, cosa scrivo nella tua biografia: direttore o direttrice dell’Osservatorio di Trieste?» – ho chiesto un giorno alla Hack. Lei mi ha fissato, con il suo solito sorriso, e nel toscano più stretto mi ha risposto: «Metti donna. Su quello nessun bischero avrà da ridire».