giovedì 30 novembre 2017

La Stampa 30.11.17
Gli inediti che Nietzsche non si sentì di pubblicare
di Federico Vercellone

Le eredità culturali sono un lascito molto più pesante di quanto forse, a prima vista, verrebbe da pensare. La relazione con il passato, come ben sappiamo, è determinata da una scelta tra memoria e oblio, tra ciò che va ricordato e quanto invece si può dimenticare senza troppo danno o addirittura con vantaggio. Il passato non sta lì, una volta per sempre, come qualcosa di irrevocabile, bensì come ciò che con sforzo ricostruiamo per e nella coscienza del presente. In questo contesto si propone anche la relazione rinnovata che viene fornita dalle edizioni critiche avviate nella seconda meta del secolo scorso dei grandi classici del pensiero filosofico tedesco dell’800: vere e proprie rivisitazioni di un autore, come testimoniano anche le Opere complete di Nietzsche. Lo dimostra egregiamente l’Introduzione a Nietzsche di Carlo Gentili, uno dei massimi specialisti contemporanei del filosofo, comparsa recentemente presso il Mulino.
Siamo stati abituati a vedere in Nietzsche un autore prometeico che propone al centro del suo pensiero concetti paradossali come quelli di Volontà di potenza, Eterno ritorno e Superuomo. Martin Heidegger era arrivato addirittura ad affermare che tutta l’opera edita di Nietzsche non costituiva altro che l’antiporta del suo pensiero consegnato, nel nucleo fondamentale, alla silloge postuma La volontà di potenza. Gentili rammenta molto opportunamente che questi inediti, risalenti all’ultima fase della vita cosciente del filosofo, non a caso non furono pubblicati da Nietzsche. Si tratta di esperimenti in cui si affacciano prepotentemente concetti come quelli di Superuomo e di Volontà di potenza che hanno molto meno peso negli scritti pubblicati da Nietzsche stesso. Ciò significa che si tratta di tentativi di cui il loro stesso autore non era pienamente convinto.
A questa luce è la stessa immagine del pensiero di Nietzsche a modificarsi profondamente. Non abbiamo più a che fare con l’outsider che sovverte gli ordinamenti stabiliti, ma con un grande classico del pensiero che ben si inserisce nella tradizione filosofica con una cifra scettica e neokantiana che lo rende un geniale anticipatore delle grandi filosofie della crisi di inizio Novecento.

Repubblica 30.11.17
Il fascismo normale
di Tommaso Cerno

Ciò che conta raccontare dopo la trasferta neonazista di Como è la cornice di quei proclami: un’Italia stremata, impoverita, dove la banalizzazione del fascismo è considerata normale.
«Il Duce fece bene, tranne le leggi razziali», disse perfino Berlusconi alla giornata della Memoria. Segno che la destra italiana non ha mai fatto i conti con il suo passato. Anzi, nel 1994, l’ex Msi di Fini fu sdoganato così com’era, con i suoi saluti romani e il suo fascismo interiore.
Fu pitturato di fresco, bardato con un nuovo nome e portato al governo sulla parola. Dall’ex Cavaliere. Fini stesso, che poi ebbe stravaganti vicissitudini, non affrontò mai in Italia il proprio passato. Lo fece lontano dal fronte mussoliniano, in Israele, ponendosi sul capo la kippà ebraica durante la visita allo Yad Vashem di Gerusalemme.
E scatenando l’insulto perfino sull’Olocausto da parte della destra radicale ed estrema.
Quella che oggi torna ad avere diritto di cittadinanza.
Va detto che la banalizzazione del fascismo si fa più pericolosa perché va di pari passo al dilagare dell’odio popolare per le istituzioni democratiche: Parlamento, governo, elezioni sempre più deserte. Eppure le istituzioni, la nostra malandata repubblica, esausta della crisi politica ed economica, sommersa dalla burocrazia, sono nate dal grido di ribellione alla dittatura fascista che avevamo regalato al mondo. E che ha poi prodotto gli anticorpi per sconfiggere il regime di Mussolini, grazie alla resistenza italiana e all’azione degli alleati. Un atto fondativo profondo, che sembra perdere portanza e rimandarci indietro. Pare infatti che l’Italia abbia dimenticato quella ribellione di massa costata sangue, l’abbia relegata ai calendari ufficiali, la celebri solo nelle feste comandate della democrazia, ma non la respiri più. Si avvera il paradosso di Bobbio, discutere sull’equivalenza fra fascismo e comunismo ha finito per generare una insana equivalenza fra fascismo e antifascismo. Si genera così una miscela esplosiva, i cui effetti sono facili da prevedere: il fantasma del neofascismo riemergerà dal sottosuolo dove credevamo di averlo sepolto con Mussolini e Hitler nel 1945. Ecco perché fatichiamo a capire che la banalizzazione del fascismo è grave. Non si capisce che la questione non si ferma agli episodi che dividono gli italiani fra chi si indigna e chi no, bensì mette in crisi l’atto fondativo stesso della nazione e le regole su cui si basa la nostra convivenza. Dopo Ostia e Como, la risposta che arriva dai leader della destra italiana è insufficiente. Nei toni e nella sostanza. Il no comment equivale all’indifferenza. Mai come adesso, invece, la destra ha il dovere di fare il lavoro che finora non è stato fatto: perimetrare con chiarezza il proprio confine culturale e politico. E dirci cosa vuole essere nei confronti del neofascismo italiano. Solo così potremo superare i tre modelli di destra italiana (mussoliniana, dorotea e berlusconiana) e vederne nascere una europea, che non votiamo, ma che ci fa dormire sonni tranquilli. E non risveglia l’incubo del mostro nero che torna.

Repubblica 30.11.17
Intervista
Lo storico Gentile
“Simbologie prive di senso ma dietro c’è il disprezzo della democrazia”
di Simonetta Fiori

ROMA «Questi fenomeni sono la spia della grave crisi che colpisce la democrazia, in Italia e in tutto l’Occidente», dice Emilio Gentile, uno dei massimi studiosi dei totalitarismi fascista e nazista.
Professore, come interpreta questo rigurgito neofascista?
«Non lo vedo come una novità, piuttosto mi domando perché questa destra estrema abbia successo. Vuol dire che c’è qualcosa nella democrazia che suscita disgusto nelle nuove generazioni.
E questo disprezzo spinge i più giovani verso mitologie nordiche, naziste più che fasciste, che ormai sfuggono completamente a qualsiasi riferimento storico.
Sono simbologie prive di senso, che non hanno niente a che vedere con la storia concreta dei regimi di Mussolini e Hitler».
Perché non la convincono le analogie con il passato?
«Negli anni Venti i fascisti erano reduci di guerra che volevano difendere la patria dalla minaccia della rivoluzione russa internazionalista. Tutto questo oggi io non lo vedo.
A meno che i naziskin non intendano i “non popoli”, ossia gli immigrati, come truppe d’invasione: ma siamo alla farneticazione!».
Ma lo stesso termine, “non popoli”, non evoca il linguaggio violento dei fascismi?
«No, è solo ignoranza.
Il fascismo di Mussolini non ha mai liquidato gli arabi come un “non popolo”: erano considerati guerrieri da incorporare nell’esercito italiano».
Però la radice comune è quella del razzismo, largamente praticato dai colonizzatori italiani in Africa.
«Ma il razzismo ha una radice nella civiltà occidentale dell’Ottocento: il fascismo ha sviluppato nella propria ideologia e nella propria cultura quello che avevano già fatto le democrazie europee e americana. Francamente l’analogia storica non ci porta da nessuna parte».
Dove dobbiamo guardare?
«Alla crescente debolezza dei nostri assetti democratici. Io vado parlando da anni di “democrazia recitativa”, ossia di una finta rappresentazione dove il popolo non decide mai.
Oggi le minacce alla democrazia non arrivano dai naziskin, che sono gruppi minoritari, ma dalle stesse istituzioni democratiche che sembrano incapaci di mostrare una superiorità rispetto a ogni forma di prevaricazione.
Le democrazie si vanno indebolendo perché la gente non ha più fiducia in esse».
Una sfiducia che si può tradurre in indifferenza alla violenza.
«Certo. Si finisce per accettare ogni sorta di malattia infettiva, anche quelle che scatenano aggressività e violenza.
Il dramma è che è venuta meno la passione per la democrazia come forma di convivenza».

Repubblica 30.11.17
L’inchiesta
Le nuove destre
L’avanzata della galassia nera
Ci sono i cani sciolti e quelli che puntano al Parlamento
Viaggio tra i volti e le parole d’ordine di una realtà che continua a crescere
di Paolo Berizzi

Ci sono le nuove generazioni e i vecchi capi bastone che non se ne vanno mai. Ci sono quelli che si mimetizzano e puntano al Parlamento e ci sono quelli sempre e solo “di strada”: è lì, dicono, che bisogna stare.
Sventolando la celtica che è di tutti, i martelli incrociati degli Hammerskin, la bandiera con la svastica come hanno fatto prima del 28 ottobre i fanatici di Rivolta Nazionale (appena nati da una costola di Militia, avevano annunciato che loro, alla Marcia su Roma vietata dal Viminale, ci sarebbero stati comunque), i 12 raggi del Sole nero dei nazisti varesini Do.Ra., il simbolo SS (guardacaso) degli Skin4Skin.
La strada da cui cacciare gli immigrati, i tossici, i «delinquenti». La strada delle ronde per la sicurezza, dove si marcia contro il degrado e per aiutare la «gente». Sono i “fratelli” camerati che schifano le poltrone, che diffidano del sogno non più impossibile di entrare nelle istituzioni: in Parlamento, dove «voleranno sedie e schiaffoni», per dirla con il vicepresidente di CasaPound, Simone Di Stefano.
Ormai un partito nazionale e istituzionale. Ma a destra dell’estrema destra c’è tanto. Un magma in ebollizione al punto che anche per la Digos e gli apparati dello Stato che lo studiano è difficile fissarne i confini. L’unico dato certo è che le formazioni neofasciste (e neonaziste) sono tornate da un pezzo, alzano il tiro e guadagnano consensi.
Si allargano, e passano sempre più spesso all’azione. Non solo con la propaganda sociale e “di sinistra”, Anche con atti intimidatori come a Como. L’obiettivo è lo sdoganamento, e per alcuni è già arrivato. È tornato persino il Veneto Fronte Skinheads. Facce nuove e vecchio odio. Dalla provincia vicentina e dalla Verona nera al tentativo di sbarco in Lombardia. Ma vediamole, le sigle dell’estrema destra 2.0. Capofila è CasaPound Italia, 104 sedi da Nord a Sud: l’ultima inaugurata pochi giorni fa a poche decine di metri da Acca Larentia. Erano un centro sociale, poi i “fascisti del terzo millennio” sono diventati partito.
E siccome la politica costa, hanno imparato in fretta a trovare una sintesi tra militanza e affari (vedi i legami con il Front National finanziato da Putin o le attività commerciali). Fatto il botto alle ultime amministrative (rispetto al 2011 hanno quasi quadruplicato i consensi con exploit come Lucca e Bolzano), puntano alle politiche: «Stiamo arrivando», dicono in tv dove ormai vengono invitati.
«Basta veti, siamo democratici», ha detto Di Stefano. Democratici, ma anche fascisti (Cpi si rifà alla legislazione sociale del fascismo e al Manifesto di Verona, costitutivo della Repubblica di Salò). Eppure il giochino funziona. Le “tartarughe nere” in questi anni hanno cannibalizzato il loro competitor: Forza Nuova. Fondato da due terroristi neri, il più longevo tra i partiti post missini corre alle elezioni dal ‘99 e dal 2008 ha sedi in tutte le regioni. Se alle urne i numeri sono da prefisso telefonico, altrettanto poco esaltanti sono le adesioni sul territorio. Per questo Fn, che si ispira alla Guardia di ferro romena, uno dei più sanguinari movimenti antisemiti d’Europa, di recente ha alzato l’asticella: la marcia su Roma (o dei “patrioti”) del 4 novembre, il manifesto stile Rsi con la donna bianca violentata da un soldato nero. “Italia agli italiani”, è il mantra.
Cambiano pelle, i neofascisti.
Puntano sull’associazionismo, sui pacchi alimentari, sugli aiuti agli “indigenti”. Ogni gruppo ha diramazioni, onlus, cooperative che svolgono attività “umanitarie”. Prendiamo Lealtà Azione, in ascesa al Nord.
Formalmente un’associazione «di promozione sociale». I riferimenti? L’ex generale delle SS Leon Degrelle e l’antisemita Cornelius Codreanu. I “lupi” di LA hanno già un assessore: Andrea Arbizzoni, titolare dello Sport a Monza. Lavorano pancia a terra, al Nord alleati con CasaPound, per presentarsi alle regionali.
Il modello di quasi tutti sono i greci di Alba Dorata. Anche loro distribuivano pacchi alimentari.
Di giorno. Di notte sprangavano gli immigrati. Poi sono entrati in parlamento: 17 deputati. Capi e militanti sono stati ospiti di CasaPound nella sede romana. Nel 2015 distribuivano insieme aiuti umanitari ad Atene. Sono, con l’ungherese Jobbik, i partiti più solidi dell’ultradestra europea.
Ma nel fascismo italiano c’è posto per tutti, anche i reduci degli anni di piombo. Benché sciolta nel ‘76, Avanguardia Nazionale è ancora viva. Ritrovi, convegni nostalgici.
Sempre intorno a Stefano Delle Chiaie. Poi ci sono i caporioni con le loro squadracce: Militia di Maurizio Boccacci, amico dell’ex Nar Carminati. Un gruppo nazista. Così come alla propaganda hitleriana s’ispirano i veronesi di Fortezza Europa: «Festung Europa» era, dal ‘42, l’Europa continentale sotto il dominio nazista. Sono passati 75 anni.

La Stampa 30.11.17
Cresce l’estrema destra
Il seme dell’intolleranza
contagia anche l’Italia
Blitz a Como contro un centro che aiuta i profughi Il disagio sociale leva degli ultrà in vista del voto
Il seme dell’intolleranza contagia l’Italia con l’estrema destra che ritrova spazi e ambizioni elettorali. CasaPound punta al Parlamento e molti movimenti xenofobi cavalcano il disagio sociale per raccogliere consensi. A Como il ritorno dei naziskin. Una quindicina di neofascisti ha fatto irruzione nei locali di un’associazione di volontari che aiuta i profughi gridando: «Stop all’invasione».
Il ritorno dei naziskin contro chi aiuta i profughi
Il blitz a Como ripreso in un video
di Michele Sasso

A preoccupare davvero gli inquirenti è un dettaglio che compare nel filmato del blitz neofascista dell’altra sera a Como: una «testa rasata» riprende per tutto il tempo l’azione da un cellulare. Proprio come fanno gli Jihadisti quando compiono un attentato o hanno bisogno di fare propaganda. Tanto che il filmato è finito in tempo reale su Facebook per essere poi rimosso in tutta fretta. Quella dei fascisti di Veneto Fronte Skinheads è stata una dimostrazione militare che allarma il Viminale. «Siamo ancora scossi per quell’azione», racconta Annamaria Francescato, 23enne portavoce della Rete Como Senza Frontiere, un network di realtà locali che aiuta i migranti. Martedì sera, una quindicina di militanti neofascisti ha fatto irruzione nella sala del Chiostrino di Sant’Eufemia dove si teneva una riunione di varie associazioni. «Ad un certo punto abbiamo sentito dei rumori e ingenuamente abbiamo aperto la porta e ce li siamo trovati intorno», continua Francescato: «Tutto è durato qualche minuto ma avevano un fare aggressivo, militaresco, intimidatorio».
Di fronte alle «teste rasate», arrivate apposta da fuori città, si sono trovati ragazzi di 18 anni e attempati volontari di 80. Tutti «colpevoli» di assistere chi arriva in riva al lago e spesso finisce in strada. Una escalation dopo la chiusura delle frontiere con la vicina Svizzera del 2016 e una risposta dal basso. Uno dei partecipanti ha avuto la prontezza di girare un filmato e il video della lettura del volantino delirante con lo slogan «Basta invasione» è diventato virale. Grazie a quelle immagini la Digos ha già identificato quattro dei partecipanti al blitz e altri sono in via di identificazione, denunciati per violenza privata e violazione di domicilio. Il Veneto Fronte Skinheads, nato nel 1985, è alla seconda generazione di militanti uniti dalle idee di supremazia della razza bianca e federati con Klu Klux Klan e neo Ustascia croati. Si organizzano in una onlus con regole interne, misure disciplinari, fanzine di controinformazione e «dress-code» di estrema destra con testa rasata, anfibi e bomber. Tutte le sigle della galassia nera (da aggiungere Lealtà Azione, Forza Nuova e CasaPound) contano 1200 attivisti in Lombardia.

La Stampa 30.11.17
L’estrema destra italiana ritrova spazi e anche voti
Da CasaPound a Forza Nuova, si moltiplicano i gruppi che cavalcano il disagio sociale per raccogliere i consensi
di Francesco Grignetti

Sono ormai troppi i segnali per dire che sia una sorpresa: l’estrema destra è tornata. Quel mondo che per anni è stato confinato tra la cronaca nera e il folklore politico, a metà tra le risse di strada e lugubri manifesti, è a una svolta. Innanzitutto al suo interno. Storici leader, quali Roberto Fiore per Forza Nuova, o Maurizio Boccacci per Militia, sembrano ormai marginalizzati. Non sono mai riusciti a scrollarsi di dosso le scorie ideologiche del neofascismo o del fascismo tout-court. Basta vedere la grafica dei manifesti di Forza Nuova, ispirati al Boccasile peggiore, propagandista della Repubblica sociale italiana. O la M di Militia, mutuata dalla M di Benito Mussolini come campeggiava sulle tessere del Pnf.
Marginali, divisi e anche litigiosi. Ecco dunque che Fiore concentra le energie per una Marcia su Roma, ribattezzata pudicamente Marcia dei patrioti, che già nella scelta di celebrare il 28 ottobre (compleanno del regime) la dice lunga sul nostalgismo. E Boccacci tenta di rubargli la scena sventolando solitario una bandiera della Rsi in piazza Montecitorio lo stesso giorno e si becca un Daspo urbano per i prossimi 3 anni.
Anche maneschi, quelli di Forza Nuova. Non temono di scontrarsi con i giovani di sinistra: ci fu una gigantesca rissa a Magliana, a novembre del 2016. Oppure di opporsi alla polizia. Così non si contano le denunce per manifestazione non autorizzata. Oppure i tentativi di bloccare gli sgomberi, come è successo di recente a Tor Bella Monaca, periferia Est di Roma. O ancora, all’opposto, le intimidazioni contro le famiglie di stranieri che ottengono la casa popolare. Qualche settimana fa, per queste azioni violente, Giuliano Castellino, il leader emergente nella Capitale, è finito agli arresti domiciliari assieme ad altri due attivisti.
Altro profilo, e altra marcia, sembra avere CasaPound. Si definiscono «fascisti del Terzo millennio» e le loro stesse biografie parlano di trentenni o quarantenni che non hanno pregressi in stagioni buie. Così il loro leader, Simone De Stefano, può annunciare: «Siamo stati sdoganati dai risultati elettorali, da Ostia a Bolzano, da Lucca a Lamezia Terme». Non ha tutti i torti. Solo nell’ultimo anno: 9% dei voti a Ostia, 8% a Lucca (con un candidato sindaco che umilia il M5S), 6% a Bolzano. Sono andati benino pure a Todi o L’Aquila.
Se non fosse stato per la capocciata di Roberto Spada al giornalista della Rai, con tutto il prosieguo di analisi e rivelazioni sugli ammiccamenti tra il candidato di CasaPound, Luca Marsella, e il clan Spada, forse la cavalcata trionfale dei «fascisti del Terzo millennio» sarebbe proseguita senza nemmeno suscitare troppi interrogativi e ora potrebbero festeggiare le loro 104 sedi in giro per l’Italia, e la crescita di consensi nell'area del disagio, degli arrabbiati, dei delusi dalla Lega o dal M5S. Invece la magistratura romana ha aperto un fascicolo sulle loro relazioni pericolose con gli Spada e Di Stefano sa quanto il tema può essere pesante. Tanto che ha lanciato la sua provocazione: «Faccio un appello al ministro Minniti, di chiarire se c’è questo rapporto di voto di scambio tra CasaPound e una formazione criminale. Ce lo faccia sapere subito. Se così fosse, CasaPound andrebbe sciolta immediatamente».
È un fatto però che CasaPound ormai ha messo un piede dentro le istituzioni e sogna persino il balzo in Parlamento. Tanto che da ultimo parlano di grande politica, di quale appoggio potrebbero dare al centrodestra, di come opporsi all’euro e alla Ue. Funzionano, in tutta evidenza, le loro parole d’ordine: no all’immigrazione, aiuti agli italiani, sovranismo. Stanno attenti a non ficcarsi in risse inutili. Però, se c’è da menare le mani, non è che siano gandhiani.
Hanno anche adottato la strategia degli aiuti alimentari, alla moda di Alba dorata, i neonazisti in Grecia. Vedi la distribuzione di pacchi di pasta a Ostia. Ma seguono un’accorta strategia legalitaria. Proprio ieri è iniziata la raccolta di firme per una legge d’iniziativa popolare («Reddito nazionale di natalità») che si prefigge di dare a ogni nuovo nato un assegno da 500 euro al mese fino ai 16 anni, ridicolizzando così il bonus bebè del governo e superando a sinistra pure il reddito di cittadinanza dei grillini.

La Stampa 30.11.17
È in Ungheria il cuore nero degli estremisti
Arrivano da tutta Europa e aprono sedi a Budapest Da qui parte la campagna contro l’immigrazione
Si moltiplicano i movimenti nazionalisti e xenofobi che aprono sedi a Budapest Per organizzare la propaganda e i convegni utilizzano social e Internet
di Andrea Palladino

Un container, sei uomini infreddoliti. Le mani legate da fascette di plastica. Altre tre persone, con i polsi bloccati dietro la schiena. Un bosco, una borsa con la scritta Unhcr - l’agenzia Onu per i rifugiati - e una fila di ragazzi faccia a terra. Ásotthalom, confine tra l’Ungheria e la Serbia, dove passa il muro anti migranti voluto da Viktor Orbán. È il piccolo regno di László Toroczkai, il fondatore del movimento di estrema destra «64 Contee». La galleria delle foto degli uomini fermati e umiliati si apre sulla sua pagina Facebook di sindaco del villaggio con l’immagine che lo ritrae insieme ad un mastino, mentre sorveglia le operazioni. Qualche clic e Toroczkai appare di fianco a Roberto Fiore, il leader di Forza Nuova. E poi insieme all’austriaco Martin Sellner, il volto più noto del movimento Generazione identitaria.
La guerra dell’informazione ha bisogno delle prede. Ed è ad Est, tra Budapest, Varsavia, Praga, Sofia che si materializza la frontiera chiusa, sigillata, inviolabile sognata dall’ultra destra europea, protagonista di una campagna di manipolazione dell’opinione pubblica sul tema delle migrazioni e dei diritti. Qualcosa di più complesso, sottile e pervasivo delle «fake news» che usa società di comunicazione, case editrici, think tank pronti ad agire dall’Ungheria, dalla Serbia, dalla Polonia, dalla Repubblica Ceca. Paesi dove governi nazionalisti, anzi, «identitari», sono in grado di garantire il clima giusto. E alla fine mostrano - quasi come trofei - i volti dei migranti fermati sui confini della via balcanica. Non solo chiacchiere e distintivo, ecco come agiscono quando governano. Toroczkai ha iniziato la sua ascesa politica sulle barricate degli scontri a Budapest del 2006. Da almeno cinque anni è ospite fisso nei «Boreal festival» organizzati da Forza Nuova tra Cantù e il Garda. Divenuto sindaco di Ásotthalom, ha trasformato il villaggio in una sorta di enclave bianca, cattolica e antiliberal: qui musulmani, omosessuali e migranti trovano un cartello con i loro volti iconizzati barrati all’ingresso della città.
L’Ungheria da tempo è divenuta il crocevia degli estremisti di destra italiani ed europei. Nelle vie di Budapest, fino a qualche mese fa, giravano due esponenti politici molto noti in Gran Bretagna, Jim Dowson e Nick Griffin, alleati di vecchia data di Forza Nuova. Griffin, ex esponente del British National Party, è oggi vice presidente di Alliance for Peace and Freedom, il partito europeo fondato e diretto da Roberto Fiore. La loro è una vecchia amicizia che risale all’epoca della latitanza del leader di Forza Nuova a Londra. Dowson, definito da The Times «l’uomo invisibile dell’estrema destra inglese», è l’esperto del marketing e dei soldi. Ex pastore, considerato un mago della comunicazione e del marketing, in grado di gestire pagine Facebook con centinaia di migliaia di like, fino a qualche anno fa gestiva il call center del Bnp. I due da un paio d’anni dirigono una campagna internazionale contro i migranti, usando, tra l’altro, la britannica Knight Templar International, società creata un paio di anni fa in Scozia, con discreti uffici nel cuore di Budapest. Funziona come piattaforma per la diffusione sui social delle notizie pubblicate da un network di siti d’informazione, tutti specializzati in «hate speech», promuovendo, nel contempo, la vendita di terreni e fattorie ad Ásotthalom: «Qui c’è un sindaco patriota che caccia i musulmani e accoglie gli occidentali», si legge sul sito ufficiale.
A Dowson è riconducibile la Patriot News Agency, che ha appoggiato fin dal 2016 Donald Trump, «con articoli condivisi centinaia di migliaia di volte negli Stati Uniti», come ricorda The Guardian. Sugli stessi server funzionano una decina di siti di propaganda, con video e notizie su migranti e Brexit. Storiacce cruente, titoli cupi, in stile «Gli islamisti si sono presi il Regno Unito». Contenuti molti simili ai tre video islamofobi pubblicati ieri da Jayda Fransen - vice presidente di «Britain First», partito finanziato da Dowson in Gran Bretagna, a capo di una società di logistica a Budapest, la Britannia Management - rilanciati dal presidente Usa Donald Trump, scatenando durissime polemiche. «Non avete idea di quanto lavoro va in questa operazione», commentava qualche mese fa Griffin sul social russo Vk pubblicando il link ad un articolo del New York Times sulle società di comunicazione dell’amico Dowson.
Daniel Friberg, svedese, divide il suo tempo tra le miniere d’oro e gli autori della nuova destra. Ha fondato a Londra la Arktos, casa editrice con un catalogo dichiaratamente estremista: da Evola al pensatore della «Nouvelle droite» De Benoist, dal manifesto di «Generazione identitaria» agli esponenti dell’Alt-right statunitense. Dal 2014 Friberg ha scelto come base operativa europea Budapest, dove ha aperto tre società, una delle quali oggi attiva. Tra le tante attività, dirige il portale altright.com in società con Richard Spencer, l’esponente della destra estrema Usa divenuto famoso per il suo saluto al neo presidente: «Hail Trump», gridò dal palco durante una convention subito dopo le elezioni.
In Ungheria trascorre lunghi periodi anche il responsabile esteri di Forza Nuova, Angelo Balletta, relatore in un convegno organizzato dalla Knight Templar International lo scorso marzo per promuovere la campagna anti Soros dell’estrema destra. Lo scorso anno Roberto Fiore, insieme a Griffin, Dowson e Toroczkai, ha partecipato ad un incontro presieduto da Edda Budaházy, sorella di György, arrestato negli anni passati per terrorismo. Nome, quest’ultimo, ben noto tra i militanti di Forza Nuova, che nel 2010 organizzò un sit-in per la sua liberazione davanti al consolato ungherese di Milano. Un asse solido, carico di simboli. «Avanti ragazzi di Buda, avanti ragazzi di Pest» è l’incipit di una delle canzoni più sentite della destra italiana, dedicata alle rivolte antisovietiche del 1956. Parole cantante in italiano da qualche tempo anche nei licei di Budapest

La Stampa 30.11.17
L’avanguardia che fa politica in casa nostra
di Cesare Martinetti

Non pensate di liquidare con qualche antico luogo comune l’irruzione dei naziskin veneti nel centro aiuto agli immigrati di Como. C’è molto di antico, ma c’è soprattutto molto di nuovo in questa operazione che pur condotta senza l’uso del manganello ha un inequivocabile marchio squadrista. È stata però e soprattutto un’opera di comunicazione, nel senso più contemporaneo del termine: la fabbricazione di un evento che trasmette un messaggio. Slogan che riproducono i capisaldi tradizionali dell’estrema destra nazionalista e fascista: patria, popolo, nemici, stranieri, immigrati, identità. Ma che cavalcano le parole d’ordine antisistema di oggi diventate il rumore di fondo della politica europea, l’humus di tutti i populismi, radicali e anche moderati destinato a colpire i centri nervosi più sensibili, innanzitutto alimentando la paura per gli stranieri: no all’invasione.
Bisogna guardare con lucidità le facce di questi quindici ragazzi vestiti come in divisa: jeans un po’ slavati e bomber nero, capelli cortissimi, qualche cranio rasato, qualche barba curata.
Espressioni dure, minacciose nella forza della presenza, silenziosa e ordinata con cui hanno spalleggiato il portavoce, un giovanotto che ha letto un breve testo, scandito come un comunicato. Sono facce normali, non mostri o caricature di mostri, nessuna anticaglia nostalgica, non avevano creste sulla testa, né borchie sulle spalle.
Bisogna guardarli bene perché sono l’avanguardia di un movimento che si sta dilatando a galassia, che si muove e si articola laddove la politica tradizionale è rimasta senza parole. Sono i missionari di un verbo antico che rispetta una grammatica scontata ma che riempie i vuoti di risposte e di paure. L’operazione compiuta martedì sera a Como non può essere stata improvvisata, risponde a una strategia elaborata in quel Veneto profondo e fecondo dell’estrema destra italiana, dove sono state progettate e realizzate le stragi nere della storia dell’Italia repubblicana. Ma esprime anche domande «nuove», diffuse, politiche. Sarebbe sbagliato guardare all’azione compiuta a Como come a una semplice rievocazione squadristica. Meno che mai al lugubre folklore naziskin.
Tutto questo avviene mentre in modo sempre più palese si manifesta nel resto d’Europa una rete che ha come epicentro Budapest, l’Ungheria del duce Orban che sta emergendo sempre più come il leader che ha creato l’ambiente ideale per l’incubazione di un nuovo paradigma nero. Su «La Stampa» di oggi trovate il reportage di Andrea Paladino da Ásotthalom, nome ideale da fantasy gotico, al confine tra Ungheria e Serbia, laddove passa il «muro» (uno dei tanti del nuovo mondo), barriera di ferro e di simboli, dove l’Ungheria ha costruito la sua diga contro il fiume di siriani che due anni fa scappavano dalla guerra. Qui si incrociano i fili dell’estrema destra italiana con quelle del resto dell’Europa, soprattutto dell’Est, dove nel giro di pochi anni l’emancipazione dall’Urss ha alimentato un nazionalismo aggressivo che si esprime in regimi democratici, ma che teorizzano soluzioni autoritarie, in Polonia, Cechia, Bulgaria e formalizzate nel gruppo di Visegrad, spina costante nel cuore dell’Unione europea. Il modello è Putin, leader riconosciuto delle democrature post comuniste, protettore al tempo stesso di tutti i valori anti-Ue e del despota siriano Assad. Ma piace molto anche Erdogan, leader di un Paese come la Turchia altra sentina storica di lupi grigi e poteri armati.
Da Visegrad a Ostia il passo è meno lungo di quanto possa sembrare. È nelle periferie degradate che la debolezza dei regimi democratici ha lasciato praterie da conquistare non tanto o soltanto con le testate degli scagnozzi mafiosi ai giornalisti, ma con la disciplina dei giovani militanti di CasaPound e dintorni che battono i quartieri abbandonati a se stessi. Crolla la partecipazione ai riti democratici, il welfare non dà risposte, gli stranieri appaiono una presenza minacciosa. O le nostre democrazie sapranno dare presto risposte e uscire dalla retorica o i ragazzi del bomber sono destinati a crescere. Guardateli bene.

La Stampa 30.11.17
Giallo allo Ior, cacciato il numero 2
Licenziato in tronco Mattietti, aggiunto del direttore generale, da vent’anni in Vaticano
La Santa Sede: “Finita la fiducia”. Dubbi sulle cause, non ci sarebbero collegamenti con Vatileaks
di Andrea Tornielli

Non c’è pace per le finanze vaticane, anche se questa volta l’uscita di scena di un alto dirigente dello Ior sembra essere un licenziamento per un grave errore commesso senza risvolti penali vaticani né italiani. Il vicedirettore dell’Istituto per le Opere di Religione Giulio Mattietti, «aggiunto» al direttore generale Gianfranco Mammì e nominato insieme a lui dal board nel 2015 con il placet papale è stato licenziato in tronco.
Lunedì scorso Mattietti ha dovuto lasciare il suo ufficio, ma non è stato scortato alla porta dai gendarmi vaticani o dalle guardie svizzere: ad accompagnarlo all’uscita dallo Stato più piccolo del mondo sono stati infatti alcuni colleghi, in segno di amicizia. Le ragioni del provvedimento sono ignote, ma evidentemente si è trattato di qualcosa di grave, tale da giustificare un licenziamento.
La vicedirettrice della Sala Stampa della Santa Sede ha confermato il provvedimento: «L’aggiunto del Direttore generale dell’Istituto per le Opere di Religione ha cessato il suo servizio lunedì 27 novembre». Nei giorni precedenti era stato licenziato anche un altro dipendente dello Ior, ma la chiusura dei due contratti di lavoro con relativi allontanamenti non sono collegati tra loro.
«Si tratta di una normale attività di gestione d’impresa: è venuta meno la fiducia, e in questi casi, trattandosi di un dirigente di alto livello che ha un certo tipo di contratto, si procede in questo modo, come avviene in qualunque impresa - spiegano alla “Stampa” fonti vicine all’Istituto - Non è vero che l’ex “aggiunto” è stato accompagnato ai cancelli dai gendarmi». Allo Ior ci tengono a far sapere che «questi provvedimenti vengono presi con trasparenza, e senza compromessi, ma che rientrano nei normali rapporti contrattuali all’interno di un’impresa. Chi sbaglia paga», e paga subito, anche in quella che viene impropriamente definita la banca vaticana: «Sono decisioni che vanno prese a tutela di tutti» dicono Oltretevere. Quanto al licenziamento dell’altro dipendente, «c’è stata soltanto una vicinanza di calendario, una pura casualità, ma non esiste alcun collegamento tra le due posizioni».
Da quanto si apprende la decisione non sarebbe in alcun modo collegata né alle vicende che hanno portato lo scorso giugno alla clamorosa uscita di scena del nuovo Revisore generale Libero Milone, né più in generale alle vicende di Vatileaks. E sul caso non sono state aperte inchieste né da parte della magistratura vaticana, né da parte di quella italiana.
Dopo aver conseguito la laurea in Fisica, Giulio Mattietti si è specializzato all’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv). All’inizio degli anni Novanta ha iniziato come consulente nell’Information technology per i provider di Microsoft, Borland e successivamente anche Ibm Italia. Nel 1997 il suo esordio allo Ior come sviluppatore e project manager. Al momento della nomina ad «aggiunto» di Mammì era dunque anche lui, come il nuovo direttore, un «interno» all’Istituto.
Non si può certo dire che la storia anche recentissima dello Ior sia stata avara di colpi di scena: subito dopo l’elezione, Papa Francesco si è trovato a fare i conti con l’inchiesta della magistratura italiana nei confronti del direttore Paolo Cipriani e del suo vice Massimo Tulli, condannati nel febbraio scorso per violazione delle norme antiriciclaggio. È a tutti noto l’avvicendamento turbinoso di presidenti alla guida dell’Istituto - da Angelo Caloia, finito sotto inchiesta della magistratura vaticana, ad Ettore Gotti Tedeschi defenestrato nel maggio 2012, per arrivare ad Ernst von Freyberg e quindi all’attuale Jean-Baptiste de Franssu. Una svolta è stata certamente segnata dalla nomina del direttore Mammì. Ma evidentemente le difficoltà interne non erano finite.

Il Fatto 30.11.17
Scalfari
La giravolta del fondatore

“A chi affiderei il governo del Paese, dovendo scegliere tra Berlusconi e Di Maio? Sceglierei Berlusconi”. Dopo trent’anni di corsivi critici e battaglie politiche, il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari ha cambiato idea sull’ex premier. “Il populismo di Berlusconi – ha spiegato Scalfari, ospite di Giovanni Floris a DiMartedì – ha una sua sostanza”.
In due articoli successivi all’intervista su La7, Scalfari ha sviluppato il suo ragionamento. E ha aggiunto: “Berlusconi non l’ho mai votato e ovviamente non lo voterò mai”. Ma ha mantenuto il punto: ritiene il leader di Forza Italia – pregiudicato e più volte capo del governo nel ventennio iniziato nel ‘94 – preferibile alla minaccia del Movimento 5 Stelle.
Martedì sera Scalfari è stato nuovamente intervistato da Floris su La7. Ha ribadito: “Tra Berlusconi e Di Maio è un fatto di governabilità, questa è la politica. La politica non è un fatto morale. Non lo dico io, l’ha detto Aristotele e prima ancora di Aristotele l’ha detto Platone”.
E sull’ex premier, ha sentenziato: “Berlusconi è adeguato alla cosa pubblica. Sotto il suo governo le cose sono andate più o meno come sotto tutti gli altri governi. Solo il primo governo Prodi lo ha superato largamente”.

il manifesto 30.11.17
Pensioni, la Cgil scalda i motori per sabato. E la Flai sciopera
Previdenza pubblica. A due giorni dalle cinque iniziative di piazza (Torino, Roma, Bari, Cagliari e Palermo), si conferma la distanza con Cisl e Uil. Mentre Mdp, Si e Possibile assicurano che sarà fatto “tutto il possibile”, sul fronte degli emendamenti, in vista dell'arrivo della legge di bilancio a Montecitorio
di Riccardo Chiari

ROMA A due giorni dalle iniziative di piazza della Cgil sulle pensioni, si conferma la distanza con Cisl e Uil. Mentre da parte di Mdp, Si e Possibile si assicura che sarà fatto “tutto il possibile”, sul fronte degli emendamenti, in vista dell’arrivo della legge di bilancio a Montecitorio. Sul punto, le richieste presentate ai parlamentari da Roberto Ghiselli della Cgil riguardano “l’adesione dei giovani alle pensioni contributive di garanzia, e il meccanismo dei 7 anni negli ultimi 10 per essere considerati lavoratori gravosi ai fini del blocco dell’età pensionabile, in particolare per i lavoratori agricoli”.
Proprio dal settore agroalimentare arriva la notizia che La Flai Cgil ha proclamato per sabato otto ore di sciopero. “Questo – spiega la segretaria generale Ivana Galli- è a supporto della mobilitazione, e per consentire a tutti di partecipare alle manifestazioni di Torino, Roma, Bari, Cagliari e Palermo”. Nel merito poi Galli è chiara: “I lavoratori dell’agroalimentare sono tra i più colpiti dalla iniquità della legge Fornero e dall’adeguamento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita. Sono tantissimi i lavoratori stagionali, discontinui, precari che avranno difficoltà nel maturare i requisiti, per loro non ci sono risposte adeguate dal governo. Chiediamo di ottenere il riconoscimento dei lavori gravosi per i lavoratori agricoli, della pesca e del settore delle carni”.
A Radio Radicale è intervenuta Susanna Camusso: “Il governo aveva preso impegni che non ha rispettato. E si continua a procedere a dispetto del fatto che il sistema non regge socialmente”. La segreteria Cgil poi ha sottolineato: “Ci mobilitiamo anche per dare il segno che la vertenza resta una priorità. Perché ai giovani si dice: non avrete una pensione, la avrete a 80 anni e sarà bassissima, e così si loda il sistema integrativo: ma non possiamo pensare di privatizzare il sistema. Se non si mantiene un sistema pubblico, e lo si rende compatibile dal punto di vista sociale, è un problema”.
Di diverso avviso Anna Maria Furlan della Cisl: “Il lavoro sulle pensioni continua, abbiamo raggiunto una tappa importante. Posso dire che abbiamo smontato alcune iniquità della legge Fornero”. Nel dettaglio: “Abbiamo il blocco dello scatto dell’aspettativa di vita per 15 categorie, e un tavolo istituzionale per verificare lavoro per lavoro la reale aspettativa di vita, immaginando quindi un possibile allargamento. Ci sono poi le questioni di come calcoliamo le future pensioni per i giovani, che però oggi più che di previdenza hanno bisogno di lavoro”.
Da parte sua, Carmelo Barbagallo della Uil osserva: “Quello che abbiamo ottenuto ancora non basta, ma è un punto di inizio per far ripartire la nostra iniziativa sulla previdenza, oltreché sul lavoro e sui contratti”. Infine una frecciata a Massimo D’Alema: “Quando la Camera approvò la Fornero, lui fu tra i tantissimi a dare voto favorevole. Oggi che siamo riusciti a far breccia in quella legge granitica, D’Alema ci accusa di esserci accontentati di un ‘piatto di lenticchie’. Sta di fatto che, grazie a noi, una pietanza commestibile adesso c’è; all’epoca, invece, ruppero persino i piatti”.

Il Fatto 30.11.17
Air Force Renzi, ora è ufficiale: costa 150 milioni di euro. È scritto in un documento del ministero della Difesa
Airbus quadrimotore - Un documento della Difesa - escluso dal report inviato in Parlamento - rivela il costo del noleggio da Etihad che dura fino al 2023
di Toni De Marchi e Carlo Tecce

Il capriccio di Matteo Renzi – un mega aereo di Stato a noleggio, l’Air Force Renzi – è riassunto in una cifra altrettanto mega: 149.557.812 euro. Il fiorentino ha lasciato Palazzo Chigi da quasi una dozzina di mesi e non usufruisce del quadrimotore di proprietà di Etihad (già azionista al 49 per cento di Alitalia), ma il conto è arrivato in Parlamento soltanto in questi giorni sotto forma dei documenti sui contratti attivati dal ministero della Difesa nel 2016.
I 150 milioni dell’Air Force Renzi sono opportunamente “nascosti” in una tabella allegata – che proponiamo in pagina – “distrattamente” neppure presente all’interno del faldone pubblicato (si tratta del dossier CCXLV, cioè 245 in latino, che per legge deve essere diffuso ogni anno assieme al bilancio della Difesa). Oltre al costo per l’affitto, si scopre pure la durata dell’accordo con gli emiratini: sette anni, che scadono nel 2023.
Etihad ha consegnato l’Airbus 340-500 nel gennaio del 2016, dopo ripetuti interventi di conversione e riqualificazione del mezzo che ha effettuato il primo volo il 31 marzo 2006. La giustificazione dell’operazione è spiegata nel documento con la necessità di ottemperare alla normativa “Etops”, le limitazioni a cui sono sottoposti gli aerei commerciali quando sorvolano gli oceani. Ma è una menzogna: i quadrimotori commerciali non esistono quasi più. L’Alitalia, per dire, ne è sprovvista. Per colpa dell’azienda disastrata?
L’americana Delta Airlines, che ha oltre mille aerei in servizio, dispone di quattro quadrimotori, degli anziani Boeing 747, i Jumbo Jet. Etihad, su 124 aerei, solo 13. Il primo volo transatlantico su un bimotore risale addirittura all’aprile 1985 e venne compiuto da un aereo della Twa. Parliamo di 32 anni fa, dunque. Da Londra a Tokyo servono 12 ore di volo. La British Airways copre la rotta con dei bimotori Boeing 787 Dreamliner, il costo per ora di volo è la metà esatta dell’aereo di Stato.
Il quadrimotore turbofan, ritirato dal mercato nel 2011, subito ribattezzato Air Force Renzi, è talmente grosso che deve atterrare a Fiumicino e non a Ciampino, dove opera il 31° stormo dell’Aeronautica militare e dove sono parcheggiati gli aerei di Stato. Il fiorentino ha bramato a lungo l’anacronistico Airbus per le traversate oceaniche, le riunioni ad alta quota, soprattutto con le connessioni internet a bordo, ma per aggirare le polemiche (e la trasparenza) ha costretto il governo a secretare i contratti e non l’ha mai neanche utilizzato per non danneggiare la campagna elettorale sul referendum costituzionale.
L’Airbus 340-500 con le insegne provvisorie della Repubblica italiana, dopo un anno e mezzo di rullaggi tecnici e addestramenti del personale, ha esordito in una trasferta negli Stati Uniti e in Canada dell’aprile 2017 con Paolo Gentiloni presidente del Consiglio. In sostanza: per un quinto del tempo del noleggio, l’Italia ha pagato Etihad senza usare l’Air Force Renzi, se non – va ricordato – per una missione del sottosegretario Ivan Scalfarotto a Cuba. L’ex premier ha sempre negato spese folli per l’Airbus, confidando sulla riservatezza nella triangolazione Difesa-Etihad-Alitalia. Ma già nel 2016, invece, una “nota aggiuntiva” del ministero di Roberta Pinotti segnalava un aumento del 622 per cento sul 2015 delle “funzioni esterne” per i voli di Stato: 15 milioni di euro, come rivelò il Fatto, forse serviti per la manutenzione straordinaria del velivolo. Denaro che si perde, non è mica un investimento.
Nel 2023, per l’appunto, l’Italia dovrà restituire l’Airbus a Etihad dopo aver saldato rate per 149 milioni, più gli eventuali extra. E pensare che nel 2011, l’ultima stagione di produzione per un esemplare quadrimotore del costruttore franco-tedesco, per un aereo nuovo si spendevano 261 milioni di dollari. Appurato che un velivolo di queste dimensioni non serve se non a soddisfare delle manie di grandezze, una possibile “motivazione” è che sia una sorta di favore per risarcire Etihad dell’impegno in Alitalia. Fu proprio Renzi a sollecitare il soccorso di Abu Dhabi per salvare l’ex compagnia di bandiera italiana.
È andata come coi capitani coraggiosi di Silvio Berlusconi: Alitalia è al collasso e in svendita.
Resta l’ennesimo mistero del documento denominato CCXLV che riguarda la “relazione sullo stato di attuazione dei programmi di ammodernamento e rinnovamento di mezzi, impianti e sistemi”. È stato consegnato al Parlamento monco, guarda caso, della parte in cui risultano le spese effettive per l’Air Force Renzi.
Per una strana “svista” questo pezzo è finito in un altro documento che non c’entra niente e che riferisce dell’ammodernamento delle infrastrutture. Il documento monco appare sui portali di Camera e Senato. “Noi abbiamo pubblicato quello che ci ha mandato la Difesa”, replicano fonti di Palazzo Madama. La trasparenza non decolla, rimane saldamente ancorata a terra.

Il Fatto 30.11.17
La Boschi e le ambizioni da leader internazionale
di Wanda Marra

Matteo Renzi continua a lavorare sui rapporti con l’estero. E cerca di fare rete, soprattutto con i Democratici oltre oceano che fanno capo a Obama. A tessere la tela è Giuliano da Empoli, suo consigliere fin dalle origini, e fondatore del think tank, Volta. Mentre il volto di punta è ancora Maria Elena Boschi.
Domani a chiudere l’iniziativa organizzata a Roma da Global Progess, la rete dei progressisti americani, insieme a Volta, sarà lei. Non è neanche la prima volta: a settembre andò in Canada all’analogo evento organizzato dal think tank vicino ai progressisti di Trudeau, Canada2020 (la trasferta da più di 1.000 euro al fotografo, come ha raccontato il Fatto). La Boschi parlerà dopo Marco Simoni, Consigliere a Palazzo Chigi, Davide Dattoli, fondatore di Talent Garden, il network di spazi di co-working da lui fondato, Ernesto Ruffini, direttore dell’Agenzia delle Entrate, Agostino Santoni, ad Cisco Italia. Per l’Italia, tra gli altri, ci sarà anche Sandro Gozi, sottosegretario per gli Affari europei e una serie di politici e strateghi stranieri, tra cui il fondatore del Global Progress, Matt Browne, che fu consigliere di Obama.
L’investitura non è casuale: questo tipo di incontri servono a costruire relazioni tra i parlamentari dei partiti progressisti. E l’obiettivo della Boschi è crescere come leader internazionale. Una delle ambizioni che persegue dalla fu campagna per il Sì, quando girò il mondo per presentare la riforma costituzionale.
La Boschi è molto supportata dalla rete renziana. Da Empoli, infatti, è molto in ascesa: è stato lui ad accompagnare Renzi (insieme a Gozi) da Emmanuel Macron: in questo momento per l’ex premier il tentativo di fare asse con il presidente francese è fondamentale. Persino la presentazione della Leopolda su Democratica, l’organo online del Pd (renziano), è stata affidata a lui.


Il Fatto 30.3.17
Crac banca Etruria: 27 richieste di rinvio a giudizio

In quattro hanno chiesto il rito abbreviato, per altri 27 il pm vuole comunque il giudizio: il giudice dell’udienza preliminare deciderà non prima di febbraio, dopo aver ascoltato le difese di quanti, tra ex vertici, amministratori e sindaci revisori, sono coinvolti nell’inchiesta per il crac di Banca Etruria. Oltre duemila i risparmiatori ammessi come parti civili. Nuova udienza ieri davanti al gup di Arezzo per il procedimento sull’istituto nel quale sono stati riuniti quattro filoni di indagini sul fallimento di Etruria: bancarotta, bancarotta bis, liquidazione all’ex dg Luca Bronchi e responsabilità dei sindaci revisori. Proprio Bronchi, insieme all’ex presidente Giuseppe Fornasari, all’ex vicepresidente Alfredo Berni e l’ex consigliere Rossano Soldini, ha chiesto il rito abbreviato. I primi tre sono accusati di bancarotta fraudolenta, Soldini di bancarotta semplice. Per gli altri 27 imputati, tra cui l’ex presidente della banca, Lorenzo Rosi, il pm Andrea Claudiani ha chiesto il rinvio a giudizio a vario titolo per bancarotta fraudolenta o semplice. La tesi dell’accusa si basa sulla presunta esistenza di un governo informale a cui partecipava anche l’allora presidente Fornasari e che avrebbe ridotto il cda a mero organo di ratifica.

Il Fatto 30.11.17
I bonus bebè, la beffa in un paese senza più figli
di Elisabetta Ambrosi

Se sono una lavoratrice autonoma con due figli di tre e cinque anni, tutto ciò a cui ho diritto oggi, pur avendo messo al mondo due bambini, sono unicamente i miseri sgravi fiscali di sempre, che coprono a malapena le spese per il latte. Niente bonus mamma domani, niente bonus asilo nido o bonus bebè (quest’ultimo solo per i nati dal 2015), niente assegni familiari, cui hanno incredibilmente diritto solo i lavoratori dipendenti. Allo stesso modo, anche se ho un bambino nato nel 2015, ma un reddito Isee di 26.000 euro, non avrò diritto ad altro che i soliti sgravi: niente bonus bebè (tetto di 25.000 euro) e niente bonus asilo nido (solo per i nati dal 2016).
Se invece sono così fortunata da avere un figlio dopo il 2016 e un reddito basso, allora potrò usufruire di mille euro di bonus nido – non cumulabile però con il voucher per nidi e baby sitter, molto più conveniente – sufficienti più o meno per un paio di mesi di retta, visti i costi attuali degli asili. Poi sì, potrò avere anche il bonus bebè di 80 euro al mese (riecco i magici 80 euro), in pratica soldi che non coprono neanche la spesa dei pannolini. Ma attenzione, se deciderò di fare un altro figlio, il suo bonus bebé sarà diverso da quello del fratello. Il secondo potrà infatti godere di soli 40 euro – ma d’altro canto allora le elezioni saranno passate – e soltanto per un anno invece che tre, come se le necessità di un bambino cessassero dopo dodici mesi.
A spiegare quanto sia inutile e persino offensiva questa ragnatela di misure – definita erroneamente “a favore delle famiglie”, quando invece è destinata solo ad alcune famiglie e in modo insufficiente – non servono parole: bastano direttamente i dati arrivati dall’Istat: 100.000 bambini in meno dall’inizio della crisi economica a oggi, con un media di figli per donna che precipita a 1,34. Un calo che coinvolge anche le straniere, a dimostrazione di quanto la decisione di non fare figli sia sempre meno culturale e sempre più legata all’angosciosa mancanza di lavoro e di soldi.
Da anni i sociologi, inascoltati, continuano a dire che le politiche sociali non si fanno con i bonus, che ci vogliono misure universalistiche, cioè assegni svincolati da criteri assurdi e soprattutto versati fino alla maggiore età del figlio, perché un adolescente incide sul bilancio familiare – basti pensare a quanto mangia! – anche più di un bebè. Ma nulla: si continua con l’ipocrita e ideologica politica delle mance e degli slogan, quelli di ieri – ricordate i mille asili in mille giorni? – e quelli di oggi, come la recente promessa di Renzi alla Leopolda di estendere gli 80 euro alle famiglie con figli. Puro marketing elettorale.
Perché chi volesse veramente proteggere le famiglie dovrebbe, oltre ad introdurre assegni veri, proteggere il lavoro, non renderlo strutturalmente precarizzato con il Jobs Act salvo poi varare inutili sgravi fiscali una tantum per chi assume. Oppure introdurre un reddito minimo sostanzioso, non come il tanto sbandierato Rei, pubblicizzato citando la cifra di 485 euro al mese: vera, certo, peccato che destinata a famiglie di 5 o più persone e con un reddito Isee non superiore a 6.000 euro (e solo per 18 mesi!).
La realtà è un’altra: quella di giovani uomini e donne (più vicini ormai ai loro nonni che ai loro genitori, ma senza l’allegria di una famiglia numerosa), che lavorano, quando lavorano, con contratti ormai in maggioranza a termine e importi ridicoli. E che per questo spesso rinunciano – con una sofferenza che nessuno racconta – a fare figli, o ne fanno uno solo, col rischio concreto di perdere il lavoro e privando un bambino della gioia incommensurabile di avere fratelli. Siamo un Paese sempre più vecchio, esposto a squilibri demografici ormai certi. E soprattutto con una classe dirigente incapace di capire che sui bambini si fonda tanto la nostra felicità quanto la nostra futura sussistenza.

Il Fatto 30.11.17
Poche donne e poco lavoro: 100 mila neonati in meno
Meno 18% dal 2008: crisi economica e il calo demografico di 40 anni fa
Poche donne e poco lavoro: 100 mila neonati in meno
di Virginia Della Sala

Sempre meno nascite, anche tra i migranti. Lo ha certificato ieri l’Istat, nel giorno in cui è stato oltretutto presentato in commissione Bilancio un emendamento che dimezza il bonus bebè: dal 2008 al 2016 sono nati 100 mila bambini in meno. L’anno scorso all’anagrafe ne sono stati registrati 437.438, 12 mila in meno rispetto al 2015. Colpa della crisi, ma non solo.
L’Italia sta scontando il calo delle nascite del periodo che va dal 1976 al 1995, quando è stato toccato il minimo storico di 1,19 figli per donna. Così, oggi le donne residenti in Italia tra i 15 e i 29 anni sono poco più della metà di quelle tra 30 e 49 anni (il range 15-49 rappresenta “l’età feconda”). Meno donne in età feconda (o più donne in età avanzata, seppur feconda) implicano meno nascite. “Questo fattore – spiega l’Istat – è responsabile per i tre quarti circa della differenza di nascite osservata tra il 2008 e il 2016”, ovvero 74 mila bambini non nati. “Durante gli anni 60 nascevano quasi un milione di bambini all’anno – spiega Massimo Livi Bacci, professore di Demografia all’Università di Firenze –, poi la natalità ha rallentato. Un calo avvenuto nella gran parte del mondo sviluppato e in parte di quello in via di sviluppo”. Quindi la flessione tra il 1976 e il 1995: “Diverse le cause, dalla diffusione della contraccezione all’aumento del livello di coinvolgimento delle donne nel mondo del lavoro”. Il calo di almeno 25 mila nascite dipende invece da quella che viene definita “diminuzione della propensione ad avere figli”. Si è passati dalla media di 1,45 figli per donna del 2008 a 1,34 del 2016. In questa fascia si trova “l’effetto crisi”, suffragato dal calo di primi figli del 20 per cento su tutto il territorio. “La diminuzione – si legge – è marcata anche nelle regioni del Nord e del Centro che avevano sperimentato una fase di moderata ripresa, riconducibile soprattutto alle nascite da coppie con almeno un genitore straniero”. Che, invece, diminuiscono dal 2012. “Gli stranieri sono una quota relativamente piccola della popolazione italiana (5 per cento, ndr) – spiega Livi Bacci – non possono quindi influire più di tanto. Però, man mano che l’immigrazione matura e che aumenta il tempo di residenza, le coppie degli stranieri tendono ad adeguarsi ai comportamenti e ai livelli di natalità della popolazione italiana”. Oggi hanno un tasso di fecondità intorno a 1,9 figli per donna, molto inferiore alla media dei Paesi di origine.
E anche se sembra essere in ripresa la propensione a sposarsi, dato positivo perché – rileva l’Istat – è ancora forte la correlazione tra nozze e natalità, resta il progressivo ritardo con cui si arriva alle prime nozze causato dalle difficoltà lavorative. Come dice l’Istat: “L’allungamento dei tempi formativi, ma soprattutto le difficoltà che incontrano i giovani nell’ingresso nel mondo del lavoro e la diffusa instabilità del lavoro stesso”. Le donne senza figli saranno il 21,8% di quelle nate nel 1976.
Insomma, in Italia esiste una “questione demografica”, c’è una demografia molto debole che si riflette nel rapido invecchiamento, nella bassissima natalità e che crea e creerà dei costi per la collettività in termini di sviluppo sul lungo termine. Le ricette? “Almeno tre: favorire tutto ciò che restituisca autonomia ai giovani, che li renda finanziariamente ed economicamente indipendenti prima. Poi, più donne al lavoro, visto che c’è bisogno di due redditi in famiglia e minore differenza nei tempi dedicati alla cura dei figli”.
Anche perché sul futuro pende un ulteriore problema: “C’è e ci sarà uno squilibrio – conclude Livi Bacci – : si deve a questo il fatto che l’età pensionistica venga aumentata. Ed è uno squilibrio destinato ad ampliarsi con conseguenze economiche”. Saranno infatti più difficili i trasferimenti tra la forza lavoro, che diminuirà, e i pensionati, che invece aumenteranno.

il manifesto 30.11.17
Leila Khaled non entra, la Palestina fa paura
Italia. Roma vieta l’ingresso all'attivista palestinese dopo giorni di campagne e interrogazioni parlamentari. L'ultimo di una serie di dibattiti sulla questione palestinese cancellati dalle istituzioni
di Chiara Cruciati

In Spagna sì. Al parlamento europeo a Bruxelles sì. In Italia no: è terminato prima di cominciare, all’aeroporto di Fiumicino di Roma, il viaggio di Leila Khaled in Italia. Ufficialmente per la non validità del visto Schengen (che gli organizzatori del tour smentiscono), ufficiosamente per la campagna da settimane attiva online e sui quotidiani nazionali per non far parlare l’attivista palestinese nel nostro paese.
Leila Khaled fa ancora paura. Una raccolta firme è stata lanciata sulla piattaforma Change.org «contro la terrorista palestinese», mentre sui media esponenti della comunità ebraica italiana denunciavano «la visita dell’ex terrorista».
La stessa che a fine settembre ha parlato a Bruxelles, su invito di membri del parlamento Ue, del ruolo delle donne nel movimento di liberazione palestinese. In Spagna ha fatto altrettanto.
Leila Khaled oggi
In Italia era attesa a Cagliari, Napoli e Roma, tre incontri organizzati dall’Udap, l’Unione democratica arabo-palestinese. Che ora denuncia: il visto era valido.
Diversa la versione del ministero degli interni: «Le normali procedure di verifica sulla regolarità dei titoli necessari hanno evidenziato come fosse sprovvista di un visto Schengen in corso di validità». È successo martedì, ora Khaled è di nuovo in Giordania, dopo essere stata imbarcata sul primo volo.
A muovere il ministero è stata l’interrogazione parlamentare presentata alcuni giorni fa da Mara Carfagna, portavoce di Forza Italia e consigliere comunale a Napoli (Khaled avrebbe dovuto parlare all’Asilo Filangieri dove era stato invitato anche il sindaco della città, De Magistris): chiedeva conto a Minniti degli incontri previsti «in un momento così delicato per la lotta contro il terrorismo internazionale».
Tanto rumore e tanta indignazione a cui alcuni quotidiani italiani hanno dato voce e che secondo gli organizzatori altro non sono stati che un atto di censura. Come quelli che hanno caratterizzato l’ultimo anno, una sequela di cancellazioni di eventi sulla questione palestinese a seguito delle aperte pressioni della comunità ebraica italiana e dell’ambasciata israeliana.
A marzo la Sapienza negò all’ultimo momento la sala per l’evento «È tempo di giustizia in Palestina. Le responsabilità dell’Europa», organizzato tra gli altri da Arci, Fiom e Assopace nell’ambito delle celebrazioni per i 60 anni del Trattato di Roma.
Pochi giorni prima il Comune aveva bloccato la programmazione di tre film palestinesi al Nuovo Cinema Aquila di Roma. A febbraio Sinistra Italiana aveva revocato la richiesta di una sala in Campidoglio per un evento della campagna Bds (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) a cui doveva prendere parte Ann Wright, ex diplomatica e marine Usa, oggi attivista per i diritti umani, dopo le accese proteste dell’ambasciata di Israele e della comunità ebraica romana.
Forse non è Leila Khaled a far paura. A far paura è la Palestina, sradicata dal discorso politico – a partire da quello di sinistra – e ridotta da lotta anti-colonialista a mera questione di ordine pubblico. Khaled è un simbolo per molti: per Israele è emblema del terrorismo, per gli anti-sionisti di resistenza.
È stata motivo di ispirazione politica per tanti palestinesi che l’hanno conosciuta negli anni ’60 e ’70 quando, da militante della formazione marxista Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Pflp), compì due dirottamente aerei. Entrambi si conclusero senza vittime, Khaled non ha mai ucciso: l’ordine del Pflp era di non mettere nessun passeggero in pericolo (nel secondo caso, non usò le due granate che aveva con sé quando intervenne la sicurezza).
Rifugiata dal 1948, è tuttora membro dell’Ufficio politico del Consiglio nazionale palestinese, per il quale lavora da Amman dove è in auto-esilio per evitare l’arresto in Israele.
Sullo sfondo resta un paese, l’Italia, non più capace di affrontare la questione palestinese se non a colpi di censura e rimozione del dibattito.

il manifesto 30.11.17
Il corpo della donna e quello di Ny
Televisione. Disponibili su Netflix i dieci episodi della prima serie di Spike Lee, «She’s Gotta Have it», remake del suo «Lola Darling» del 1986
di Giovanna Branca

Seduta sul letto, guarda in camera e parla con lo spettatore: come nel film di ormai trentun anni fa la Nola Darling di Spike Lee – in Italia il suo nome era stato cambiato in Lola – è una giovane e bellissima artista nera di Brooklyn, piena di vita e insofferente verso la monogamia.
She’s Gotta Have it, il film del 1986 di cui era la protagonista, è ora anche una serie tv-remake creata per Netflix dallo stesso Spike Lee, anche produttore esecutivo insieme alla moglie Tonya e regista di tutti e dieci gli episodi disponibili sulla piattaforma streaming dal 23 novembre.
«La gente parla di me, ma non mi conosce» dice dunque Nola (DeWanda Wise) allo spettatore in apertura del primo episodio «#DaJumpoff (DOCTRINE)»: il «problema» della sua identità nello scarto fra percezione interiore e lo sguardo degli altri è al cuore della sua vicenda di donna orgogliosamente libera e determinata a essere chi e come vuole. Come nella storia originale, la protagonista si destreggia infatti fra tre amanti che vorrebbero l’esclusiva: l’uomo d’affari Jamie Overstreet, l’adone narcisista Greer Childs e il giovane e squinternato che vive nelle case popolari di Brooklyn – ma vorrebbe trasferirsi da Nola – Mars Blackmon, il ruolo che nel 1986 Spike Lee aveva ritagliato per se stesso e che ora è interpretato da Anthony Ramos.
Rispetto al film la serie tv – quasi un musical sulle note della musica black che scandisce l’azione, da Miles Davis a Mary J. Blige – introduce e approfondisce anche altri personaggi, come le amiche di Nola e i loro personali fantasmi. Ma anche l’arte stessa della protagonista diventa una parte integrante della narrazione e del personaggio: i suoi quadri – su cui il film non si soffermava – dipingono il mondo come Nola lo vede e lo desidera, si oppongono anch’essi a un’immagine di lei imposta dall’esterno. «Non permetterò a loro di dipingere la mia vita», dice Nola – grande cinefila – dei suoi tre amanti che come in Rashomon di Kurosawa hanno ciascuno una diversa prospettiva su di lei – e su ciò che da lei vorrebbero.
I trent’anni trascorsi dall’uscita di She’s Gotta Have it (da noi Lola Darling) permettono a Lee di indagare nella contemporaneità non solo una soggettiva femminile emancipata – che rivendica la differenza e l’amore per il piacere fisico – ma anche quanto la percezione di questa emancipazione si sia evoluta, o risenta ancora di vecchi pregiudizi, nel corso del tempo. E gli permette anche di fare ammenda di quello che nella sua autobiografia era citato come uno dei suoi più grandi rimpianti cinematografici: la scena dello stupro di Nola nel film originale, della quale Lee dice di rammaricarsi perché all’epoca comprendeva a un livello troppo superficiale le implicazioni di una simile violenza.
Lo scarto principale impresso su She’s Gotta Have it dal passaggio del tempo è però quello visibile sull’epidermide dell’altra grande protagonista del film – e imperituro amore del filmmaker: New York, e qui in particolare le strade di Brooklyn che nelle prime sequenze ci vengono mostrate con le immagini di allora e di oggi. È la gentrificazione, il «vampirismo» con cui agenzie immobiliari e classi agiate cercano di svuotare il quartiere da chi lo abita da decenni, in primo luogo famiglie african american come quella della protagonista.
E anche a questa vampirizzazione, come a quella della sua persona, Nola oppone una fiera resistenza in una sovrapposizione tra il suo stesso corpo e le strade della città, che ricopre di manifesti da lei creati e che elencano gli appellativi con cui una ragazza viene chiamata per strada in tutte le lingue del mondo – tutte udibili per le strade di New York.

Il Fatto 30.11.17
Veleno in tribunale: così muore un generale-killer
Praljak suicida alla lettura della sentenza all’Aia: pulizia etnica in Bosnia
Slobodan Praljak aveva 72 anni, un passato prima artistico poi come comandante militare
di Pierfrancesco Curzi

Ecco come muore un generale croato condannato per pulizia etnica, incitamento all’odio religioso, detenzione e trattamento crudele contro le persone. Forse Slobodan Praljak pensava di essere sul palco di un teatro mentre, in risposta alla sentenza definitiva, ha portato alla bocca una boccetta bevendone il contenuto. Dentro c’era del veleno e, dopo lo show, Praljak è morto all’ospedale dell’Aia in seguito alle complicazioni provocate dalla sostanza letale. Oltre al tipo di veleno usato, resta da capire come sia stato possibile far entrare quella boccetta in un’aula di tribunale. La notizia della morte ha suscitato forti reazioni in Croazia: “Slobodan Praljak si è sacrificato per provare che era innocente. Nella sentenza dei giudici dell’Aia non esiste una sola parola che dimostri la sua responsabilità personale. Il Tpi è un tribunale politico” ha detto Dragan Covic, a capo della presidenza tripartita di turno. Oltre all’abbattimento dello Stari Most (Ponte Vecchio), il ponte ottomano che unisce le due anime di Mostar, Praljak è accusato, assieme ad altri imputati, tra cui l’ex presidente croato, Franjo Tudjman, morto nel 1999, di voler annettere territori bosniaci alla Croazia.
‘Bobo’ Praljak, faccione da Babbo Natale, ingegnere elettronico diventato regista teatrale, addirittura docente di filosofia, capace di trasformarsi in uno dei tanti militari privi di scrupoli. Da capo dell’esercito prima e ministro della Difesa croato poi, Praljak è stato uno dei tasselli del mosaico criminale messo in atto tra il 1992 e il 1995 in Bosnia Erzegovina. Il teatro, ieri, era quello del Tribunale Penale Internazionale per i Crimini nell’ex Jugoslavia (Icty) dell’Aia: “Non sono un criminale”, ha urlato Praljak dopo la lettura della sentenza che confermava i 20 anni inflitti nel 2013. Poi il gesto e il caos nell’aula dell’Aia, dopo l’allarme lanciato dall’avvocato: “Il mio cliente ha detto di aver bevuto del veleno”. Il processo è stato sospeso. Con Praljak alla sbarra c’erano altri imputati, tra cui Jadranko Prlic (gli altri sono Bruno Stojic, Milivoj Petkovic, Valentin Coric e Berislav Pušic), allora premier dell’autoproclamata Repubblica Croata dell’Herceg Bosna, nel 1991, qualcosa di simile alla Republika Srpska.
E qui le analogie con la parte serba del male dei Balcani si fanno più ficcanti, paragonando Praljak, con la verve filosofica e teatrale, all’ideologo della Rs, Radovan Karadžic, medico e poeta da strapazzo prestato alla causa genocidiaria. In comune i due, fino a ieri, avevano i carichi giudiziari: più pesante quello di Karadžic, condannato a 40 anni nel 2016. Lo Stari Most è stato ri-edificato nel 2004, rispettando disegno e stile originale, tirato giù dagli obici delle armate croate il 9 novembre 1993. Dietro quella decisione c’era proprio Praljak. Abbattere un ponte, nell’immaginario collettivo, non può avere lo stesso peso delle esecuzioni di massa ad Ahmici, degli stupri etnici o della creazione dei campi di concentramento a Dretelj, Gabela e Heliodrom. Quella ferita è stata sanata, ma l’atmosfera a Mostar (e nel resto della Bosnia e della Federazione croato-musulmana) è tesa. Per ora la tensione deborda in intemperanze tra le due squadre calcistiche di Mostar, il Velez e il cristiano Zrinjski. Martedì sera, proprio sul ponte vecchio, i cristiano-cattolici hanno organizzato una veglia per pregare a favore dei sei ‘Eroi croati’. Tra loro, uno è diventato martire.

Corriere 30.11.17
Socrate non c’entra
Quando il veleno è la via di fuga degli sconfitti
di Emanuele Trevi

Il veleno letale evoca ricordi e immaginazioni tra i più disparati, tra memoria storica e immaginazione letteraria, fiaba e cronaca giudiziaria. È una minaccia, ma anche la più rapida ed efficace via di fuga. È un’ipotesi storica che si affaccia quando si riaprono i dossier di tante morti illustri, archiviate con fretta eccessiva. È uno degli accessori tipici del corredo delle spie, negli anni d’oro della Guerra Fredda: un finto dente pieno di cianuro, da ingoiare quando tutto è perduto, evitando così i rischi di un interrogatorio. In teatro, l’impiego più geniale di una boccetta di veleno è probabilmente quella del giovane Shakespeare, in quella commedia che all’improvviso si trasforma in tragedia che è Romeo e Giulietta. Perché un finto veleno, quando la sventura interviene nei fatti umani, può essere più micidiale di uno vero.
Tra le morti per veleno della storia del romanzo, la più straziante la scrisse Flaubert, nelle ultime pagine di Madame Bovary: una fine lenta e dolorosa, sproporzionata alle colpe dell’eroina. Negli stessi anni, in una delle poesie erotiche più celebri dei Fiori del male, Baudelaire trovava il veleno più letale nella «saliva che morde» dell’amata, più potente del vino e dell’oppio. Metafora o realtà, il veleno è un compagno costante delle vicende umane.
Non stupisce se quello del generale croato Slobodan Praljak è un gesto che ci turba per il suo sapore antico, da repertorio tragico, capace di evocare tutto ciò che, nell’esperienza umana del male e del dolore, è imperituro, come certe malattie fulminanti, o le catastrofi naturali. A metà degli anni Novanta fu proprio la guerra civile nella ex Jugoslavia a ricordarci, con la sua oscena brutalità, che gran parte dei progressi del genere umano, a esaminarli bene, non sono che leggere mutazioni del costume, smottamenti di superficie. Tutto ciò che di atroce e indicibile accadde in Bosnia, era ancora più atroce e indicibile perché sembrava uscire direttamente da un capitolo di un libro di storia o da un romanzo del passato. L’assedio di Sarajevo polverizzava, per la sua lunghezza, il terribile record di Leningrado. La gente moriva di fame e di freddo come durante la Guerra dei Trent’Anni. L’inverno stesso diventava un importante fattore strategico, come durante le campagne napoleoniche.
Ma il tragico andava a braccetto col pacchiano. I discorsi dei criminali di guerra, i vessilli, i giuramenti, i miracoli: era un massacro che assomigliava in maniera disgustosa all’involontaria parodia di un massacro. Mai la retorica del suolo e della stirpe aveva rivelato il suo volto criminale in maniera così evidente. I signori della guerra, anticipando i fasti medievali del Califfato, nutrivano un culto, insieme osceno e ridicolo, per tutti quegli atteggiamenti da sagra di paese che potessero richiamare le virtù del passato. È su questo sfondo che la boccetta di veleno ingerita da Praljak di fronte alla corte dell’Aia acquista una sua terribile coerenza. Praljak era un uomo notevole: un ingegnere, ma anche un regista, diplomato all’Accademia d’Arte Drammatica di Zagabria. Ed ha scelto di morire evocando un archetipo memorabile. Ma gli archetipi sono complessi, e pericolosi da maneggiare. Significano sempre qualcosa di più di quello che, in una data occasione, vorremmo che significassero.
In ogni imitazione di un archetipo, si afferma qualcosa e spunta l’ombra del suo contrario. Ebbene, il mondo antico ci ha consegnato i fantasmi di due grandi avvelenati: Socrate e Cleopatra. La storia del primo è quella di chi accetta di bere la cicuta potendo sempre farne a meno, percorrendo lietamente il sentiero della sua sorte proprio perché fino all’ultimo esiste una via di scampo. Nella fine di Cleopatra, così come ce la racconta Plutarco, il veleno ha tutt’altro significato. Il celebre aspide è una via di scampo, una sfida, l’estrema affermazione di una volontà che non intende essere giudicata da altri che da se stessa. Non spetta a me giudicare come e quanto il generale Praljak abbia meditato su questa spinosa contraddizione. Sono portato a vedere un barlume di dignità in ogni atto di coraggio, per quanto disperato. Ma non posso evitare di pensare che il filosofo ateniese e la regina egiziana rappresentino due possibilità opposte e inconciliabili dell’agire umano. Il veleno di Socrate si è trasformato nella linfa di un’intera civiltà. Possiamo dire che ha cambiato il mondo. Proprio il contrario di quello di Cleopatra, che col mondo ha regolato solo una questione privata, un rapporto di forze .

Il Fatto 30.11.17
L’Europa parla, la Cina compra tutta l’Africa rapita dagli yuan
Il regime comunista scambia infrastrutture per materie prime: e silenzio sui diritti umani
di Andrea Valdambrini

Nel giorno del vertice Europa-Africa di Abidjan, con la promessa dei capi di Stato e di governo europei di rimettere l’Africa al centro degli interessi del Vecchio continente, risulta ancora più evidente che negli ultimi anni solo la Cina ha avuto una visione per questo continente, mentre anche gli Usa sembrano essere in ritirata.
Nella sua espansione globale, Pechino non agisce certo da benefattore: il continente rappresenta per la Cina una fonte ricchissima di materie prime (petrolio in Nigeria, Angola e Sudan; rame in Congo e Zambia; uranio in Tanzania e Namibia), un enorme mercato, dalla demografia in crescita, verso cui esportare e anche una sorta di laboratorio di idee per “sperimentare differenti soluzioni in un ambiente a basso rischio”, come ha indicato il giornalista americano Howard French nel suo libro China’s Second Continent (2014), in cui descrive la costruzione del nuovo impero africano da parte di un milione di imprenditori cinesi. Inoltre, alle infrastrutture – porti, ferrovie, dighe – già realizzate o progettate, segue l’influenza geopolitica lungo le linee della strategia lanciato dal presidente Xi Jinping: la Nuova via della Seta, ovvero la strada cinese verso l’Occidente.
Cifre degli investimenti Dal 2000 al 2015, gli investimenti di Pechino verso il continente africano sono passati da meno di 10 miliardi a oltre 220 miliardi di dollari, anche se negli ultimi anni hanno subito un calo dovuto alla diminuzione dei prezzi delle materie prime. (Fonte: China Africa Research Initiative della John Hopkins University, Washington). Le principali destinazioni dell’istituto di credito pubblico cinese (Eximbank) a sostegno degli investimenti sono: Etiopia e Angola (oltre 10 mld), Kenya (10 mld), seguiti da Sudan, Camerun e Congo, anche se le somme maggiori vanno verso Egitto (24 mld) e Nigeria (6 mld).
Al 2015 le miniere o industria estrattiva e le costruzioni sono in testa con oltre 25 miliardi di dollari, la manifattura e la finanza seguono con rispettivamente 15 e 10 miliardi, ricerca scientifica e servizi tecnologici a poco meno di 5 miliardi (dati elaborati da Financial Times). Secondo stime del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) il totale del commercio con gli Stati africani è stato nel 2017 tre volte maggiore di quello con gli Usa.
In Kenya Pechino ha finanziato quasi per intero la ferrovia Mombasa-Nairobi, costata 4 miliardi di dollari, in funzione dal 2018. Aprirà il prossimo anno anche la ferrovia Lagos-Kalabar (1400 km), in Nigeria, opera da 11 miliardi. La diga Gran Ethiopia Reinassance, costata da 4,8 miliardi di dollari provvederà energia elettrica a Etiopia e paesi vicini, così come il porto commerciale di Bagamoyo, in Tanzania, che diventerà il più grande del continente entro il 2045, grazie a 11 miliardi di investimenti cinesi.
Ruolo geopolitico Anche il soft power si espande. Si contano oggi 52 missioni diplomatiche di Pechino (su 54 Paesi del continente) contro le 49 di Washington, mentre l’esercito cinese impiega circa 8.000 Caschi blu in 5 Paesi (Sudan, Sud Sudan, Mali, Congo, Liberia), risultando il primo per presenza militare tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu (fonte: US Institute of Peace). La scorsa estate, come ha riportato la Cnn, una serie di fotografie satellitari hanno rivelato la costruzione di una imponente struttura di supporto logistico militare nel porto di Gibuti: il primo di questo genere per la Cina. Collocato sul Golfo di Aden, all’ingresso meridionale del Mar Rosso, Gibuti è uno snodo chiave di controllo della rotta tra Oriente e Mediterraneo. All’estremità settentrionale, il Canale di Suez, sul cui raddoppio Pechino sta lavorando con massicci investimenti in Egitto.
Fra storia e politica Tradizionalmente, la Cina mantiene un basso profilo in politica estera, seguendo un principio di non interferenza nelle vicende interne degli Stati, preferendo l’espansione commerciale. Oltretutto senza mai porre questioni di diritti civili o umani ai regimi – spesso poco democratici – in cui le sue imprese sono presenti.
Esistono però legami politici sottotraccia. Risalgono agli anni della decolonizzazione (1960-70) i rapporti tra Cina dell’era Mao e movimenti di liberazione africani. In tempi recenti tali legami sembrano però rinnovarsi. Il colpo di Stato militare in Zimbabwe, che ha estromesso Robert Mugabe dopo 37 anni al potere avrebbe avuto via libera da parte di Pechino. “Se così fosse, il mondo avrebbe assistito al primo caso di golpe non favorito da Cia o dai servizi segreti britannici (MI6), ma concepito e attuato con il tacito supporto della nuova superpotenza globale del 21esimo secolo”, ha scritto il quotidiano britannico Guardian.
Soci o colonizzatori? I soldi cinesi, uniti alla presenza massiccia ma silenziosa, fanno dunque la felicità degli africani: il 70% in Africa ha una visione positiva della presenza di Pechino (fonte: Afrobarometer 2014-15). C’è però all’orizzonte la spada di Damocle del deficit commerciale, unita a quella del debito. Il continente esporta verso la Cina molto meno di quanto importa e uno sbilanciamento simile riguarda anche i prestiti cinesi a sostegno di infrastrutture e progetti nel continente. In questo modo, sostengono alcuni osservatori, il rischio sarà quello di ritrovarsi indebitati fino al collo. Esposti non solo economicamente, ma anche politicamente verso Pechino.


La Stampa 30.11.17
Dal Politecnico di Torino la svolta nella caccia a Nefertiti
Le indagini con i radar confermano la presenza di due cavità accanto alla tomba di Tutankhamon: sono la via d’accesso alla regina?
di Fabrizio Assandri

Ci sono due cavità sospette vicino alla tomba di Tutankhamon. Due vuoti nella roccia. Il più grande a sinistra, l’altro a destra della camera mortuaria. Le dimensioni sono compatibili con quelle di stanze funerarie. La scoperta degli scienziati italiani, il team del Politecnico di Torino guidato dal fisico Franco Porcelli, è stata resa nota a Berlino dall’ex ministro egiziano Mamdouh Eldamaty, riportata dal giornale Der Tagesspiegel. È una svolta rispetto a quanto sapevamo. Riapre i giochi nella ricerca di quello che è considerata il Santo Graal dell’egittologia, la tomba di Nefertiti.
I radar degli scienziati italiani, chiamati dall’Egitto per cercare il sepolcro della regina, hanno trovato presunte cavità nel sottosuolo della Valle dei Re. Tutto era partito nel 2015: l’archeologo inglese Nicholas Reeves ipotizzò che la dimora eterna di Nefertiti, Grande sposa reale del faraone Akhenaton, si trovasse oltre la camera mortuaria di Tutankhamon, dietro a porte murate. Ipotesi e leggende alimentate dalla morte improvvisa del faraone bambino: non avendo il tempo per costruire una tomba tutta per lui, sarebbe stato sepolto nell’anticamera di un’altra tomba, ancora nascosta, quella della sua matrigna Nefertiti.
Gli egittologi si sono divisi, gli scienziati pure. Due ricerche con strumenti scientifici - una giapponese, una del National Geographic - sono giunte a risultati opposti. Scoppiò anche un caso politico. Il governo egiziano comunicò con enfasi i risultati promettenti dei giapponesi, smentiti dalla seconda ricerca. Qui s’inserisce il lavoro del Politecnico, che dovrà dire in definitiva se c’è o no qualcosa oltre il muro affrescato della tomba. Ebbene, le scoperte italiane riaprono gli interrogativi e riaccendono le speranze.
L’ex ministro parla di «anomalie» vicino alla tomba di Tutankhamon, trovate con strumentazioni elettriche e onde elettromagnetiche che fanno «vedere» fino a 10 metri sotto terra. Franco Porcelli, fino al 2015 addetto scientifico dell’ambasciata al Cairo, non vuole commentare risultati ancora top secret. Ma conferma la scoperta di due anomalie, attraverso elettrodi all’esterno della tomba che hanno misurato la consistenza del sottosuolo. «La resistenza al passaggio della corrente elettrica è alta se ci sono cavità, perché le correnti non possono circolare nel vuoto. Sono queste le anomalie che abbiamo trovato».
Dobbiamo aspettarci un’altra tomba o camere nascoste? Ogni ipotesi è prematura: potrebbe anche trattarsi di una diversa, naturale, consistenza della roccia. O di cavità scavate per altri scopi. Per ora non sono stati rilevati segni di collegamento, «ma se dovesse esserci un corridoio dalla tomba alle anomalie, e se questo fosse pieno di detriti, potrebbe essere invisibile ai nostri strumenti». Sono tanti i misteri che avvolgono la morte del faraone bambino, avvenuta nel 1330 a. C., per omicidio, malattia, o un banale incidente con il cocchio. Porcelli ha fatto parte di un’altra ricerca, scoprendo che la lama del pugnale del corredo funebre era di origine meteoritica. E un mistero è anche la pittura nella tomba, che secondo Reeves raffigurerebbe Nefertiti, non Tut.
Non ci sarà bisogno di scavare per scoprire la verità, a cui si potrebbe giungere presto. «Stiamo attendendo dal ministero delle Antichità il via libera a eseguire analisi, stavolta dall’interno della tomba, con georadar di ultima generazione», dice Porcelli. Le instabilità che scuotono l’Egitto non aiutano, anche se l’ex ministro ha detto che le indagini potranno partire a gennaio.


Corriere  30.9.17
Memoria Un saggio di Bruno Maida (Einaudi) sulla sorte terribile toccata ai più piccoli nelle guerre del Novecento
Il secolo dei bimbi sterminati Una tragedia che non è finita
Invece di proteggere l’infanzia gli Stati continuano a vendere armi
di Corrado Stajano

È difficile dimenticare «la bambina della foto», Phan Thi Kim Phúc che l’8 giugno 1972 corre corre, bruciata dal napalm durante la guerra del Vietnam. Si è strappata la vestina che aveva preso fuoco, urla e piange, le braccine spalancate, immortalata dal fotografo Nick Ut che la porterà all’ospedale dove sarà salvata.
I bambini e la guerra. Il dolore e la pietà. La violenza e l’aggressività. La vita appesa a un filo traballante. La gratuità della morte. Le stragi belluine. Le guerre patriottiche e quelle di rapina. I bambini vittime. I bambini soldato. I bambini protagonisti. I bambini testimoni di genocidi e di altri fatti atroci che non dimenticheranno mai, non diversamente dagli adulti. (La guerra, risulta da tanti segni, memorie, diari, è forse il fatto che per tutta la vita non smette di pesare sul cuore dell’uomo) .
Bruno Maida, ricercatore dell’Università di Torino, ha scritto per Einaudi un corposo saggio sui bambini e i conflitti nel mondo: L’infanzia nelle guerre del Novecento , un libro importante e partecipe, fondato su una ricchissima documentazione. Autore di uno studio sulla Shoah dei bambini, Maida articola ora il suo nuovo libro in una serie di capitoli tematici: il rapporto tra infanzia e guerra, la legislazione sui civili diventati i veri attori dei conflitti, la Prima guerra mondiale, il fascismo, il nazismo e lo stalinismo, la Seconda guerra mondiale, i processi di decolonizzazione postnovecenteschi, le eredità delle guerre, i ricordi dei bambini e quelli sui bambini.
Le guerre nascono col mondo e con loro anche i bambini soldato, non sempre costretti, ma affascinati non raramente dalle divise e dalle armi. Il gioco della guerra.
Napoleone creò il Reggimento dei Pupilli della Guardia; nella guerra civile americana avrebbero combattuto centomila ragazzi di età inferiore ai 15 anni. Tra i Mille di Garibaldi risultano un undicenne, due tredicenni, tre quattordicenni e altrettanti quindicenni. Nel Cuore di De Amicis — Il tamburino sardo , La piccola vedetta lombarda — i fanciulli sono ansiosi di prender parte, le armi in pugno, alle guerre risorgimentali.
Nelle guerre del Novecento il numero dei morti è raccapricciante: 100 milioni, di cui 62 milioni di civili, senza contare quasi 100 milioni uccisi in altre stragi. Numerosi i morti bambini e ancor più gli orfani, con la conseguente degenerazione di intere comunità.
Nel 1945 si pensava che dopo la bomba atomica, dopo la Shoah, si sarebbe vissuti serenamente, al riparo dalle bombe. In Europa è accaduto, o quasi — se non si considera il terrorismo — ma si calcola che in quel secolo i conflitti siano stati nel mondo quasi 250. Soltanto negli anni Novanta del Novecento — scrive Maida — sono scoppiate 30-40 guerre. L’80 per cento delle vittime sono civili, moltissimi tra loro i ragazzini: una stima indica che tra il 1985 e il 1995 ne siano stati uccisi circa due milioni.
Fin dalle origini il fascismo è portatore della sua dottrina militaresca anche per gli innocenti pargoli. A sei anni gli scolari indossano la divisa di figlio della Lupa, il fucilino del balilla moschettiere è il gran miraggio. I maestri, che indossano la sahariana nera col pugnaletto alla cintura, predicano la fede nella grandezza imperiale di Roma. Il desiderio di arruolarsi, piccoli soldati, soprattutto al tempo della guerra d’Etiopia, è cocente. Mussolini è il mito vivente: «Giuro di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e se necessario col mio sangue la causa della Rivoluzione fascista», recita l’obbligato giuramento. Poveri bambini, si sa come andrà a finire.
Il nazismo segue la stessa via, ogni bambino deve essere un cittadino-soldato al servizio del Führer, «da prima del suo concepimento». «A scuola — scrive Maida — le lezioni di religione terminavano con il saluto al Führer. (...) I bambini dovevano esclamare all’inizio: “Heil Hitler! Sia lodato Gesù Cristo in eterno, amen”, per concludere con: “Sia lodato Gesù Cristo in eterno, amen. Heil Hitler!”».
In Unione Sovietica le cose non andavano diversamente. I giovani pionieri dovevano essere sempre pronti alla lotta per la classe operaia: giuravano di esser fedeli ai precetti di Lenin, di voler combattere con fermezza per il comunismo. Ordine e disciplina. Libri e moschetti anche qui. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale i pionieri erano 11 milioni. Nella figura del generale Kutuzov che nel 1812 aveva sconfitto le armate di Napoleone, i piccoli russi dovevano intravedere le virtù leggendarie di Stalin.
Furono i nazisti, forse, i bambini che impararono meglio la lezione. Un esempio. Nel 1943 fu creata la 12ª SS Panzer Division Hitlerjugend, 10 mila ragazzi. Combatterono su più fronti, soprattutto in Normandia. «Fanatici e motivati», scrive Maida, «ne sarebbero tornati a casa solo seicento».
Dei sei milioni di ebrei uccisi durante la Seconda guerra mondiale almeno un milione erano bambini. Pochissimi riuscirono a salvarsi nei lager di Treblinka, Sobibór, Belzec, Chelmno. «La condizione dell’infanzia ad Auschwitz è incarnata in Hurbinek, che era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz, dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva nulla di lui, non sapeva parlare e non aveva nome»: lo racconta Primo Levi nel suo La tregua . «Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole».
Poi nella seconda metà del Novecento e nel Duemila affliggono il mondo guerre spesso sconosciute, portatrici di fame, di povertà, di disperazione, di marginalità.
Le fabbriche di armi sono sempre al lavoro. Lo insegna Trump. Ma anche negli anni passati non sono mai mancate le commesse: dal 1997 al 2000 sono state vendute nel mondo armi leggere per 51 miliardi di dollari.
Maida racconta storie di bambini che non hanno mai visto una scuola, come in Colombia; di bambini palestinesi che conoscono soltanto il campo profughi dove sono nati; di bambini che in Rwanda, secondo una ricerca dell’Unicef, sono stati testimoni di assassinii, hanno visto uccidere i famigliari, sono stati minacciati di morte. In Siria, tra il 2011 e il 2013, sono stati uccisi più di 10 mila bambini; in Pakistan, nel 2014, i Talebani hanno ammazzato in una scuola 132 bambini; in Cambogia, tra il 1975 e il 1979, morirono in guerra circa 2 milioni di persone, innumerevoli i bambini, spesso con il kalashnikov al collo. Nella guerra tra Iran e Iraq, negli anni Ottanta del Novecento, persero la vita centomila bambini iraniani, con in tasca il «passaporto per il Paradiso»; in Uganda, secondo un documento del Congresso americano del 2009, oltre 66 mila bambini.
L’Asia, l’Africa, il Sudamerica sono stati i luoghi della geografia della morte. I diamanti in Sierra Leone, il coltan, un minerale prezioso, in Uganda, la cocaina in Colombia sono serviti e servono ad arricchire i capi delle milizie armate e a procurarsi armi.
Quali sono state e quali sono le manchevolezze del Diritto Internazionale, della vecchia Società delle Nazioni, dell’Onu, della Unione Europea?
Scrive Maida: «I bambini con il fucile in mano rappresentano il fallimento degli adulti e della cultura dell’Occidente che produce armi, le vende e ci si arricchisce dopo avere avuto una responsabilità non secondaria nella povertà e nel caos di quei Paesi che vivono in uno stato di guerra perenne» .


Corriere 30.11.17
I fotografi che hanno fatto la storia
di Fabrizio Villa

«Se le fotografie non sono abbastanza buone vuol dire che non ti sei avvicinato abbastanza…». È la frase ormai famosa di Robert Capa, il più celebre dei fotoreporter ma anche il primo a delineare i tratti essenziali di un mestiere i cui principi rimangono inalterati ancora oggi, a dispetto delle innovazioni tecnologiche. Con la complicità della fotocamera il compito è sempre lo stesso: essere nel luogo giusto al momento giusto.
Il nuovo libro di Ezio Costanzo, storico e documentarista, L’istante e la storia. Reportage e documentazione fotografica. Dalle origini alla Magnum (Le Nove Muse Editrice, pp. 206, e 22) — che sarà presentato domani alle 10.30 a Catania, nella sala Phil Stern-Museo dello sbarco in Sicilia 1943 all’interno del complesso Le Ciminiere — ripercorre la storia della fotografia giornalistica e offre un interessante excursus storico del lavoro di molti fotografi che hanno immortalato conflitti locali, guerre mondiali, rivoluzioni, cambiamenti del costume. Facendo questo, Costanzo riesce a dare conto dei mutamenti del mondo intero, delle trasformazioni del mercato dei media senza tralasciare le storie personali degli stessi fotografi. Molti di questi sono pressoché sconosciuti e le loro immagini si sono perse in polverosi archivi. Come l’italiano Stefano Lecchi, nato in un piccolo centro tra Milano e Lecco nel 1804 e morto tra il 1859 e il 1863, probabilmente a Roma. Nel 1849, proprio a Roma, documentò il teatro degli scontri tra i sostenitori della Repubblica e i francesi intenzionati a restaurare il potere temporale dei Papi. Lecchi non documentò direttamente l’azione ma i segni lasciati dalle battaglie. Le sue cinquanta fotografie in carta salata, ritrovate solo alla fine degli Anni 70, sono da considerare i primi scatti in assoluto di un evento bellico in Italia.
Il libro di Costanzo, ricco di dettagli tecnici, è un testo destinato agli addetti ai lavori ma il passo narrativo e gli episodi storici rievocati possono affascinare qualsiasi lettore. L’indagine dell’autore si ferma al 1947, quando proprio Robert Capa, con l’intento di proteggere il diritto d’autore insieme all’etica professionale, fonda la Magnum, che diventerà la più grande agenzia di fotografi .


Repubblica 30.11.17
Vite parallele
Buddha, Dante e il segreto di Francesco
di Silvia Ronchey

Il Papa in Myanmar accosta il santo di Assisi all’Illuminato indiano: un messaggio nel solco degli antichi scambi tra Oriente e Occidente Così si comprendono alcuni versi misteriosi della “Divina Commedia” Francesco e Buddha. Un accostamento logico, per chi si interessa anche solo un po’ di storia delle spiritualità e delle religioni, eppure inusuale, almeno in apparenza, quello tracciato da papa Bergoglio nel suo viaggio in Birmania, davanti al consiglio supremo sangha dei monaci buddisti a Rangoon, tra le parole del Buddha e di san Francesco. Un riferimento a quella che non a caso Bergoglio ha chiamato la “sapienza” francescana, a indicare una volta di più una profonda conoscenza del francescanesimo nel papa che per primo ha scelto il nome di Francesco, unita a un’altrettanto profonda aderenza, nel primo papa gesuita, alla tradizione della Compagnia di Gesù. Come sempre dietro le sue parole solo in apparenza semplici c’è una sofisticata cultura e uno strato molteplice di rimandi e significati destinati ad essere intesi, per dirla coi vangeli, da chi ha orecchie per intendere.
Spesso, e specie di questi tempi, si sono accostati Buddha e Cristo. Un accostamento non solo legato alla crescente diffusione del buddismo in occidente, ma collegato a un sincretismo antico, che dalla predicazione nestoriana e manichea attraverso il culto medievale, bizantino, poi occidentale, di “san Buddha” (Ioasaf, metamorfosi cristiana del bodhisattva venerato nel sinassario costantinopolitano e poi incluso da Baronio e Bellarmino nel Martirologio Romano, al tempo della Controriforma) arriverà a Tolstoj, a Hesse, a Thomas Merton. Non si era invece mai sentito, almeno nella cultura diffusa, né certo dalle labbra di un papa, accostare direttamente Buddha e Francesco. Eppure anche questo è un accostamento antico, che si trova, come la lettera rubata di Poe, sotto gli occhi di tutti. Lo si può scorgere, a guardare bene, nel testo più noto e diffuso della letteratura italiana in particolare e medievale in generale, la Commedia di Dante.
Nell’undicesimo canto del Paradiso, in quello che viene di solito chiamato l’Elogio di Francesco (vv. 43 sgg.), là dove Dante prende a narrarne la storia a partire da una descrizione geografica minuziosa e visionaria, quasi aerea, del luogo di nascita tra la “fertile costa” che digrada verso la valle di Spoleto e verso Perugia e il “grave giogo” montano del Subasio che incombe opprimente (“e di retro le piange”) su Nocera e Gualdo Tadino, due terzine hanno fatto riflettere quanto meno per la stranezza e ricercatezza delle rime che precedono l’affiorare, nella toponomastica umbra, di un nome inaspettato: quello del Gange. Dalla cortina di monti appena evocata (“Di questa costa”), nel punto dove si fa meno ripida (“là dov’ella frange / più sua rattezza”), scrive Dante, “nacque al mondo un sole, /come fa questo tal volta di Gange” (vv. 48-51). L’evocazione improvvisa del fiume indiano, folgorante quanto l’epifania di un nuovo sole, annunciata dai verbi “piange” e “frange”, ha dato da pensare agli studiosi, che l’hanno in genere interpretata, non senza esitazioni, come mera espressione di un punto cardinale: l’oriente, da cui appunto sorge il sole. Non fosse che la parola Oriente ricorre due versi dopo, a identificare il borgo stesso di nascita di Francesco: Assisi, che Dante denomina direttamente “Ascesi”, ma che, aggiunge drastico, è limitativo chiamare con questo nome e non denominare invece tout court Oriente (“Perché chi d’esso loco fa parole / non dica Ascesi, ché direbbe corto, / ma Orïente, se proprio dir vole”).
Possiamo dire che in questa elaborata evocazione del manifestarsi al mondo di un illuminato, che sorge all’umanità come “fa a volte” dal Gange, in un luogo il cui nome già evoca la disciplina ascetica degli antichi monaci orientali, ma che di fatto è di per sé un Oriente, si avverte l’eco della profezia della venuta di quel nuovo Buddha, la cui rinascita è attesa nella letteratura canonica di tutte le scuole buddhiste? La questione è più complessa. Il canto XI del Paradiso è stato costruito da Dante in maniera simmetrica al XII, quello su san Domenico. Il comune riferimento al sole e il ricorrere dell’espressione “tal volta” eliminano ogni dubbio sul fatto che i due passi vadano letti insieme. Ma, facendolo, non si può non concludere che, dei due pilastri della cristianità, uno, Francesco, è considerato da Dante “orientale”. Quanto al Gange, ricorre altre due volte nella Commedia, in due passi del Purgatorio (II, 5 e XXVII, 4).
Paragonando le tre occorrenze, non si può non concludere che per Dante l’origine della particolare illuminazione portata all’umanità dal “sole” Francesco è l’Oriente e che con Francesco ha inizio un nuovo ciclo. Sarebbe quindi certamente troppo dire che l’intenzione di Dante è indicare in Francesco un Maitreya, un “re del mondo” che tramite l’illuminazione completa moltiplicherà i suoi discepoli unendo tutte le scuole. Ma nelle due terzine dell’undicesimo del Paradiso non si può non avvertire almeno un’eco di quella tradizione orientale, almeno una remota conoscenza della dottrina buddista, che non stupirebbe troppo in Dante e si aggiungerebbe alle sue sorprendenti conoscenze della mistica medievale globale.
Una sterminata letteratura è stata dedicata dai dantisti al rapporto di Dante con le tradizioni mistiche orientali: a volte in un filone quasi fantasy come quello del Dante di Guénon, preceduto e seguito da una pletora di altri studi e letture esoteriche della Commedia; a volte in saggi rigorosamente accademici, come ad esempio, in Italia, quelli di Marco Ariani, o in studi particolari sul rapporto tra Commedia, buddismo e induismo. Un’altrettanto sterminata letteratura è stata dedicata dai francescanisti al rapporto privilegiato e intenso dei francescani con l’oriente, vicino ed estremo. Un fenomeno di portata colossale, di cui solo una pallida traccia affiora dai meravigliosi frammenti bizantini della predica di Francesco agli uccelli della Kalenderhane Camii, oggi al Museo Archeologico di Istanbul. Sappiamo che già nel XIII secolo i francescani tornarono dall’oriente con repertori accurati di preghiere buddhiste ed elenchi dei
bodhisattva. Pensiamo a un personaggio come Giovanni da Montecorvino, vissuto a Pechino dal 1294 al 1328, fatto dal papa vescovo di Kh?n B?l?q. I francescani dei primi del Trecento avevano probabilmente più informazioni sul buddismo degli intellettuali di epoche successive. Il punto è cosa fecero di queste informazioni. Certamente la messe di materiali circolò per via orale, nei cenacoli intellettuali italiani ed europei. Ma non innescò alcun orientalismo.
Bisognerà aspettare, per questo, i gesuiti del Seicento.
Ed ecco, il cerchio si chiude.
Che un papa gesuita, devoto di Francesco tanto da prenderne il nome, sette secoli dopo la stesura della Commedia e il circolare in Italia e in Europa di una visione che, se non assimilava direttamente Francesco al Buddha, certamente usava per descriverne la statura mistica categorie e immagini vividamente orientali, decida di avvicinare esplicitamente i due sapienti, di presentarli contigui, è un fatto storico. Chi ha orecchie per intendere, intenda.

Repubblica 30.11.17
La pillola dell’amore
Viagra libero “Niente ricetta siamo inglesi”
La Gran Bretagna vara misure anti truffe sul web E in Italia c’è il rischio di importazioni illegali
I farmacisti dovranno interrogare i clienti e verificare la loro storia medica in un database che è online
di Elena Dusi

ROMA La Gran Bretagna si arrende: arginare lo spaccio di Viagra illegale è troppo difficile. La pillola blu verrà venduta liberamente — senza più bisogno di prescrizione medica — nelle farmacie inglesi dalla primavera del 2018. «Rendere questo farmaco più accessibile aiuterà gli uomini a stare alla larga dai rischi dell’acquisto illegale su internet».
Così l’autorità inglese che regola i farmaci (Medicine and Healthcare products Regulatory Agency o Mhra) ha motivato la sua controversa decisione. Il Viagra infatti non è privo di rischi. In tutto il mondo può essere venduto solo se un medico lo ritiene opportuno. La Pfizer che lo ha inventato (1,3 miliardi di dollari di ricavi all’anno) aveva già chiesto nel 2008 il permesso di venderlo liberamente all’autorità europea per i farmaci (European Medicines Agency o Ema), ma si era scontrata con un parere negativo. L’agenzia si era detta preoccupata per i rischi di abuso, inclusa la moda fra i giovani di assumere Viagra per bilanciare l’effetto anti-erezione di alcol e droghe come anfetamine, marijuana e cocaina. Anche il Cialis, il farmaco rivale del Viagra, aveva cercato invano di ottenere la liberalizzazione.
Poi è venuta la Brexit. L’Ema ha perso la sua autorità sulla Gran Bretagna e la Pfizer ha provato a bussare direttamente alla porta dell’Mhra a Londra. Con successo, questa volta. Il farmaco avrà il nuovo nome di “Viagra Connect”, ma manterrà lo stesso principio attivo. Gli acquirenti dovranno avere 18 anni e non soffrire di malattie di cuore, reni e fegato. I farmacisti avranno l’obbligo di interrogare gli acquirenti e controllare la loro storia medica attraverso un database che in Gran Bretagna è disponibile online. L’Mhra si aspetta che i “clienti” aumentino al ritmo di 50mila all’anno.
In Italia, conferma il presidente dell’Agenzia Italiana del Farmaco Stefano Vella, una misura simile non è all’esame. E resta difficile credere che il nuovo regime britannico non si presti ad abusi.
«L’uso eccessivo del Viagra è pericoloso» conferma Luca Pasina, farmacologo dell’Istituto Mario Negri. «Chi supera le dosi rischia vasodilatazione e abbassamento della pressione, fino alla sincope. Un percorso di liberalizzazione analogo è avvenuto per gli anti-infiammatori. Nessuno può impedire ai pazienti di assumere tutte le dosi che vogliono. E se qualcuno si sente male noi non abbiamo modo di saperlo».
Sull’altro piatto della bilancia ci sono le incognite dell’acquisto online. Negli ultimi 5 anni in Gran Bretagna sono state sequestrate pillole contro l’impotenza per 50 milioni di sterline (56 milioni di euro). In Italia (dati Aifa), il 60% dei 344 milioni di farmaci illegali sequestrati nel 2016 riguardavano la disfunzione erettile. «A volte sono per il consumo individuale, altre volte finiscono nei sexy shop. Dentro può esserci di tutto e anche quando il principio attivo è giusto, il dosaggio può essere sballato» spiega Domenico Di Giorgio, dirigente dell’Area ispezioni e certificazioni dell’Aifa.
«Ci sono prodotti dove il blu del Viagra e il giallo del Cialis sono vernice stradale». Meglio comunque in farmacia che nella giungla di internet, hanno pensato gli inglesi. Ma non è detto che la formula funzioni. «Il traffico sul web è difficile da soffocare» spiega Di Giorgio. «Comprare online è più comodo. E soprattutto non pone problemi di privacy».