martedì 28 novembre 2017

La Stampa 28.11.17
Fratelli d’Italia l’Italia s’ è spenta
Il politologo italoamericano Bob Leonardi ci ricorda i nostri successi nel Dopoguerra, dall’economia alla politica. E incalza: avete smesso di guardare l’orizzonte, ma non c’è ragione di rassegnarsi al declino
di Marcello Sorgi

Capita spesso che studiosi stranieri, storici, sociologi, scienziati della politica, vengano a studiare l’Italia, se ne innamorino, magari comperino una casa per le vacanze in Toscana o sulla Costiera Amalfitana, ma poi al momento di scriverne si lascino catturare dai pregiudizi e la descrivano anche peggio di quel che è. Così è sorprendente che il professor Bob Leonardi - italoamericano formatosi a Berkeley, uno dei maggiori esperti di politiche di coesione tra gli Usa, la London School of Economics e l’università della Confindustria Luiss - abbia scritto un libro, Government and Politics of Italy, Governo e politica italiana, edito da Palgrave High Education (pp. 248), per ricordarci che, pur avendo perso la guerra, almeno per metà del secolo scorso e nei primi anni di quello attuale siamo stati un grande Paese. E non c’è ragione di rassegnarci al declino attuale.
Leonardi, già autore con Robert Putnam, consigliere degli ultimi tre presidenti democratici americani, Carter, Clinton e Obama, e con Raffaella Nanetti del più citato libro accademico di politologia (Making Democracy Work, Costruire la democrazia), ha semplicemente ripercorso, date e dati alla mano, gli anni dal 1946 a oggi, osservando innanzitutto che l’Italia è stata uno dei principali costruttori dell’Unione Europea. Se solo si riflette che Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, confinati a Ventotene, scrivevano il loro Manifesto nel 1942, mentre i tedeschi stavano quasi per vincere la seconda guerra mondiale, ragiona Leonardi, si capisce quanto anticipatore sia stato il pensiero politico italiano che avrebbe poi portato De Gasperi presidente del Consiglio e Sforza ministro degli Esteri a essere partecipi del processo di fondazione della Comunità nei primi Anni Cinquanta e protagonisti - nel 1955 con Martino e la Conferenza di Messina, e nel 1957 con i Trattati di Roma di cui da poco sono stati celebrati i sessant’anni - del passaggio dagli accordi economici al tentativo, ancora oggi incompiuto, di approdare a un’unione politica e a un governo europeo sovranazionale.
Gli anni del boom
Secondo il professore la ragione di questa visione orientata sul largo orizzonte era che «l’Italia è sempre stata stretta agli italiani» e ha subìto l’influenza della Chiesa cattolica, che «diffondeva un messaggio universale in tutto il mondo». Fin dal secolo del Rinascimento, i Medici prestavano i loro soldi al re inglese Enrico VIII (che peraltro non glieli restituì), avevano loro rappresentanti in Germania e aspiravano a dimensionare i loro affari su scala europea.
Nel libro, il boom economico degli Anni Cinquanta e Sessanta diventa un altro campo su cui misurare la volontà degli italiani di risorgere dopo la distruzione della guerra e le capacità della classe dirigente di corrispondere a queste ambizioni e di orientarle. C’è la fase della ricostruzione delle infrastrutture distrutte dai bombardamenti: strade, porti, ferrovie. E c’è quella successiva dell’industria dei beni e dei consumi, quando la lavatrice, il televisore, i termosifoni e l’automobile entrano a far parte del patrimonio della famiglia media italiana, cambiandone il modo di vivere e creando insieme lavoro e mercato in un sistema economico che cresce al 5-6 per cento per più di dieci anni. E quando lo Stato deve cominciare a ritirarsi dalle imprese pubbliche, ecco - grazie ai distretti industriali costruiti dai governi in Lombardia, Veneto, Emilia, Toscana, Marche - la moltiplicazione di imprese private piccole, medie e grandi, che esportano, danno lavoro e producono ricchezza.
La sconfitta del terrorismo
Leonardi sorvola sui disastri della Cassa del Mezzogiorno e della mancata piena unificazione del Sud con il Nord. Ma analizza con grande attenzione la fase - determinata anche dagli scompensi nella distribuzione della ricchezza sul territorio nazionale - che si apre negli Anni Settanta, con l’esplosione quasi simultanea di una criminalità organizzata - mafia, camorra e ’ndrangheta - strutturata a livello nazionale, unica per grandezza a livello europeo, e del terrorismo armato. È un altro titolo di merito dell’Italia, annota lo studioso, essere riuscita sostanzialmente a sconfiggere entrambi i fenomeni senza ricorrere a stravolgimenti dei principi costituzionali e senza aprire guerre civili, come è diversamente avvenuto quasi nello stesso periodo in Germania o in Irlanda.
Prigionieri della crisi
Il prof ricorda l’affermazione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: «L’Italia può sopravvivere alla scomparsa di Moro, ma non potrebbe sopravvivere all’introduzione della tortura». E sottolinea come il Paese sia riuscito a superare anche gli assassinii di personaggi centrali del sistema, come Piersanti Mattarella (1980) e Pio La Torre (1983) costruendo una rete di collaborazioni internazionali negli apparati di sicurezza che alla lunga sono servite a distruggere i vertici delle cosche e a individuare i responsabili della fase più sanguinosa dello scontro, le stragi mafiose del 1992 e ’93.
Inoltre, alla crisi del sistema politico maturata negli stessi anni, l’Italia è riuscita a reagire con una sorta di autoriforma che, seppure imperfetta, ha funzionato, introducendo il bipolarismo e la piena legittimazione di tutte le forze politiche al governo, facendo sparire dalla scena o trasformando partiti superati dalla storia come i comunisti e i fascisti, e spingendo anche forze collocate su versanti opposti del Parlamento a collaborare nei momenti di difficoltà.
Perché allora adesso l’Italia guarda a sé stessa come se fosse incapace di superare la nuova crisi, e rischiasse davvero di finire sottomessa all’ondata populista che minaccia tutta l’Europa? Semplicemente, spiega l’autore con tipico distacco anglosassone, «perché ha smesso di guardare l’orizzonte e cominciato a guardarsi l’ombelico. Invece di pensare ad allargare la torta per tutti, come faceva nel dopoguerra, cerca di mantenere la fetta assai più piccola che le è rimasta. Invece di risolvere i nuovi conflitti interni, ne rimane prigioniera. Invece di usare bene i fondi europei, li adopera per pagare gli interessi del debito pubblico. Un debito troppo grande, che presto le presenterà il conto».