La Stampa 1.11.17
Ismail Kadaré
“La rivoluzione ha perso per eccesso di crudeltà”
“Già nel concetto marxiano di lotta di classe era insita la mancanza di misericordia. Alla fine l’uomo si ribella”
intervista di Francesca Paci
Quando
negli Anni 60 il dittatore Hoxha distanziava l’Urss in dissenso con la
destalinizzazione, Ismail Kadaré aveva già dirottato l’ardore dei suoi
vent’anni sulla letteratura e si accingeva a pubblicare Il generale
dell’armata morta, il romanzo della vita. «Il comunismo ha ucciso la
speranza ma non l’umanità e l’umanità produrrà una speranza più
profonda» scandisce ordinando Greco di Tufo e un’insalata senza avocado
perché la moglie Helen non ne mangia. Nonostante il sole appena velato
su Tirana, il grande poeta e scrittore albanese più volte vicino al
Nobel arriva con l’ombrello al ristorante Juvenilja Castello, il suo
preferito.
Che tipo di eredità ci ha lasciato la Rivoluzione d’ottobre?
«L’aspetto
più problematico è la visione dell’uomo. Il fondamento della civiltà
occidentale è il verdetto degli Dei che condannano i greci a pagare
amaramente per il massacro dei troiani e la mancanza di misericordia
verso gli sconfitti. L’antichità greca ruota tutta sulla messa al bando
di questa ferocia viscerale. Marx fonda invece la sua dottrina economica
e sociale sul principio opposto, l’idea che non ci debba essere pietà
per i vinti. La teoria della lotta di classe è il nodo, il comunismo è
stato abbattuto perché l’umanità non poteva accettare tutta quella
crudeltà».
Dall’Albania isolata di Hoxha coglieva le crepe che si aprivano nella cortina di ferro?
«Il
comunismo si è sgretolato gradualmente, Stalin, Budapest, Praga, il mio
Paese. Ci ho creduto anche io finché, crescendo, ne ho constatato la
ferocia spirituale. C’è un episodio che mi torna in mente. Era il 1948 e
avevo 12 anni. Enver Hoxha veniva per la prima volta nella mia città,
Argirocastro, e gli studenti furono mandati in strada per dargli il
benvenuto. A me e agli amici con cui parlavo liberamente non piacque,
aveva la pancia grossa e non somigliava a Macbeth e Amleto, gli eroi che
immaginavamo magri. Non ci piacque neppure che rideva e diceva sempre
“evviva il popolo” mentre il popolo ripeteva “evviva Hoxha”. Non
sapevamo nulla del sistema ma sentivamo che c’era del falso in tutta
quella fanfara e quando lo raccontai a casa mio padre disse “finalmente
avete capito”. Allora seppi che alla maggioranza degli adulti intorno a
me Hoxha non piaceva, aveva una casa semplice rispetto alle altre e
sembrava odiare le famiglie benestanti della città. Un architetto mi
raccontò poi che nel ’60 era stato incaricato di rifare l’abitazione di
Hoxha a Argirocastro e aveva avuto l’ordine di progettarla fastosa».
In
Europa ci si chiede se non sia stato prematuro l’allargamento a quei
Paesi dell’Est che, forse non ancora pronti alla democrazia liberale,
esprimono oggi governi autoritari. L’Albania è pronta a lasciarsi alle
spalle il comunismo ed entrare nella Ue?
«L’Albania deve fare
grandi sforzi per andare verso la democrazia liberale. La tendenza c’è,
il popolo vuole esplicitamente l’Europa, il campo occidentale, tutto
quello che fino a ieri era considerato reazionario. Gli albanesi sono
stufi della retorica contro la Nato, l’imperialismo, il capitalismo. Sul
momento il nostro cammino verso l’Europa, che è finora quanto di meglio
l’umanità potesse fare, può essere frenato dal nostro retaggio
culturale. Ma andiamo avanti».
La chiusura ermetica di Hoxha,
ossessionato dall’invasione occidentale, ha finito per proteggere
l’Albania dalle derive nostalgiche degli altri Paesi ex sovietici?
«Per
un verso il divorzio dell’Albania dalla famiglia comunista è stato un
atto positivo, l’ha allontanata dalla parte perdente. Ma il fatto che
ciò avvenisse per una ragione personale e non di principio ha
determinato la sostanza e l’epilogo del dramma: Hoxha voleva restare al
potere con l’aiuto dell’Europa e l’Europa ha finto un po’ di
assecondarlo. A pagare è stato il popolo».
Il risveglio religioso,
segnatamente islamico, a cui oltre che nei Balcani si assiste in
Albania, è una reazione all’ateismo di Stato imposto dal regime?
«Il
problema esiste ed è una delle conseguenze della caduta della grande
dittatura comunista. Ma non penso che la turbolenza dei Balcani sia una
cosa davvero pericolosa. In Albania poi, il comunismo non ha mai davvero
attecchito, è stato recepito in modo freddo perché la morale
tradizionale era diversa, la psiche nazionale non l’ha accettato, non
era il nostro modo di essere: la famiglia tradizionale qui è sempre
stata più importante del collettivismo».
Nel romanzo «Un invito a
cena di troppo» racconta l’eccezione albanese nei confronti degli ebrei,
risparmiati dalle deportazioni. L’antisemitismo è rimasto lontano
dall’Albania anche dopo il 1945?
«Andò così durante la II guerra
mondiale e la propaganda comunista non contrastò mai questa narrativa
perché compensava il resto: l’Albania aveva una pessima fama nel mondo
ma almeno non eravamo antisemiti. Ed è vero. Anche un reazionario come
re Zog non era antisemita. E neppure Hoxha, che aveva il cuore di
pietra. Stare con gli ebrei per noi è una cosa popolare».