domenica 19 novembre 2017

La Stampa 19.11.17
Presunti abusi e rapporti omosessuali
Riaperto il caso sui chierichetti del Papa
di Domenico Agasso Jr.

Il Vaticano, preso atto dei «nuovi elementi», riapre l’indagine sui presunti abusi tra «i chierichetti del Papa». La vicenda vede coinvolto un ex alunno del Preseminario San Pio X - dove studiano i ragazzi che servono messa al pontefice - con sede nel «Palazzo San Carlo», a pochi metri da Casa Santa Marta, residenza di Bergoglio. Il seminarista accusato di molestie sessuali è poi diventato prete. Lo scandalo è scoppiato dopo le recenti inchieste del libro di Gianluigi Nuzzi, «Peccato originale» (Chiarelettere), e delle Iene. Così ieri la Santa Sede, in una nota, ha spiegato che, a seguito di alcune segnalazioni, «a partire dal 2013 furono compiute delle indagini». Le avevano condotte i «superiori del preseminario», ma anche «il vescovo di Como», perché «la comunità degli educatori» del Collegio, l’Opera Don Giovanni Folci, appartiene alla sua diocesi. I vescovi in realtà sono due: l’attuale, monsignor Oscar Cantoni, e il predecessore Diego Coletti (già rettore di seminario).
I fatti denunciati «avrebbero coinvolto alunni coetanei tra loro, alcuni dei quali non più presenti nell’Istituto al momento degli accertamenti». Questi episodi «non trovarono adeguata conferma». Ma, «in considerazione di nuovi elementi recentemente emersi, è in corso una nuova indagine che faccia piena luce su quanto realmente accaduto». Un recente filone di indagini condotto dalle autorità vaticane avrebbe confermato che negli ultimi anni si sono verificati rapporti gay tra i ragazzi ospiti.
Decisiva in questa fase la testimonianza del polacco Kamil Tseusz Jarzembowski, ex studente del Preseminario, che ha scritto in uno degli esposti riportati da Nuzzi di essere «stato testimone di atti sessuali che Antonio esigeva da Paolo (nomi di fantasia, ndr)». Kamil racconta che «la crescente angoscia di fronte al ripetersi degli avvenimenti ricordati, unita alla paura di essere allontanato, mi indussero a confidare il mio sconcerto al mio direttore spirituale, che riferì gli avvenimenti in questione al vescovo responsabile e ai superiori gerarchici». Ma questa comunicazione «cadde nel vuoto». Il polacco dice anche che «di fronte all’indifferenza delle persone che ritenevo doveroso interpellare secondo una procedura legittima, decisi di rivolgermi direttamente alla Santa Sede, in particolare alla segreteria di Stato e alla Congregazione per la dottrina della fede». Nel caso dell’ex Sant’Uffizio, il mancato intervento si spiega con la specifica competenza su sacerdoti e religiosi, mentre in questo caso i presunti abusi o atti omosessuali sarebbero avvenuti tra seminaristi minorenni.

Corriere 19.11.17
Il Vaticano sul Collegio dei chierichetti «Ci furono rapporti omosessuali»
La nuova indagine ribalta le conclusioni precedenti. Ancora non si parla di abusi
di Fabrizio Caccia

ROMA Un ragazzo italiano, ormai maggiorenne, ha già annunciato via sms la sua volontà di presentare formale denuncia per gli abusi sessuali subìti tra il 2013 e il 2014 nel Preseminario «San Pio X», il collegio di palazzo San Carlo, dentro le mura leonine, dove alloggiano i cosiddetti «chierichetti» del Papa.
Un altro ex alunno, a distanza di anni, non riesce ancora a superare lo choc, si sente sporco e «continua a farsi fino a 15 docce al giorno», racconta il giornalista Gianluigi Nuzzi che nel suo ultimo libro, Peccato originale , ha sollevato per primo il caso. Poi c’è stata l’intervista de Le Iene, il programma di Italia 1, una decina di giorni fa, a un’altra presunta vittima di abusi compiuti in quegli anni dentro il preseminario. Abusi a opera di un ragazzo poco più grande di lui che è appena stato ordinato sacerdote a Como. Ma tra i presunti «orchi», secondo Nuzzi, ci sarebbe pure un monsignore. Così, ecco che il Vaticano adesso ha avviato un’indagine interna, da cui sono emersi «nuovi elementi»: lo ha ammesso ieri la Santa Sede.
I primi risultati di questa nuova inchiesta ribalterebbero le conclusioni di precedenti accertamenti svolti. Gli inquirenti della Santa Sede, dopo aver esaminato un centinaio di casi, avrebbero verificato la consumazione di rapporti omosessuali, avvenuti in quegli anni all’interno del Preseminario, «che avrebbero coinvolto alcuni coetanei tra loro». Non si parla, ancora, ufficialmente di abusi né di pedofilia. Ma il Papa ha già chiesto di poter vedere il dossier quando l’indagine sarà terminata.
«È un primo passo», commenta Nuzzi, che venerdì sera ha portato ospite nella sua trasmissione Quarto grado su Rete 4 il supertestimone di quest’inchiesta, il giovane polacco Kamil Tadeusz Jarzembowski, oggi maggiorenne, che ha già messo per iscritto le sue accuse in una lettera consegnata a Bergoglio .
Il Preseminario è una scuola media di prestigio, un collegio per giovanissimi avviati sulla strada ecclesiastica. E Kamil, ex allievo anche lui, oggi studente d’arte all’università, ha raccontato a Francesco di essere «stato testimone nella mia stanza di atti sessuali che G. esigeva da P., atti che si compivano nonostante la mia presenza e che si svolgevano sempre di sera, intorno alle 23 ». I casi di abuso, secondo il ragazzo polacco, sarebbero almeno tre. Ma lo stesso Nuzzi sta lavorando su altre due testimonianze. «Per ora — conclude il giornalista di Rete 4 — è stata aperta un’inchiesta canonica. Ma l’auspicio è che se ne apra un’altra penale per far luce, non con un semplice fiammifero ma con un grosso faro, su una vicenda tristissima e grave».

Repubblica 19.11.17
Pisapia e Pd, coalizione più vicina Al lavoro su una lista con Bonino
L’ex sindaco vede Fassino: “Percorso comune”. E chiede un garante dell’intesa Mdp resta fuori e oggi riunisce l’assemblea nazionale: verso il partito con Si e Civati
di Carmelo Lopapa

ROMA. Il Partito democratico aggancia Giuliano Pisapia. «Ma sia Romano Prodi il garante della coalizione che verrà», è la condizione posta dal leader di Centro progressista. Il Professore ci sta, a patto di non essere trascinato nella contesa elettorale, e prima di volare negli Usa vede Renzi.
Non è ancora la chiusura di un patto, ma il faccia a faccia tra Piero Fassino e l’ex sindaco di Milano consente loro di compiere un passo avanti, suggellato dal documento finale. L’ipotesi che si fa più probabile a questo punto è che una lista guidata da Pisapia e che coinvolga i radicali Emma Bonino e Riccardo Magi, il fondatore di Forza Europa Benedetto Della Vedova e i Verdi, si presenti al proporzionale: in asse col Pd. La stessa cosa sta cercando di fare con un’altra lista al centro Pier Ferdinando Casini. Poi, i candidati nei collegi uninominali saranno scelti d’intesa coi dem. Il segretario Matteo Renzi in serata si mostra più ottimista, nella sua enews e promette: «La coalizione di centrosinistra alla quale stiamo lavorando dovrà garantire eguale dignità a tutti i componenti. Penso di poter dire che avrà presenze significative sia alla nostra sinistra che al centro».
All’incontro Fassino-Pisapia di Milano partecipano tra gli altri il vicesegretario pd Maurizio Martina, Luigi Manconi e Bruno Tabacci. Il comunicato conclusivo conferma che si è trattato dell’avvio di «un percorso politico e programmatico per una nuova stagione del centrosinistra». Proseguirà nei prossimi giorni affrontando punti concreti, a cominciare dalle eventuali modifiche alla legge di bilancio. Obiettivo comune, scrivono Fassino e Pisapia, «contrastare il rischio di derive di destra e populiste».
Il fondatore di Campo progressista non fa mistero di aver rivendicato la presenza di un garante sul percorso comune e quel garante deve essere Prodi. «L’ho sentito e mi ha detto di andare avanti nel tentativo di unire il centrosinistra», rivela l’ex sindaco partecipando poi nel pomeriggio al lancio della candidatura di Giorgio Gori alla Regione Lombardia. Il Professore (in partenza oggi per gli Stati Uniti) con ruolo da supervisore, ma non in prima linea, dunque. Da una nota del suo staff in serata arriva la conferma che tra gli interlocutori di questi giorni c’è stato anche il segretario dem. «Non vi sarà nessuna lista intestata a Romano Prodi o all’Ulivo - precisa il comunicato - La preoccupazione è allargare e tenere insieme un campo largo di centrosinistra. Questa è stata la prospettiva e il senso degli incontri svolti con Fassino, Pisapia e con altri interlocutori. In questo contesto, prima di partire, il Presidente ha avuto un lungo e cordiale colloquio con Matteo Renzi». I bersaniani di Mdp restano distanti, oggi in assemblea in vista del lancio (il 2 dicembre) della lista comune con Si e Possibile. Vano anche l’ultimo appello rivolto loro da Pisapia. I radicali Bonino e Magi, con Della Vedova coinvolti invece nel progetto col Pd, scrivono al premier Gentiloni invocando un decreto legge che dimezzi il numero delle firme necessarie per le candidature.

Il Sole 19.11.17
Centrosinistra. L’ex sindaco di Milano: «Cambio di rotta già dalla legge di bilancio» - Sul tavolo superticket, lotta alla precarietà, Cigs e ius soli
Pisapia apre al Pd: dialogo avviato
Lunga telefonata Renzi-Prodi - Verso l’alleanza a tre: centristi, Pd e lista Campo progressista-Bonino
di Emilia Patta

ROMA La mission impossible di Piero Fassino nelle vesti di inviato del Pd al dialogo con la sinistra sembra aver raggiunto il suo scopo: portare dentro l’alleanza con il Pd Giuliano Pisapia e il suo Campo progressista isolando i bersaniani di Mdp. L’incontro di ieri a Milano tra Fassino e Pisapia, preceduto da una telefonata di incoraggiamento di Romano Prodi ad «andare avanti per l’unità del centrosinistra», è stato infatti positivo. «Abbiamo avviato un percorso politico e programmatico per una nuova stagione del centrosinistra», è scritto in un comunicato congiunto. E la fine del percorso vedrà un’alleanza a tre - con tanto di programma comune - nei collegi uninominali previsti da Rosatellum: il Pd, una lista centrista a cui stanno lavorando Pier Ferdinando Casini (della trattativa con i cattolici si è incaricato in questi giorni il coordinatore del Pd Lorenzo Guerini), Beatrice Lorenzin e Lorenzo Dellai e infine la lista in cui confluirà Campo progressista assieme ai Radicali di Emma Bonino e agli ambientalisti. Una lista, quest’ultima, che si propone come una vera e propria seconda gamba.
All’incontro, avvenuto a Milano dove nel pomeriggio si è tenuta la kermesse per il lancio della comune candidatura di Giorgio Gori alla presidenza della Lombardia, erano presenti anche il vicesegretario del Pd e ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina e il leader di Centro democratico Bruno Tabacci. Molti i temi sul tavolo, a cominciare da quelli programmatici: si è discusso della possibilità di inserire già in questa legge di bilancio alcune misure concordate, a cominciare dall’abolizione dei superticket della sanità (misura alla quale Pisapia tiene moltissimo e che è già oggetto di alcuni emendamenti alla manovra) e dall’allungamento di un anno della cassa integrazione per tutte le aziende. C’è poi il tema della lotta alla precarietà del lavoro di cui scriviamo in pagina, come ha avuto modo di ricordare in queste ore lo stesso Prodi («il lavoro a tempo deve costare di più»). Sarà un ulteriore incontro, mercoledì a Roma, a definire meglio le misure. Dividendo quelle che possono già entrare in legge di bilancio («siamo consapevoli dei limiti di bilancio concordati con Bruxelles e dei margini esigui», dice Tabacci) da quelle che finiranno nel programma comune della coalizione. C’è infine l’ampio capitolo dei diritti, a cominciare dalla riforma della cittadinanza (ius soli) sulla quale dovrebbe essere messa la fiducia in Senato ai primi di dicembre. Politicamente ieri è stato sgombrato il campo da una questione fin qui molto divisiva e spinosa, quella della premiership. Fassino e Pisapia hanno concordato sul fatto che, a fronte della nuova legge elettorale prevalentemente proporzionale, non ha senso scegliere con primarie o con accordo politico il candidato premier della coalizione prima del voto. La scelta, a seconda dei risultati delle elezioni, sarà fatta insieme dopo il voto. Con quella «pari dignità» di cui ha parlato ieri lo stesso Matteo Renzi. Per Campo progressista, tuttavia, alla fine del percorso dovrà essere indicato un «garante» della coalizione. E il nome da tutti evocato è quello di Prodi, che al momento sembra volersi tenere in disparte, pontiere ma non protagonista. La questione del «garante» non è di quelle che entusiasmano Renzi. Ma da Largo del Nazareno le porte sono spalancate per il fondatore dell’Ulivo. «Prodi in campo aiuta il centrosinistra - è il ragionamento dei dem - e se vorrà assumere un ruolo più attivo il Pd è con lui». D’altra parte, la sua funzione di facilitatore, è stata ribadita dallo stesso Prodi venerdì mattina in «un lungo e cordiale colloquio con Renzi», durante il quale - fanno filtrare i suoi - ha escluso liste uliviste e ribadito di voler lavorare per «tenere insieme un campo largo di centrosinistra». Nodi politici a parte, la soddisfazione di Renzi e dei dirigenti del Pd è evidente. «Grande soddisfazione per il lavoro di Fassino ma anche di Guerini e Martina per creare una coalizione di centrosinistra forte in grado di competere in tutti i collegi uninominali in Italia», commenta Renzi. In grado di competere ma anche di attrarre, è il ragionamento che si fa sia in casa Pd sia tra i pisapiani: Laura Boldrini e Pietro Grasso vorranno davvero seguire Mdp in una ridotta estrema o daranno una mano al centrosinistra come chiede Prodi?

Repubblica 19.11.17
Casini: “Appello ai moderati per un’alleanza con i dem anche Alfano venga con noi”
t. ci.

ROMA. L’hanno descritto come il regista della quarta gamba centrista di una coalizione di centrosinistra. Un’impresa contro vento, quella di Pier Ferdinando Casini, ora che il centrodestra vola. «Sarei uno stupido se non ammettessi che l’aria è chiaramente per il centrodestra. Ma è proprio adesso che serve responsabilità ».
Partiamo dalle premesse di questa scelta di campo.
«Veniamo da una legislatura in cui i governi Letta, Renzi e Gentiloni sono stati in piedi grazie alla cooperazione dell’area moderata».
Ora si vota. E lei pensa a un partitino centrista con il Pd.
«Una premessa: ho avuto tante soddisfazioni, per me sarebbe facile dire grazie e arrivederci. Ma non possiamo lasciare l’Italia nelle mani di Grillo o Salvini».
E quindi pensa alla gamba centrista.
«Senta, la “coalizione coriandoli”, quella dove c’è il Pd e poi tanti coriandoli attorno, è destinata a fare la fine dell’alleanza in Sicilia. Perderemmo rovinosamente, perché la gente capisce quando un progetto non ha credibilità ».
E quindi che fare?
«Il Pd deve dismettere la presunzione di autosufficienza e il suo strabismo e puntare davvero su questa coalizione. Guardare a sinistra, ma anche alla sua destra. E l’area moderata, che sembra voler tornare sui propri passi virando a destra, deve mobilitarsi. O facciamo così, o la vedo male non per il Pd, ma per l’Italia».
Non è dura portare nel centrosinistra chi è nato altrove?
«Lo so che ci sono molti amici che fanno fatica, perché per una vita non sono mai stati con la sinistra. Ma non possiamo sottrarci. Avete visto cosa combina gente senza esperienza? Cosa genera il dilettantismo a Roma? E qualcuno si prende la briga di spiegare alla gente poi che l’attuale ministro dell’Interno in due anni ha fatto più di Maroni in dieci…».
Resta il fatto che l’Italia sembra andare verso il centrodestra. Come se lo spiega?
«Berlusconi, con il massimo dell’intelligenza politica che gli va riconosciuta, si propone come la barriera contro il grillismo e per questo chiede ai moderati di stare con lui. Poi però fa l’alleanza con Salvini e Meloni, che sono l’altra faccia del grillismo. Questa è una cosa che non sta in piedi. Il vero rischio dei moderati è ritrovarsi Grillo e Salvini che insieme prendono il 51% dei voti».
Il suo progetto centrista prevede anche la presenza di Ap e di Alfano? Molti dei suoi guardano a Berlusconi.
«Gli attacchi che Renzi gli ha rivolto nei mesi scorsi sono stati ingenerosi. Ma fossi oggi nei suoi panni, eviterei la tentazione di tornare nel centrodestra. E pure quella di una corsa solitaria, sarebbe davvero inspiegabile dopo anni al governo insieme. Comunque siamo amici e lo rispetto profondamente ».
Toccherà a Renzi tenere assieme l’alleanza. Che consiglio vuole dargli?
«Evito, perché lui ascolta tutti e poi fa come gli pare... Ha costruito la sua politica sull’idea che non servivano alleanze, oggi deve costruirne una. Per lui il vento è contrario, ma resta un cavallo di razza: può cadere, ma si rialza. L’importante è non inseguire il grillismo. Quando stai tre anni a Palazzo Chigi, la gente ti percepisce come il potere. Non puoi più fare il rottamatore».

Repubblica 19.11.17
Anche Franceschini chiama il presidente del Senato per chiedergli di non correre contro i dem
E lui: “Non farò una Cosa rossa”
Prodi incontra Renzi e fa pressing su Grasso L’obiettivo finale è il ritorno di Bersani
di Tommaso Ciriaco

ROMA. La svolta sta tutta nell’assillo che è tornato a tormentarlo da qualche giorno. «Non vorrei vedere il centrosinistra naufragare - confida Romano Prodi -Vorrei evitare che finisca così». Adesso il Professore è di nuovo in campo. Sonda, riservatamente. Ascolta e propone. Incontra Matteo Renzi. Gioca di sponda con Piero Fassino, spingendosi alla soglia di Mdp, là dove finora nessuno era riuscito ad arrivare. E telefona, tanto. Soltanto nelle ultime quarantotto ore, a Giuliano Pisapia e Piero Grasso. Tutto, improvvisamente, si rimette in movimento.
L’operazione, almeno in questa fase, è prevalentemente “sotto copertura”. Troppe volte l’ex premier ha chiesto unità e ragionevolezza. Troppe volte è rimasto deluso, spesso proprio da chi ha il massimo delle responsabilità: Renzi. Però proprio durante il faccia a faccia con il segretario dem qualcosa di positivo accade. E infatti il fondatore dell’Ulivo dà il via alla fase due contattando Grasso, il potenziale leader della galassia di sinistra.
A dire il vero la paternità della prima mossa appartiene a Dario Franceschini. È venerdì quando il ministro dei Beni culturali contatta la seconda carica dello Stato. Vuole sondarne gli umori, capire, proporre un disarmo. Preparare, soprattutto, il terreno all’operazione prodiana. Ne riceve risposte formali, riferiscono, ma anche una generica promessa che si può tradurre così: «Non farò il capo di una minoritaria ridotta di sinistra, né guiderò una Cosa rossa». La vera novità, però, si consuma nella telefonata tra Prodi e Grasso. Il contatto, è evidente, segna un salto di livello nella trattativa. Ed è l’indizio più forte di un pressing in corso, dall’esito per nulla scontato.
Tutto è naturalmente appeso a un filo, come le intenzioni del presidente del Senato. Ma è chiaro che il “movimentismo” discreto del Professore rende assai più complicato per Mdp far saltare i ponti della trattativa. E rappresenta la premessa della mossa successiva. Nessuno lo ammette apertamente, ma la verità è che l’altro bersaglio dell’incursione di Prodi nel campo degli scissionisti ex dem è Pierluigi Bersani. Tra i due il rapporto, nonostante tutto, resta ragionevole. Per questo, la tappa finale della fase due dovrà essere proprio un incontro tra il Professore e l’ex segretario dem.
Per adesso, comunque, l’imperativo è muoversi con discrezione. Anzi sott’acqua, perché i veleni della scissione hanno reso impraticabile il terreno di gioco. Allo scoperto escono invece alcuni prodiani storici. Franco Monaco teorizza apertamente una lista ulivista. Giulio Santagata - assieme a Pisapia e Bruno Tabacci - raduna oggi a Bologna una “coalizione di volenterosi” che non si arrende alla divisione. Arturo Parisi ha ammorbidito le sue posizioni. Fuori dal campo prodiano, poi, un ruolo decisivo lo gioca Fassino, col suo impegno quasi ossessivo per smuovere le acque stagnanti del centrosinistra. «Dopo l’incontro con Pisapia - assicura - siamo di fronte a un passo decisivo per la coalizione ». Durante la riunione si era spinto anche oltre: «Ci siamo, nei contenuti e anche nella richiesta del “garante”. Ora ho bisogno di parlare con Renzi, ma sono ottimista, vedrete...».
L’ex sindaco di Milano è l’altro tassello decisivo del puzzle. Dopo aver quasi abbandonato la speranza di ripartire con il Pd, ed aver valutato seriamente la possibilità di ritirarsi per lasciare i suoi alle sirene di Mdp, adesso sorride alle novità. Certo, faccia a faccia con Fassino alza l’asticella, chiede un tavolo su cui definire l’accordo programmatico, invita a scegliere il Professore come garante del riavvicinamento. «Restano alcuni ostacoli - giura a sera Massimigliano Smeriglio di Campo progressista - e sarà decisivo il ruolo di Prodi ». Ma è chiaro che a quelle latitudini una nuova fase si è già aperta.
Renzi osserva, cauto. Non è certo lo scenario che aveva in mente soltanto qualche mese fa, ma fa di necessità virtù. La “tregua” proposta da Paolo Gentiloni sul fronte sindacale smorza almeno in parte il braccio di ferro con la Cgil e toglie qualche argomento all’ala sinistra. Il resto sta tutto nella coalizione larga di cui ha bisogno: «La scelta di Fassino si è rivelata utile. Il 30% in tutti i collegi è a portata di mano». Il leader di Rignano non crede ovviamente all’intesa con Massimo D’Alema, ma pensa che il fronte sinistro alleato del Pd sarà comunque più affollato del previsto. Per questo, cavalca l’impegno prodiano. E aspetta che Walter Veltroni, l’altro padre nobile che si è rimesso in movimento, porti buoni frutti alla causa.
Restano alcuni nodi, ovviamente. Uno, emerso con prepotenza nelle ultime ore, riguarda i veti incrociati tra potenziali alleati. E in particolare quelli che da Campo progressista sono diretti contro Angelino Alfano. Per mediare, è toccato a Lorenzo Guerini telefonare al ministro degli Esteri. A lui ha ripetuto il senso delle parole pronunciate due giorni fa ai colleghi dem alla Camera: «Ma scusate, manca poco che Berlusconi si allei con CasaPound e noi ci incasiniamo con i veti su Angelino?».

Repubblica 19.11.17
Un partito democratico e aperto per fermare i populismi
di Eugenio Scalfari

IL SOCIALISMO democratico è in decadenza in tutta Europa e in tutto il mondo occidentale, compresi l’Inghilterra, gli Stati Uniti e le due Americhe del Centro e del Sud. Resta da capire il perché, ma occorre anche comprendere che cos’è la democrazia socialista.
Quando trionfò in quasi tutto il mondo il comunismo bolscevico, il socialismo di fatto aveva cessato di esistere. Quel poco che ancora sopravviveva era una sorta di piccola appendice del comunismo bolscevico. Parlando della situazione italiana fu tipico, da questo punto di vista, il partito d’Azione con il suo slogan “Giustizia e Libertà”.
La decadenza attuale ha varie cause. La più importante è quella che identifica i liberali con il capitalismo, che usa la libertà ma assai poco la giustizia.
Una motivazione altrettanto importante è l’ondata di immigrazione che proviene soprattutto dall’Africa e ha l’Europa come principale meta da raggiungere.
La terza infine è la pessima distribuzione della ricchezza e per conseguenza l’aumento della diseguaglianza economica e sociale. Quest’ultima in teoria dovrebbe favorire la crescita nei ceti più deboli ma ha invece generato un fenomeno relativamente nuovo cui gli studiosi di scienze sociali hanno dato il nome di populismo: il popolo è una massa che si ribella a tutto ma al tempo stesso ha bisogno di un capo che la guidi.
QUINDI la situazione è un’anarchia con tendenze dittatoriali che rischiano in tempo breve di trasformarsi in una vera e propria dittatura.
Anche le dittature possono avere forme diverse l’una dall’altra. Nell’America del Sud e in particolare in Argentina ci fu la dittatura peronista: Peron le dette un ampio impulso a sfondo sociale e dopo la sua morte la vedova lo portò avanti con ancora maggior vigore.
Nel Centro America trionfò dopo lunghe battaglie la dittatura comunista di Fidel Castro a Cuba e il castrismo, declinato in varie forme e movimenti, oltre che a Cuba si diffuse in gran parte dell’America del Sud, dall’Uruguay al Cile al Venezuela e alla Colombia. Questo è il quadro generale del populismo.
Se vogliamo approfondire la situazione italiana, anche da noi nacque il populismo che risale al fascismo di Benito Mussolini. All’inizio della sua carriera politica era un socialista rivoluzionario, poi divenne guerrafondaio e incitò dal suo giornale Il Popolo d’Italia all’intervento italiano nella prima guerra mondiale dove avemmo come nemici tradizionali l’Austria e la Germania. Alla fine di quella guerra, gli ex combattenti che erano centinaia di migliaia fondarono un’associazione per rivendicare un particolare riguardo economico: molti avevano subito profonde ferite la cui guarigione era stata tuttavia parziale. Il sostegno economico doveva essere rivolto ai mutilati in particolare e a tutti gli ex combattenti in generale. Mussolini si appoggiò molto agli ex combattenti e spronò il popolo a sostenerli e ad aderire al fascismo che per l’appunto aveva fatto di loro la sua base principale. I Fasci, fondati nel 1919, erano decisamente anticomunisti e proprio per questa ragione furono anche finanziati dal capitalismo delle grandi imprese a cominciare dalla Fiat e non soltanto: anche dalle associazioni degli Agrari particolarmente forti nell’Italia adriatica. Mussolini metteva soprattutto in rilievo gli interessi dei reduci e dei Fasci di combattimento, che volevano la Repubblica. Si allearono invece con i nazionalisti che misero come condizione il mantenimento della monarchia. Tutto ciò venne fuori al congresso a Napoli del Partito fascista nel 1922. È inutile ricordare cosa avvenne dopo: la marcia su Roma, la conquista dell’Etiopia e dell’Albania, il Re imperatore e Mussolini il Duce.
La domanda da farsi è: come mai quando cadde il fascismo tutti gli italiani si proclamarono antifascisti? Era il populismo che aveva sostenuto prima il fascismo e poi quando cadde in massa lo sconfessò.
E adesso siamo ancora populisti? E come e con chi? *** L’Italia d’oggi è affetta da un populismo dilagante ma di nature profondamente differenti. C’è un populismo motivato dall’immigrazione che ispira soprattutto la Lega di Salvini. Il populismo di Berlusconi riflette invece il fascino con il quale lui ha incantato una notevole quantità di persone. In che modo? La politica di Berlusconi somiglia molto al gioco delle tre carte che attrae e raduna molta gente; il capo del banco a volte fa vincere qualcuno della folla che si addensa attorno al suo tavolo ma il vero risultato è che intasca tutto lui. Non parlo qui di denaro, parlo di seguito elettorale. Lui è un attore e autore contemporaneamente, non ama la dittatura: ama vincere come tutti i giocatori.
I grillini (non sopportano di venire chiamati così ma questo è il nome con cui sono nati e tale rimane) sono i populisti per eccellenza: raccolgono gran parte di quelli che odiano non solo i politici ma la politica, non fanno alleanze con nessuno, i loro obiettivi sono la distruzione di tutti gli altri partiti o quanto meno la loro sonora sconfitta elettorale. Se andranno al governo dopo aver realizzato l’obiettivo numero uno, che è appunto la messa in mora della forma partito, decideranno (lo dicono sin d’ora) di corrispondere un aiuto economico a tutti i cittadini dei ceti popolari più bassi e medio-bassi imponendo un’imposta patrimoniale sui ceti molto ricchi, con la quale finanziare l’aiuto agli altri.
Ci sono poi coloro che si astengono dal voto. L’astensione definita naturale è quella che riguarda le persone anziane o indisposte o quelle già maggiorenni ma ancora troppo giovani per essere interessate alla politica. In termini numerici l’astensione naturale è valutata al 20 per cento del corpo elettorale ma noi siamo al 40-45 per cento il che significa che il 20-25 per cento è un’astensione a sfondo populista: cittadini che forse militavano in un partito che poi li ha delusi. Non avendo un altro partito che li attraesse si sono rifugiati nell’astensione o nel grillismo. I due flussi si equivalgono come intendimento, solo che gli astenuti furono delusi da un partito che amavano e la storia del costume ci insegna che chi è deluso da un amore assai difficilmente ci ritorna. E Renzi? *** Il Pd non è populista, qualche passo sulla buona strada l’ha effettuato: Renzi ha escluso ogni abiura del suo passato di leader, ma nel futuro che comincia da subito e diventa quindi anche presente è disposto ed anzi desideroso di aprire il Partito ai dissidenti usciti dal partito. È desideroso che rientrino ed ha proposto che, una volta rientrati, si apra con loro una discussione sui temi di maggiore attualità sociale ed economica ed essi, anche se relativamente pochi di numero, avranno un peso particolare nelle decisioni da prendere. Carta bianca da scrivere insieme: questa è la proposta. Ed ha incaricato Piero Fassino — uomo di particolare impegno e autorevolezza — di consultare uno per uno i dissidenti che hanno a loro volta formato piccoli gruppi politici avversari del Pd, nel quale avevano lungamente militato ma che con il suo arrivo, a loro avviso, era diventato politicamente invivibile.
Fassino ha cominciato con l’incontrare i presidenti delle due Camere e Grasso in particolare, il quale sta per essere eletto Capo dei dissidenti. Poi Fassino ha proseguito nel suo giro e ormai ha incontrato quasi tutti ma i soli che hanno in qualche modo aperto alla discussione sono Pisapia ed i suoi seguaci. Almeno per ora c’è una chiusura netta da parte di tutti gli altri. Pisapia a sua volta ha posto una condizione che, almeno a quanto abbiamo capito, consiste nella creazione da parte del Pd di una nuova carica il cui nome potrebbe essere quello di moderatore, o almeno qualche cosa di simile. Il compito del moderatore sarebbe quello di presiedere le discussioni tra Renzi da un lato e gli ex dissidenti rientrati nel partito dall’altro. Il moderatore sarebbe dunque una figura di notevole importanza, necessaria secondo Pisapia per guidare la discussione, nella quale Renzi è una parte in causa e che quindi non può presiedere. Sono stati anche formulati i nomi dei possibili moderatori: Veltroni, Prodi, o addirittura Gentiloni con l’autorità che gli deriva dall’essere presidente del Consiglio di un governo in gran parte formato con ministri provenienti dal Pd. Resta da vedere se Renzi accetterà. La proposta di Pisapia, a nostro avviso, è decisamente accettabile e non intacca affatto la carica di segretario del partito cui Renzi fu eletto con le Primarie.
Debbo fare un’ultima osservazione che ritorna su quanto già scrissi domenica scorsa. Riguarda la permanenza dei presidenti del Senato e della Camera indicati anche come i nuovi leader dei gruppi della sinistra dissidente.
Il parere che ho espresso domenica scorsa è che le due cariche parlamentari sono incompatibili con la guida di movimenti politici molto combattivi nei confronti del partito di provenienza.
Questo mio parere è stato in parte preso in considerazione da Luciano Violante, il quale è un costituzionalista e un politico di grande esperienza. In un’intervista su Repubblica Violante ha detto che se quanto sta avvenendo si fosse verificato a metà legislatura, Grasso e Boldrini avrebbero certamente dovuto dimettersi, ma poiché è avvenuto a legislatura pressoché terminata, la loro posizione è accettabile.
Mi fa piacere che Violante abbia previsto la necessità di dimissioni se ci trovassimo a metà legislatura, ma a differenza di quello che lui sostiene, il finale legislatura avverrà tra sei mesi e forse anche tra sette, e le dimissioni sono ancora più necessarie. Gli ultimi sei mesi saranno di piena campagna elettorale e quindi l’incompatibilità tra le due cariche diventerà ancora maggiore. Mi auguro che queste dimissioni ci siano, in realtà avrebbero dovuto già averle date. Se le daranno avranno le felicitazioni di molte e molte persone alle quali mi permetterò di aggiungere anche le mie.

Corriere 19.11.17
«Dal governo niente. Sciopero? Solo il Parlamento può evitarlo»
Camusso: «Non è la Cgil ma il premier a favorire il voto per Salvini»
di Enrico Marro

ROMA La Cgil boccia anche le ultime proposte del premier, Paolo Gentiloni. Ma il sindacato tornerà dal governo martedì. Perché?
«Perché — risponde la segretaria della Cgil, Susanna Camusso — il governo non ha risposto alle richieste di chiarimento sulle risorse che impegnerebbe sulle sue proposte».
Non si tratta di 300 milioni di euro per evitare a un lavoratore su dieci di subire l’aumento di 5 mesi dei requisiti per la pensione?
«I 300 milioni in realtà sarebbero nell’arco di 10 anni e, secondo i nostri calcoli, la platea interessata non supererebbe il 2% dei lavoratori. Proposte che non rispettano gli impegni che il governo stesso ha preso nel settembre 2016. Non c’è niente per i giovani e per le donne con lavori di cura».
L’impressione è che la Cgil non faccia più in tempo a fermare la mobilitazione. Si parla già di una manifestazione nazionale per il 2 dicembre. È così?
«Decideremo dopo l’incontro di martedì. Il governo sta perdendo la grande occasione di dare le risposte attese dai lavoratori, giovani e donne».
Si arriverà allo sciopero generale?
«La segreteria della Cgil ha ricevuto dal Direttivo un mandato che non esclude nulla. Gradueremo le iniziative sulla base delle risposte del governo e in parallelo alla discussione parlamentare».
Cosa manca nelle proposte di Gentiloni?
«La pensione garanzia per i giovani. Il principio di equità sul contributivo: oggi se hai una buona carriera puoi andare in pensione tre anni prima, perché maturi un assegno superiore a 2,8 volte il minimo; se invece sei un lavoratore discontinuo o di categorie povere, devi inseguire l’aspettativa di vita fino a 70 anni».
Meglio rinviare a giugno la decisione sullo scatto di 5 mesi?
«Sì, ci sarebbe il tempo per definire un sistema più equo».
Il rinvio darebbe un pessimo segnale ai mercati, dice il governo.
«Un’ottima ragione perché fosse il governo stesso a dare le risposte che non ha dato».
Gentiloni offre per 15 categorie di lavori gravosi l’esclusione dall’aumento dei 5 mesi anche per la pensione anticipata e la disponibilità a prorogare l’Ape sociale nel 2019. Non è poco.
«Cinque mesi che non scattano sulla pensione anticipata interessano poco queste categorie di lavori gravosi, dove è quasi impossibile raggiungere 42 anni e 10 mesi di contributi. Resta allora la pensione di vecchiaia: ma se per esentarli dallo scatto a 67 anni fissi il requisito di 30 anni di contributi invece dei normali 20 anni, riduci la platea ai minimi termini. Quanto all’Ape, non c’è la proroga ma la disponibilità a costituire un fondo con eventuali risparmi dal sistema previdenziale per coprire un’eventuale futura decisione».
Il sindacato è diviso. La segretaria della Cisl, Annamaria Furlan, dice che dovreste rivendicare come vostre conquiste le concessioni del governo e non lasciare campo al Parlamento perché sarebbe una sconfitta per il sindacato. Non ha ragione?
«Dipende da quello che decide il Parlamento. Quanto al sindacato, che credibilità ha se dà un giudizio positivo su un documento del governo che è la negazione di impegni presi? Noi siamo andati dai lavoratori a spiegare che ci sarebbe stata una fase 2 e dobbiamo essere coerenti».
Non avete fatto grandi proteste quando fu varata la riforma Fornero e ora scendete in piazza davanti a un governo che la ammorbidisce?
«Le proteste ci furono. Oggi sono considerate insufficienti, ma bisognerebbe ricordarsi del clima che c’era nel 2011. La contraddizione presente è appunto questa: quella tra un governo che racconta che è ripartita la crescita, ma non è capace di dare risposte ai lavoratori e ai pensionati che hanno fatto i sacrifici maggiori».
Secondo lei, la riforma Fornero va smontata? E per sostituirla con cosa?
«La nostra proposta prevede una fascia flessibile di pensionamento fra 62 e 70 anni a scelta del lavoratore. Bisogna inoltre ricalibrare il meccanismo di adeguamento alla speranza di vita che cresce indefinitamente solo da noi. In Germania si andrà in pensione a 67 anni ma nel 2030 e senza ulteriori aumenti».
Che cosa risponde a Gentiloni, secondo il quale l’intransigenza della Cgil spiana la strada alla Lega di Salvini?
«Che se non dà risposte positive alle richieste della maggioranza del Paese, è lui che indirizza il voto in altre direzioni».
La Cgil avrebbe problemi se le risposte che vuole arrivassero in Parlamento col voto di Salvini e dei 5 Stelle?
«A noi interessa il merito. Per il resto non dimentico che fu la Lega a introdurre con Maroni l’aggancio all’aspettativa di vita. Ora Salvini ha cambiato idea? Ne prendo atto».
Segretario, il prezzo della tutela di chi sta per andare in pensione non lo pagherebbero ancora i giovani?
«Si continua a insistere su questa presunta contrapposizione quando è un fatto che le riforme non hanno dato un posto di lavoro ai giovani. Quanto al debito pubblico, non è aumentato per via della spesa previdenziale, che sta scendendo dopo tutti i tagli. Bisognerebbe smettere di far credere ai giovani che il problema sono le pensioni invece che l’evasione fiscale, la corruzione, la mancanza di investimenti, la formazione, la diseguaglianza. Qui non stiamo discutendo di pensionati, ma di gente che non ce la fa più e il governo vuole tenere al lavoro fino a 67 anni».

Il Fatto 19.11.17
Poliziotti ai seggi e tanta indifferenza Ostia torna al voto
Oggi il ballottaggio per il presidente del X municipio romano tra M5S e FdI: decisivi gli elettori di Pd, Sinistra e CasaPound
Poliziotti ai seggi e tanta indifferenza Ostia torna al voto
di Andrea Managò

Sono trascorsi più di quattro anni da quando nell’estate del 2013 il Municipio X di Roma, quello del litorale di Ostia, ha scelto il suo ultimo presidente. Poi è passato un mondo, quello di mezzo, con l’inchiesta Mafia Capitale che ha squarciato il velo di omertà sulle attività illecite della criminalità organizzata sul lungomare romano e sulle sue connessioni con la politica. Prima l’ex presidente, il pd Andrea Tassone si è dimesso, poi il Viminale ha sciolto l’ente per infiltrazioni mafiose infine è arrivato il commissario, il prefetto Domenico Vulpiani, in carica per oltre due anni. Oggi a Ostia e nei quartieri dell’entroterra – 231 mila residenti in tutto – si torna a votare col ballottaggio tra Giuliana Di Pillo dei 5Stelle e Monica Picca di Fratelli d’Italia, sostenuta da tutta la coalizione di centrodestra. La candidata pentastellata appare lievemente in vantaggio nei pronostici della vigilia, ma l’affluenza si annuncia attorno al 30% e allora tutto può accadere. In fondo, dopo il primo turno, le due sfidanti erano divise appena da 2.300 voti e alle urne potrebbero andare solo 60 mila persone. C’è un vento di destra, che al primo turno ha premiato CasaPound con quasi 6 mila voti, ma anche una parte della società civile che prova ad opporsi. Nei seggi ci saranno agenti in borghese per vigilare che non si verifichino intimidazioni da parte dei clan. Difficile il recupero degli astenuti, l’ago della bilancia probabilmente saranno i voti di coloro che al primo turno hanno scelto schieramenti fuori dai giochi al ballottaggio.
La giornata che precede il voto sul litorale scivola via come un sabato qualunque: gente in strada per lo struscio pomeridiano o nei caffè. Sarà la concomitanza col derby Roma-Lazio o forse la disaffezione verso la politica. Perché in campagna elettorale, complice il gesto di Roberto Spada con la sua testata a un cronista che gli chiedeva del suo sostegno per l’estrema destra di CasaPound, i singoli problemi del territorio sono finiti in secondo piano. Certo, c’è l’emergenza legalità al primo posto: Di Pillo promette più Polizia locale se venisse eletta e di dislocarne una parte sulle spiagge in estate, Picca invece annuncia un assessore dedicato e la richiesta di maggiori uomini delle forze dell’ordine. Ma a Ostia e nei quartieri dell’entroterra, grandi in alcuni casi come piccole città di provincia, manca anche tanto altro, a partire da trasporti di qualità. Senza dimenticare mali antichi del territorio come l’abusivismo edilizio e il dissesto idrogeologico. O il tessuto produttivo che, oltre all’economia spesso infiltrata dalla malavita o con concessioni tutte da rivedere degli stabilimenti balneari, non offre molto altro.
Per andare e venire dal litorale romano ci sono due strade di grande scorrimento, la via del Mare/via Ostiense e la Cristoforo Colombo, quotidianamente congestionate, oppure la ferrovia Roma-Lido, che necessita di un restyling integrale del tracciato. Due anni fa il governo di Matteo Renzi promise fondi ad hoc ma finora non si è visto nulla. Ora la sindaca Virginia Raggi prova a rilanciare il vecchio progetto di arrivare navigando via Tevere, ma anche qui servirebbero investimenti importanti. Una volta finita la campagna elettorale, dossier importanti attendono sviluppi in Campidoglio: dal concordato di Atac allo stadio della As Roma passando per il bilancio di previsione e la gestione del patrimonio immobiliare. Scelte chiamate a caratterizzare l’intero secondo anno del mandato della Raggi.

La Stampa19.11.17
Tra degrado e impunità
Il “lungomuro” di Ostia dove muore il mare di Roma
Una scia criminale va dalla Magliana agli Spada e gli stabilimenti balneari fanno scudo alla spiaggia
di Mattia Feltri

Tira proprio una bella aria. Ostia, stabilimento Orsa Maggiore, nove del mattino. Poche decine di metri più a nord arriva e si conclude la Cristoforo Colombo.
La conoscete tutti: è la strada dei film. Aldo Fabrizi in coda per andare al mare, Vittorio Gassman che fa le corna al vecchio nel Sorpasso. Qui non è un granché, di là della strada ci sono palazzine bruttarelle di due piani, la vegetazione è anarchica. Eppure l’Orsa Maggiore è molto frequentato, ogni tanto arrivano starlette, si organizzano feste in spiaggia. Pochi anni fa se lo presero in società Ferdinando Colloca, che era il capo di Casapound, un maresciallo della Marina militare e il genero di Armando Spada dell’ormai letterario clan Spada, il cui ultimo campione ha fracassato il naso a Daniele Piervincenzi della Rai. Poi sono stati tutti condannati, insieme col direttore dell’ufficio tecnico del municipio, Aldo Papalini, per dire il garbo e l’ossequio alla legge con cui misero le mani sull’Orsa Maggiore.
Oggi c’è il sole ma è pur sempre novembre, e sulla Colombo non c’è traffico. Doveva chiamarsi la Via dell’Impero, nei progetti di Benito Mussolini, che volle fare di Ostia il mare di Roma. Verso nord, sul lungomare, si vedono i primi edifici liberty, elegantissimi, alcuni sbrecciati, altri abbandonati con le finestre aperte e il cartello vendesi scolorito. Appartenevano ai ricchi villeggianti d’inizio Novecento, una fila di gioiellini, e poi la fila dietro, a dare la prima idea di impianto ortogonale della città, le vie larghe che si intersecano perpendicolari. Prima di arrivare lì, ci si ferma allo stabilimento Le Dune. Una volta si chiamava Tibidabo. Anche qui non è una meraviglia. Ostia poteva esserla, una meraviglia, e non lo è. Qui ci sono centri commerciali in cemento e vetro, condomini anni Sessanta o Settanta color mattone, uno via l’altro, che intristiscono e si insudiciano più si va nell’entroterra. Alle Dune venivano quelli della Banda della Magliana, quelli veri, il Dandi e il Freddo nella versione delle fiction. Il titolare è Renato Papagni, da secoli capo dei balneari di Ostia e da secoli dentro informative della polizia, ma alla lunga candido come il lino, non fosse per un abuso edilizio: il ristorante dovrebbe essere di sessanta metri ed è di quattrocento.
Fra il liberty è poi spuntato il razionalismo del Ventennio, miracolosamente rispettoso di proporzioni e spazi. La Colonia marina Vittorio Emanuele III, ingigantita dal Duce, è il segno che il mare di Roma era popolare. Su Youtube ci sono i filmati dei bambini che trascorrevano l’estate fra bagni e coreografie militaresche e saluti romani. Davanti c’è proprio l’ufficio tecnico dove fu intercettato il direttore (sempre Papalini) che parlava con Armando Spada. Gli Spada si sono spartiti Ostia con i Fasciani e coi Triassi (ormai declinanti), e Armando diceva ora ci devi dare il chiosco di quelli che abbiamo ammazzato noi. Proprio una bella aria. Sarà che dal mare non ne arriva: la particolarità del lungomare è che non si vede il mare. Quasi mai. Lo chiamano lungomuro. Per chilometri le cancellate, le cabine, i bar e i ristoranti fanno barriera, niente vista, se non si paga non si va in spiaggia. Quando era presidente di circoscrizione, anni Novanta, Angelo Bonelli (oggi leader dei Verdi) scoprì che i titolari degli stabilimenti dovevano dieci miliardi di lire al Comune e, siccome si mise in testa di recuperarli, una sera sul pontile, di fronte a piazza Anco Marzio, il cuore più antico della città, fu fermato da due che si facevano chiamare Bafficchio e er Sorcanera e che gli diedero un coppino, roba da film, «che te la sei presa? Sei il solito cazzaro. Lo sai che ti vogliamo bene». Non li aveva mai visti. Basicchio e er Sorcanera finirono poi ammazzati. E a Bonelli gli hanno bruciato la casa alle tre di notte con venti litri di benzina. Quando gli hanno posato all’uscio una scatola con un fegato e un cuore («il prossimo sarà il tuo», diceva il biglietto) ha deciso di andarsene, al culmine di trent’anni di battaglie.
Rimane invece Federica Angeli, cronista della Repubblica, minacciata di morte e scortata. Potrebbe raccontare quale boss si è incontrato con quale politico in ognuno degli stabilimenti di Ostia. Qui c’è stato anche un incontro fra i balneari e i vertici nazionali del Movimento cinque stelle: «Sono il meglio che c’è a Ostia», dissero. Proprio il meglio. All’estremo nord, poco prima dell’Idroscalo dove morì Pier Paolo Pasolini, c’è il porto. Il presidente fino a l’altroieri era Mauro Balini, titolare dei bagni Plinius e Hakuna Matata, il Kursaal è di sua cugina. La gestione del parcheggio del porto è stata a lungo affidata a uno conosciuto come l’Iracheno, reduce di secondo piano della Banda della Magliana. L’anno scorso a Balini è stato sequestrato tutto: misura preventiva secondo il codice antimafia. Fra le altre cose, Balini si occupava del mantenimento della moglie di Roberto Giordani, detto Cappottone, che gambizzò uno dei Triassi, precisamente Vito, e poi è finito in prigione.
Questo è soltanto il lungomare, un breve, sommario viaggio. Ci si potrebbe addentrare, andare dove Federica Angeli ha assistito a una sparatoria fra gli Spada e i Triassi. Andare dove Paolo Frau, guardaspalle di Danilo Abbrucciati, sempre Banda della Magliana, fu ucciso con due colpi di pistola in testa. Andare nei negozi taglieggiati. Dove si fanno scommesse clandestine. Nei quartieri del racket della case popolari. Ma non serve: si entra in città, in un reticolo orripilante di palazzi ossessivi, scrostati, spazzatura ovunque, stendini sui marciapiedi, in un delirio urbanistico che ha tradito il destino di Ostia, e tanto basta. Doveva essere il mare di Roma, è diventato un sobborgo così brutto che genera soltanto il brutto.

Il Fatto 19.11.17
Renzi riporta Pisapia a casa, Prodi vuole rompergli il Pd
Ulivi - Il professore torna a fare il mediatore per mettere all’angolo il segretario e fare un’alleanza con Mdp. Giuliano cambia di nuovo idea
di Wanda Marra

Prima di partire per gli Stati Uniti, il presidente ha avuto un lungo e cordiale colloquio con Matteo Renzi”. A sera, Romano Prodi ci tiene a rendere nota una telefonata con il segretario del Pd. L’intento è quello di dettare le sue condizioni per la coalizione, come dice una nota del suo ufficio stampa: “Non vi sarà nessuna lista intestata a Romano Prodi o all’Ulivo. La preoccupazione del Presidente Prodi è allargare e tenere insieme un campo largo di centro sinistra”. Quindi, nessun Pd forte con tante liste satelliti, che era l’operazione alla quale Renzi stava lavorando. Il Professore lavora per una lista forte che vada da Bonino a Pisapia. E anche per convincere Mdp a rientrare. A quel punto, il segretario sarebbe all’angolo.
Dopo una giornata lunga e confusa, l’uscita del Professore sembra soprattutto chiarire un punto: se la coalizione si fa è perché lui è in campo. In questa prospettiva, si capisce l’inedita determinazione di Giuliano Pisapia, che alla fine sceglie Renzi.
Ieri l’ex sindaco di Milano, accompagnato da Luigi Manconi aveva incontrato Piero Fassino, presente Maurizio Martina. Dopo mesi e mesi di tentennamenti, passi avanti e passi indietro, Pisapia sembra aver deciso. Nonostante si vada verso una coalizione con dentro anche Angelino Alfano. Una coabitazione che l’ex sindaco di Milano aveva sempre definito impossibile. Più delle parole, contano i segni. Prima di tutto, il “comunicato congiunto” che Pisapia e Fassino diramano alla fine dell’incontro. I due raccontano di aver “avviato un percorso politico e programmatico per una nuova stagione del centrosinistra”. E che “l’incontro è stato positivo”. Poi, le parole che servono soprattutto al leader di Campo progressista per rivendicare il risultato e nello stesso tempo poter continuare a tenere le mani avanti: “Il confronto proseguirà nei prossimi giorni con approfondimenti rigorosi e costruttivi, già a partire dall’iter parlamentare della legge di bilancio”.
Durante il colloquio, Pisapia ha ribadito la richiesta di “discontinuità”. Ma che vuol dire? Ha chiesto un impegno per approvare ius soli e biotestamento, oltre alla correzione della legge di bilancio in un’ottica più di sinistra. Cosa ha ottenuto? Da Fassino, sono arrivate rassicurazioni sulla “volontà politica” di andare incontro a queste richieste. Cosa vuol dire, è meno chiaro. L’intenzione è quella di provare ad andare fino in fondo sulla cittadinanza ai figli degli immigrati. Il governo metterà la fiducia, non è chiaro se ci sono i numeri. Molto meno deciso sarà il tentativo sul biotestamento: con la fiducia, M5s non lo vota e i numeri non ci sono; senza, i cattolici faranno ostruzionismo. Dal Pd si sarebbero avute anche rassicurazioni sull’introduzione del superticket e su alcune correzioni al Jobs act. In particolare, sul tema della sicurezza (esistono degli emendamenti alla legge di bilancio firmati da Titti De Salvo).
Il tema Angelino Alfano ieri, durante il colloquio, non è stato affrontato. Ma Pisapia si è spinto ugualmente in avanti. Alla convention di Giorgio Gori, candidato Pd alla Regione Lombardia, intervenendo dal palco, si gioca la carta Prodi: “Stamattina (ieri, ndr) mi ha chiamato il Professore per dirmi di andare avanti nel tentativo di unire il centrosinistra”. Mentre Furfaro dichiara: “Non possono esserci pezzi di destra nella coalizione di centrosinistra”. A quel punto, la giornata si complica. Alfano, temendo di essere scaricato telefonava a Lorenzo Guerini, il quale si affretta a dire che sta trattando con il centro e mantiene i contatti con il ministro degli Esteri. La lista di centro ci sarà. Campo progressista s’innervosisce. Ma è Prodi che aleggia nell’aria. Renzi ritarda una E-news già annunciata per le 19. Lui più che una coalizione stava mettendo in piedi un’operazione con una serie di liste satelliti. Verdi, Radicali, Idv, Democrazia solidale, centristi. “Cosa diamo in cambio a Pisapia? Il poco che si merita. Gli daremo qualche collegio”, commenta un renziano sprezzante. Quelli garantiti dovrebbero essere lo stesso Pisapia, Furfaro, Ciccio Ferrara e Bruno Tabacci, che dall’inizio ha spinto per l’accordo. Mentre Laura Boldrini pende più verso Mdp e Pietro Grasso. La “coalizione del far finta di niente”, la chiama il leader di Possibile, Pippo Civati. Ma la “benedizione” di Prodi (che venerdì ha parlato a lungo pure con Andrea Orlando) potrebbe cambiare il corso delle cose. Tanto è vero che la E News, quando arriva alle 21 e 10, non fa alcun cenno all’incontro con il Professore. Ma Renzi implicitamente accetta le condizioni del Professore: “La coalizione di centrosinistra alla quale stiamo lavorando – con il generoso contributo di tutti – dovrà garantire eguale dignità a tutti i componenti”

Repubblica 19.11.17
Argentina.
Ufficiale di marina, con lei nel sommergibile disperso nell’Atlantico altri 43 uomini. Sette Paesi insieme per le ricerche
Eliana, prima donna dell’Armada in trappola a 300 metri sotto il mare
di Daniele Mastrogiacomo

IL SIMBOLO della tragedia che sta vivendo in queste ore l’Argentina è una donna di 34 anni. Si chiama Eliana María Krawczyk. È un ingegnere ed è l’unico ufficiale al femminile, la prima di tutto il Sudamerica, tra l’equipaggio di 44 marinai presenti a bordo del San Juan, il sottomarino della classe ARA scomparso dalla sera del 15 novembre nelle acque meridionali dell’Atlantico. Una bella foto postata sul suo account di Facebook la immortala mentre posa sorridente sotto la torretta di comando, i capelli biondi raccolti sotto il basco blu dell’Armada, con in mano la bandiera bianca-azzurra della sua Argentina.
Eliana non è un semplice marinaio. È un alto ufficiale. È responsabile delle operazioni a bordo, dei sistemi missilistici e degli attracchi. Ha sempre amato navigare. Quando studiava ingegneria vide una pubblicità della Marina militare che selezionava i nuovi aspiranti. Decise di tentare la strada della Scuola navale. Ma fu nel 2008, durante una visita a Mar del Plata dove avevano appena attraccato i primi tre sottomarini della flotta argentina, che decise quale sarebbe stato il suo futuro.
Era la prima donna che rompeva la tradizione tutta maschile del Corpo più conservatore delle Forze Armate. Fino al 2012 sarebbe stata l’unica dell’intero Continente sudamericano.
Attorno a Eliana e i suoi 43 compagni si stringe in queste ore tutta l’Argentina. Le notizie non sono incoraggianti. Il San Juan è un sommergibile fabbricato in Germania, con una propulsione elettrica alimentata da 960 batterie. Per questo i tecnici della Marina argentina sono convinti che il silenzio radio che si protrae da tre giorni sia dovuto ad un guasto tecnico. Ma la voci e le tesi che stanno riempiendo la rete suggeriscono scenari diversi. Come un incendio, forse il peggior incidente che può capitare ad un sottomarino mentre naviga a 300 metri di profondità: con le fiamme a bordo, senza più energia elettrica e motori.
L’ultimo contatto radio risale a giovedì notte. In quel momento il sommergibile si trovava a 420 miglia al largo di Puerto Madryn, all’altezza della provincia di Chubut, in Patagonia. Aveva lasciato il porto di Ushaia, nell’estremo sud dell’Argentina. Nelle ultime 48 ore, unità aeree e navali hanno perlustrato l’80 per cento del tratto di mare dove si presume possa trovarsi l’unità. Inutilmente. Il ministro della Difesa, Oscar Aguad, ha interrotto il suo viaggio in Canada ed è rientrato subito alla base di Mar del Plata. Stessa cosa ha fatto il presidente Mauricio Macri.
È una corsa contro il tempo. Sette Paesi hanno offerto il loro aiuto: Usa, Brasile, Cile, Perù, Uruguay, Sudafrica e persino Gran Bretagna. Una solidarietà inaspettata. L’Argentina non ha ancora dimenticato la tragica e per molti versi assurda guerra per le Falkland-Malvinas del 1982. Solo dopo centinaia di morti l’ex giunta militare guidata dal generale Gualtieri dovette rassegnarsi alla sconfitta. Trentacinque anni dopo la Royal Navy, con un aereo ricognitore, prova a ricucire una ferita ancora aperta.

il manifesto 19.11.17
L’identità nuova con un microchip
Neurotecnologie. A che punto è la ricerca sull'interfaccia «cervello-computer». Un tempo, le onde cerebrali riguardavano solo psichiatri e neurologi, oggi fanno gola a molti e si concentrano su di loro diversi interessi, non ultimi quelli commerciali
di Andrea Capocci

Salito sull’automobile, Rodrigo Mendes non trovò né i pedali né il volante. L’auto iniziò a muoversi e imboccò la strada. Rodrigo non aveva mai guidato in vita sua, ma la macchina seguì gli ordini che lui impartiva col pensiero. Non è l’incipit di romanzo di fantascienza sudamericano, ma la fedele cronaca dell’impresa del quarantatreenne Rodrigo Mendes, paraplegico da quando, nel 1992, prese una pallottola alla nuca durante il furto di un’auto a San Paolo del Brasile. Mendes, che oggi dirige un istituto dedicato alla riabilitazione e all’inserimento sociale delle persone con disabilità di vario tipo, nello scorso aprile ha guidato un’auto da corsa grazie a una speciale apparecchiatura in grado di «leggere» le onde cerebrali e tradurle in istruzioni eseguite da altre macchine, come «gira a destra», «rallenta» o «accelera».
TECNOLOGIE DI QUESTO TIPO si chiamano «interfacce cervello-computer» o «neurotecnologie» e sono uscite ormai dalla fase sperimentale, diventando prodotti commerciali disponibili sul mercato. È un’ottima notizia per chi soffre di malattie che limitano le facoltà motorie. Ma le stesse tecnologie sono destinate anche ad altri usi. L’agenzia statunitense dedicata alla ricerca in campo militare, discute da tempo della possibilità di fornire ai propri soldati un’armatura di sensori e microchip in grado di integrare le naturali facoltà umane con flussi di dati addizionali e intelligenza artificiale.
Nel mezzo, le neurotecnologie si prestano a un’infinità di applicazioni commerciali, apparentemente più banali di una malattia paralizzante o di un conflitto ma non meno invasive. Per trecento euro, si può già acquistare online un paio di cuffie che trasforma le onde cerebrali in comandi diretti ad altri dispositivi. Sui «big data» dell’attività cerebrale, che un tempo interessavano solo neurologi e psichiatri, oggi si concentrano molti interessi diversi. Conoscere il livello di attenzione durante la fruizione di particolari contenuti (un video, una canzone, un videogioco) renderebbe felice qualunque pubblicitario, ad esempio.
Inoltre, sta crescendo la capacità degli scienziati di influenzare l’attività cerebrale, oltre che di registrarla e analizzarla. Attraverso la genetica, i neuroscienziati sono già riusciti a indurre nei topi ricordi artificiali, riferiti a esperienze che l’animale non ha mai vissuto. In questo modo, è possibile influenzarne il comportamento agendo sui singoli neuroni. L’applicazione di queste tecnologie sull’uomo è ancora lontana, ma il settore delle neurotecnologie attira già grandi investimenti economici, soprattutto negli Usa. A livello federale, la Brain Initiative (un programma decennale di ricerche neuroscientifiche lanciato dall’amministrazione Obama) ha già investito 500 milioni di euro per lo sviluppo delle neurotecnologie.
NON MANCANO POI gli investimenti privati, a caccia un mercato che potrebbe raggiungere i dodici miliardi di dollari nel 2020 per i soli dispositivi secondo il sito Neurotech Reports. Nell’ultima «F8», la conferenza annuale dedicata ai progetti innovativi di Facebook, molto si è parlato di intelligenza artificiale, realtà aumentata e dell’intenzione dell’azienda di permettere ai suoi utenti di comunicare trasmettendosi messaggi direttamente da cervello a cervello, senza il fastidioso tramite di tastiere, smartphone e videocamere (per non parlare della farraginosa usanza di incontrarsi di persona).
Non poteva mancare il contributo di Elon Musk (fondatore di Tesla, PayPal, SpaceX e altre imprese che producono più brevetti che utili) che ha aggiunto alla sua collezione di startup la Neuralink, dedicata alla cura di neuropatologie e all’«espansione dell’intelligenza». Gli investimenti privati in ricerca e sviluppo nel settore sono stimati attualmente intorno ai 100 milioni l’anno, in forte crescita.
GLI STESSI RICERCATORI si rendono conto della delicatezza del tema, sebbene le neurotecnologie muovano solo i primi passi. Lo dimostra un documento stilato da 27 esperti attivi a vario titolo nel campo e pubblicato nel numero di metà novembre della rivista Nature con il titolo «Four ethical priorities for neurotechnologies and AI» (Quattro priorità etiche per le neurotecnologie e l’intelligenza artificiale). Il gruppo, battezzato «The Morningside Group», è composto da neuroscienziati, informatici, medici da quattro continenti, di estrazione accademica ma anche industriale, come dimostra la firma di Blaise Aguera y Arcas, direttore della divisione Intelligenza artificiale di Google. A coordinare la collaborazione, il biologo Rafael Yuste della Columbia University (New York) e la filosofa Sara Goering dell’università di Seattle.
I firmatari propongono che anche per le neurotecnologie sia la comunità scientifica ad auto-limitarsi, stabilendo quali sono le direzioni che ricerche e innovazioni dovranno evitare. La stessa cosa è avvenuta negli ultimi mesi in altri campi bioeticamente sensibili, come l’intelligenza artificiale o le modifiche genetiche.
LA PRIMA AREA su cui intervenire riguarda la privacy degli utenti delle neurotecnologie: andrà garantito loro il diritto di controllare l’uso dei loro dati. I ricercatori consigliano di affidarsi a algoritmi di verifica generalizzati difficilmente manipolabili, come quelli che regolano il mercato delle criptovalute come il Bitcoin e che ora interessano anche banche centrali e governi.
Un altro aspetto delicato riguarda l’identità individuale: le neurotecnologie possono modificare sia la percezione soggettiva che quella oggettiva della propria identità. Ad esempio, i pazienti che si sottopongono alla stimolazione cerebrale profonda (l’invio di deboli segnali elettrici per mezzo di elettrodi posti nel cervello, una tecnica utilizzata nella cura della depressione) faticano a riconoscere come propri i comportamenti assunti dopo la terapia. Se l’individuo, grazie al pensiero, può effettuare azioni anche in luoghi distanti da sé con l’aiuto delle macchine, diventa difficile stabilire chiaramente i confini del corpo e dell’identità.
Altra questione aperta: le potenziali discriminazioni tra persone che sono neuro-tecnologicamente «aumentate» e le altre. Oppure, tra utenti delle stesse tecnologie appartenenenti a gruppi sociali diversi. Una ricerca di un paio di anni fa dei ricercatori della Carnegie Mellon University, ad esempio, ha dimostrato una donna che si affida al web per cercare un lavoro accede preferibilmente a offerte economicamente meno vantaggiose di quelle disponibili per gli uomini. Questa, evidentemente, è la strategia ottimale suggerita dagli algoritmi che classificano gli utenti sulla base del genere. Nel campo delle neurotecnologie, tali metodologie dovrebbero essere bandite.
SE LA LETTURA del documento è assai utile, in quanto individua dei nodi reali dello sviluppo tecnologico prossimo venturo, sul suo impatto c’è qualche dubbio. Nelle buone intenzioni dei promotori, le linee guida dovrebbero aggiungersi alla Dichiarazione universale dei diritti umani – obiettivo ambizioso. Se gli appelli e le dichiarazioni negli ultimi anni si sono moltiplicati, la loro capacità di controbilanciare gli interessi economici in campo sembra assai ridotta. L’uso dei nostri dati personali, in pasto all’intelligenza artificiale di colossi come Google e Facebook, è già fuori controllo. La partecipazione di Google al Morningside Group vorrebbe rassicurarci sulla responsabilità sociale delle imprese. Invece ne mina la credibilità, facendo assomigliare l’appello a una campagna mirata a proteggere il brand.

il manifesto 19.11.17
«Trotsky», il rivoluzionario diventa un’icona pop
Televisione. La serie di Alexander Kott è stata accusata di falso e di seguire la lettura putiniana della rivoluzione
Yurii Colombo

Mosca In via Akademika Koreleva a Mosca, sede di ORT – l’equivalente russo di Raiuno – la mattina del 7 novembre hanno tirato un sospiro di sollievo. La prima puntata della miniserie  Trotsky, andata in onda in prima serata ha raggiunto il 17% dello share. Un ottimo risultato visto che la stessa sera sulla concorrente Russia2 è andato in onda un altro serial, dedicato a Lenin che ha comunque attratto l’11% dei telespettatori. Trotsky, otto puntate di 50 minuti sulla vita del rivoluzionario russo nemico giurato di Stalin, ha avuto dunque una buona accoglienza tra i telespettatori e a ORT si sussurra che ci siano trattative avanzate per venderlo in molti paesi, a cominciare da quelli ex-sovietici.
La produzione russa non ha badato a spese. Sono stati ingaggiati alcuni dei migliori attori e direttori della fotografia del Paese, ed è stato ricostruito con dovizie di particolari il celebre treno su cui Trotsky visse durante la guerra civile. Per il ruolo principale è stato scelto Konstantin Chabensky conosciuto in occidente soprattutto per I guardiani della notte ma stella di prima grandezza del firmamento del cinema russo e proveniente dalla classica scuola di recitazione di Leningrado. Insieme a Chabensky c’è Olga Sotulova, sempre di scuola leningradese, molto convincente nella parte di Natalya Sedova come ha sottolineato il critico Pavel Kudekin. La serie racconta la vita di rivoluzionario di guerra, la presa del palazzo d’inverno, l’amore, l’esilio in Messico fino all’epilogo: l’assassinio nel 1940 per mano di una spia spagnola di Stalin, suo oppositore.
Gli storici dopo aver visionato la serie però sono stati impietosi. Konstantin Tarasov, docente di storia contemporanea a San Pietroburgo, ha affermato che nel film «gli errori e le imprecisioni nel ricostruire la vita di Trotsky sono così tanti che ci si stanca di contarli».
Secondo Tarasov «l’elemento su cui ruota tutta la serie – e cioè i soldi dati da Parvus e dai tedeschi ai bolscevichi – è un falso». Ma il film è pieno di avvenimenti fantasiosi come i presunti incontri a Vienna tra Trotsky e Sigmund Freud, mentre l’indiscutibile simpatia per Frida Kahlo del fondatore della IV Internazionale in Messico, si trasformata nelle mani degli sceneggiatori in focosi rapporti sessuali – mai dimostrati storicamente.
Il regista della serie, Alexander Kott, si è difeso sostenendo che in realtà non si tratterebbe di una biografia: «Non abbiamo girato un film documentario, per noi era importante mettere in luce alcuni aspetti della vita di Trotsky». Ma quali? Il produttore del film Konstantin Ernst li esplicita senza mezzi termini: «Trotsky è la combinazione di ogni cosa: il bene e il male, l’ingiustizia e il coraggio. È l’archetipo del rivoluzionario del XX secolo. Ma la gente non deve pensare che se avesse vinto Trotsky e non Stalin le cose sarebbero andate meglio, perché così non sarebbe stato».
Per lo storico moscovita Ilya Budraytskis si tratta, della chiave di lettura della rivoluzione che il regime putiniano propone ai russi: «Questa interpretazione si riassume nella criminalizzazione della rivoluzione stessa come fenomeno politico. La rivoluzione si presenta come un risultato della combinazione di odiose ambizioni umane la brama di potere, l’egoismo, la lussuria), e le macchinazioni di nemici stranieri, che supportano tali ambizioni, e le utilizzano per la distruzione dello Stato russo».
Sì, perché il Trotsky proposto da ORT accanto a un certo fascino e indiscussa intelligenza si distingue soprattutto per cinismo, presunzione, mancanza di principi. Non solo. L’«operazione Trotsky» dal punto di vista commerciale è giocata soprattutto sul terreno del costume ed è rivolta in primo luogo ai giovanissimi. «Trotsky, è una vera rock’n’roll star» dice ancora Ernst. E aggiunge: «Se si pensa al design dei suoi occhialini, ai suoi giubbotti di pelle nera, al suo treno corazzato sembra di essere dentro a una storia cyber-punk».
«Le mie studentesse ne sono rimaste affascinate» cispiega Giovanni Savino, napoletano, professore all’Università di russo da molti anni. Per Boris Kolitsky tutto questo potrebbe causare addirittura un effetto boomerang: «L’immagine del rivoluzionario duro e sessualmente aggressivo potrebbe essere molto attraente per i giovani russi. Tra demonizzazione e sacralizzazione oggi c’è davvero poca differenza».
Così a distanza di pochi giorni dalla programmazione della serie, sono apparsi nei negozi t-shirt e altro merchandising sul rivoluzionario comunista. «Ed ecco che il supereroe Lev diventa un affascinante oppositore di Capitan America» sottolinea Igor Molotov, giornalista attento ai mutamenti del gusto del pubblico giovanile.
Chissà se lo sarebbe mai immaginato lui, il vero Trotsky, di diventare un’icona pop della Russia del XXI secolo.

il manifesto 19.11.17
Plutarco, perché questo erudito moderato ci attrae
Classici antichi. Infinita varietà dei temi trattati, argomentazione pacata, stile gradevole, testi ricchi di aneddoti e citazioni colte: «Tutti i Moralia» tradotti per Bompiani da un’équipe guidata da Lelli e Pisani
di Carlo Franco

Si racconta che Arnaldo Momigliano fosse preoccupato di dover scrivere per la «Treccani» la voce su Plutarco, senza averne potuto leggere per intero l’opera. Il testo comparve nel volume XXVII pubblicato nel 1935, e contiene oltre all’informazione di base meditati giudizi, che meritano ancora interesse (però chi cerca oggi la voce fidando nella rete, e non nella carta, trova come autore Attilio Momigliano, l’italianista. Errore non isolato nei materiali Treccani on-line…).
Momigliano per altro aveva ragione. Conoscere per intero l’opera di Plutarco pervenuta sino a noi è impegno non da poco: le quasi cinquanta biografie delle Vite parallele sono più note, assai meno lo sono i saggi riuniti sotto il titolo di Opere morali (Moralia). Dei circa ottanta trattati, talora di poche pagine, talora più ampi, non tutti erano finora disponibili e reperibili in traduzione italiana annotata. Di qui l’iniziativa coordinata da Emanuele Lelli e Giuliano Pisani, che ha condotto studiosi di varia età ed esperienza a mettere insieme in un volume piuttosto corposo tutte le Operette, con testo greco a fronte e note, insieme alle opere non autentiche e ai frammenti (Plutarco, Tutti i Moralia, Bompiani «Il pensiero occidentale», pp. 3192, € 70,00).
L’epoca di Jacques Amyot
Come d’uso nella collana, si sottolinea orgogliosamente come si tratti della «prima traduzione italiana completa» che in età moderna abbia riunito il materiale in un solo volume (il concetto è ribadito nell’introduzione dove si fa la storia delle traduzioni moderne della cospicua raccolta). Certo, non è più l’epoca di Jacques Amyot (1513-’93) che da solo tradusse le Vite e poi le Opere. Né quella di Marcello Adriani (1553-1604) che donò eleganza toscana alle moralità di Plutarco così che i suoi scritti «acquistarono quell’uniformità e quella leggerezza di stile che troppo spesso non ebbero dal loro autore», come scrive l’Ambrosoli, tardivo editore di quella traduzione, integrata con qualche aggiunta (Milano, 1825). Il volume Bompiani è redatto a più mani, come è inevitabile e forse giusto, vaste essendo le competenze richieste. Gli scritti di Plutarco coprono molti ambiti diversi della cultura, dall’etica alla filosofia, dalla critica letteraria alla politica, dalla scienza alla retorica, dalla religione all’erudizione, dalla zoologia alla cultura popolare. Non disturba che le traduzioni, le annotazioni e il commento presentino talora un passo differente, tanto più che nel volume sono ripresi e rifusi anche materiali già pubblicati per altre edizioni parziali. Opportuna è la selezione dei materiali adibiti al commento, dove la completezza sarebbe impossibile e renderebbe il tutto poco utilizzabile: l’introduzione generale alle Opere morali premessa a una celebre collezione francese conta oltre duecento pagine.
Lo scrupolo dei commentatori emerge dalla imponente bibliografia scrutinata, esito dall’intenso lavoro svolto sull’autore negli ultimi decenni. C’è stato infatti un «ritorno a Plutarco»: ne scriveva Carlo Diano nel 1965, e giustamente lo ricorda Pisani. Fino al principio dell’Ottocento era durata una ammirazione altissima per il Plutarco biografo, ispiratore di «egregie cose», e scrittore di temi morali. Invece nell’Ottocento storici e studiosi del positivismo mostrarono una forte delusione, irritati dagli elementi compilativi dell’opera di Plutarco, giudicata poco utile come fonte storica e anche poco originale (ma dire che questo fu esito di una «ottusa filologia», come qui si legge, è eccessivo). Oggi si è tornati a leggere lo scrittore antico con migliore consonanza, accettandolo come è, cercando di trattarlo anche unitariamente, con le Vite a illuminare le Opere morali, e viceversa. Eppure la nostra epoca è molto lontana dal modello degli uomini grandi, è molto allergica alle esigenze di una estesa minuziosa cultura, e molto indifferente al «bello stile». Che cosa dunque attrae verso Plutarco? Non certo la prosa lenta e talora sovraccarica, spesso migliorata dalle traduzioni che attenuano certe ridondanze (basta guardare il testo greco a fronte, derivato da edizioni critiche correnti, per notarlo). A interessare invece è la varietà dei temi che Plutarco seppe affrontare, la sua pacata argomentazione, l’efficace gradevolezza del suo ragionamento. I suoi scritti, soprattutto morali, sono abilmente disseminati di efficaci aneddoti, dotte citazioni, pensose massime. Questo è il frutto non di una mente originale e speculativa, ma di un grande ingegno, capace di decantare con mano sapientissima una lunghissima tradizione culturale.
Scoprire pagine inattese
Tra le tante pagine di questo erudito, moralista, filosofo, teologo e letterato, ciascun lettore può costruire la propria antologia. In effetti, il volume che riunisce tutti i suoi scritti invita a scoprire pagine inattese: una discussione su come leggere la poesia, una riflessione sugli usi alimentari, un dibattito sulla crisi degli oracoli, la descrizione di un rito esotico, un’indagine antiquaria su strani usi romani, i consigli a un assennato uomo politico, una polemica su Erodoto e i Beoti, una declamazione su Alessandro Magno, un saggio di critica letteraria, attacchi contro scuole filosofiche rivali, e altro ancora. Difficile non trovare qualcosa che non attragga, fosse solo per curiosità.
Moderato in ogni atteggiamento
Plutarco è per noi uno dei «frutti più maturi della civiltà ellenica», e il testimone di un ellenismo in versione greco-romana: egli per certi aspetti profittava della pace imperiale, per altri si volgeva al passato, come se il presente non esistesse. Ecco allora, proprio nelle Opere morali, un blandissimo messaggio politico: accettare la supremazia romana, ma non identificarsi con l’impero, che greco non era. Ecco anche lo sguardo al passato: la coscienza di una grande eredità culturale, e il piacere di una erudizione antiquaria. Il panorama culturale di Plutarco è politicamente sicuro, del tutto alieno da tendenze ribellistiche. Moderato egli appare in ogni suo atteggiamento: profondamente pio ma avverso alla superstizione; dotto filosofo ma opportunamente vòlto alla filosofia pratica verificata nei comportamenti di ogni giorno; preoccupato della salute dell’anima ma anche di quella del corpo; teorico della politica ma soprattutto amico dei romani potenti; custode d’identità greca ma, ripeto, intento a discutere soprattutto la Grecia del passato. Plutarco è capace di scrivere discussioni ispirate sulla «democrazia», riferite a Clistene, Solone o Pericle, ossia a situazioni remote di mezzo millennio, e di farlo in un tempo in cui le città greche erano rette dalla élite dei notabili, e l’impero era guidato dal governo di uno solo. Non è divisivo Plutarco, non suscita conflitti: come certi saggisti che portano grisaglie di buona fattura, senza tempo, persone che esibiscono un eloquio forbito e buone letture di tradizione. Perciò li si legge o li si ascolta con piacere: hanno un rassicurante sapore di cultura, che con buona volontà si può anche trovare attuale. Sono gradevoli perché non impegnativi: non ambiscono aprire nuovi mondi, ma insegnano a abitare con stile e dignità d’altri tempi nei mondi che già ci sono.
Le priorità di Plutarco non sono sempre le nostre: nelle simpatiche Questioni conviviali si leggono temi talora bislacchi (l’innesto nei pini, la maniera di dividere le porzioni a tavola, la posizione dell’alfa nella sequenza delle lettere, e così via). C’è un saggio sul problema della scarsa produzione di oracoli in versi da parte della Pizia: tema marginale già al tempo dell’autore. Il quale fu personalmente molto devoto, e ebbe grande interesse per il divino, in ogni forma. Dedicò la sua dotta attenzione ai culti di Iside e Osiride, ellenizzandoli e platonizzandoli secondo la sua maniera, e seppe qualcosa anche sul «dio dei Giudei»; ma non pare aver registrato la comparsa del cristianesimo, a differenza dai più accorti intellettuali del suo tempo. Certo, in compenso Plutarco sapeva stendere pagine ricche di common sense sui rischi derivanti dalla cerimoniosità che impedisce di dire di no; poteva disquisire sul controllo dell’ira senza esibire le nervose agudezas di un Seneca; aveva meditato bene il suo amatissimo Platone; poteva comporre ampie dossografie sulle dottrine più importanti delle scuole filosofiche greche (utili oggi, dopo la perdita degli originali); aveva certe sue idee sulla ‘buona’ politica, e arrivava persino a scrivere frasi forti come questa: «il regime politico che sistematicamente scarica i vecchi, finisce inevitabilmente per riempirsi di giovani assetati di fama e di potere, ma digiuni d’intelligenza politica: e dove l’acquisiranno del resto, se non potranno farsi discepoli o spettatori d’un vecchio che governa?». Tranquilli. Parlava in astratto. Non alludeva ai Renzi-boys.

Il Fatto 19.11.17
Massimiliano Bruno“Il mio mondo è ancora dei radical chic con il loro champagne e le tartine”
Regista, sceneggiatore e scrittore: “I maestri sono finiti, comanda il pubblico”
di Alessandro Ferrucci

Roma. Testaccio. Appuntamento in un bar. C’è un solo tavolino occupato da un signore infagottato da un piumino scuro, barba leggermente incolta, capelli rasati ai lati e una lunghezza improbabile (quasi imbarazzante) sulla fronte. Dopo un minuto lo stesso signore alza la mano: “Sono io, sono Massimiliano Bruno”. Eh? “Lo so, quasi mi vergogno, ma sto girando un film: interpreto un fascistone paraplegico. Devo stare così fino al 4 dicembre. Meglio se metto il cappellino?”. Come preferisce. “Sì, lo infilo”. Con la testa coperta torna (in parte) la fisionomia di uno dei protagonisti della nuova commedia italiana, attore, sceneggiatore, regista e ora scrittore con Non fate come me, uscito per Rizzoli, opera prima “superiore pure ad alcuni film da me diretti”.
Addirittura.
È una delle esperienze più belle: ne sono orgoglioso.
Perché?
Qui sono stato totalmente sincero, e c’è una grande differenza tra un romanzo e una sceneggiatura: nei film hai un produttore, un distributore, un mercato del quale tenere conto.
Ha scritto: “Odio essere qualunquista, mediocre e scontato. Odio essere come gli altri ma lo sono”.
Pensavo a me: credo di essere un bravo autore, ma non mi sono mai ritenuto un genio.
Il genio lo riconosce?
Sì e non lo invidio: piuttosto ammiro.
E non cerca di “rubare” qualcosa?
Siamo proprio su altri piani: mi è capitato di pietrificarmi davanti a un quadro di Rothko, braccato da una sorta di sindrome di Stendhal.
Nel cinema?
Penso a Godart.
Woody Allen?
Lo invidio perché dietro c’è un grande lavoro: ha alimentato il genio grazie alla cultura. Quello che dovrei fare io.
Al liceo come andava?
Ho studiato il Classico e con buoni risultati, ero uno serio, giudizioso. Ma se nel cinema vuoi dire di più, devi sapere di più, devi approfondire, andare oltre, investire tempo e risorse; non è un caso se fino a qualche anno fa i registi venivano chiamati maestri.
Mentre oggi…
Da un trentennio, in Italia e in tutto il mondo occidentale, gli autori e i produttori hanno iniziato a chiedersi ‘che cosa vuole il pubblico?’. Nel momento in cui ti poni questa domanda non sei più un ‘maestro’: comandano loro.
Per le sue commedie anche lei si sarà posto quella fatidica domanda…
Solo in alcun progetti, soprattutto quando scrivo per la televisione: in quel caso decide l’Auditel. Meno quando realizzo film come Gli ultimi saranno ultimi, o Viva l’Italia.
Dal libro: “Devo saper dire di no…”.
Non l’ho detto abbastanza e in troppe circostanze: delle volte il tornaconto di un amico, di un parente o di una fidanzata è diverso dal tuo, e tu pur non dire di no, per sentirti accettato, vai contro te stesso.
E nel cinema?
Il discorso è differente: in quel caso quando cedi al compromesso, hai anche la tua convenienza; magari prendi un attore perché pensi possa dare più visibilità al film.
Vista la sua origine d’attore, quando è regista come tratta i colleghi?
Sono amoroso. Ho talmente sofferto per i provini, le urla, i modi irosi e assurdi…
L’hanno trattata male?
È capitato. Magari vai lì e trovi un regista che non ha tempo da perdere, nervoso, risoluto e basta sbagliare una battuta per scatenare l’impossibile: ‘Che cazzo ci vieni a fare!’. Mentre tu balbettando provi a spiegare che ti sei lasciato con la donna, stai male, magari hai la febbre… a volte credo che gli attori siano dei supereroi.
In questo periodo si racconta di un altro tipo di provini…
Questa storia dello scandalo sessuale è terribile: se è vero, chi ha molestato deve pagare, ci mancherebbe…
Però?
Sono dispiaciuto, non posso rinnegare l’amicizia con Fausto Brizzi: è lui chi mi ha permesso di fare cinema e questo dramma non me lo aspettavo. Zero assoluto.
I suoi provini da regista?
Sempre con la telecamera, e nei miei film sono rare le scene di nudo: una volta Paola Cortellesi mi ha chiesto la controfigura. Accontentata.
Torniamo ai supereroi…
Non penso a tutti, ma a quelli bravi, quelli che insistono, si preparano, soffrono con e per il loro personaggio. Un esempio? Mesi fa ho realizzato la regia di Sogno di una notte di mezza estate e nel cast c’era Stefano Fresi: durante le prove l’ho interrotto in continuazione, lavorato sul particolare, sulla semplice variazione, magari su come puntare un dito. Non ha mai mollato. Non si è mai lamentato. Mai. E vedere la sua attenzione rispetto alle mie direttive, mi ha emozionato. Al suo posto sarei andato in paranoia.
Non avrebbe retto?
No. Infatti la mia attività d’attore è passata al terzo gradino.
Gli altri due?
Sceneggiatore e regista.
Soffre proprio davanti alla macchina da presa…
Per questo i miei amici registi, come i Manetti Bros, mi utilizzano da modello ‘pronto soccorso’: sono il perfetto sostituto degli attori che saltano. Accade pure nei miei film.
Nella pallacanestro avrebbe il ruolo di sesto uomo…
In Viva l’Italia all’ultimo momento abbiamo perso uno dei protagonisti, così ho vestito i panni dell’anchorman; stessa storia per Confusi e felici: Lillo (di Lillo e Greg) ha dato buca, Stefano Fresi non era disponibile, il personaggio era in sovrappeso, quindi eccomi. Però mi devono coinvolgere con uno spirito particolare.
Quale?
In amicizia. Allora va bene. Perché metto sempre le mani avanti, e dichiaro: ‘Oh, lo sapete, non mi ricordo mai un cazzo, quindi non mi potete rimproverare, in fin dei conti mi avete cercato voi…’.
Memoria zero.
Pochissima. Quando ho girato Boris mi hanno lasciato libero.
Francesco Pannofino ha raccontato che per anni i fan di Boris vi hanno fermato per ripetervi le battute della serie…
Sempre. A Carlo De Ruggieri non so quante volte gli hanno urlato ‘a mmerda!’; mentre io sentivo ovunque ‘bucio de culo’. Però Boris è il massimo.
Pannofino ha annunciato il possibile ritorno…
Quanto mi piacerebbe! Ogni tanto sogno di ricevere una telefonata dagli autori, tre amici talentuosissimi, che mi dicono: ‘Dai, si torna sul set’. Lo farei gratis. Mi sono divertito tanto, e lo considero un pezzo di televisione italiana, un microcosmo del nostro Paese.
Qualcuno l’ha mai chiamata “maestro”?
A me? Ma se non capita neanche a Sorrentino. E comunque con questo clima che c’è sul cinema, la possibilità mi sembra proprio lontana.
Nel frattempo i francesi realizzano le loro commedie, ispirandosi alla nostra storia del cinema. Mentre gli italiani…
La commedia all’italiana è irripetibile, non ci sono più i fasci e i compagni, non c’è più il Dopoguerra, non si va neanche più allo stadio: è morto quell’humus che ci ha accompagnato dalla fine del Secondo conflitto fino agli anni Ottanta.
E ora?
Pare anacronistico realizzare una pellicola su un operaio, si vive poco la fabbrica; oggi i film di Elio Petri sono quasi dei documentari storici.
È più difficile far ridere che piangere…
È così. Scatenare meccanismi di divertimento è un’arte, la commozione va a toccare delle corde personali presenti dentro qualsiasi persona: solitudine, lutto, vessazione.
Però il “dolore” è più considerato della commedia…
Perché nella commedia uno si domanda: ‘Come posso piacere anche alle persone più semplici?’ e le persone semplici non interessano a chi ha la puzza sotto il naso… tanto c’è sempre un radical pronto a scocciare.
I celebri radical chic…
Sono cresciuto tra loro: quando ti occupi di cinema, teatro, cultura in generale, li trovi ovunque.
Sono ancora quelli rappresentati da Virzì in Ferie d’agosto?
No, quella tipologia non esiste più; Paolo ha raccontato i borghesi dentro la sede del Pci; ora invece ci sono gli atticisti, come li disegna Stefano Disegni, gli stessi rappresentati da Sorrentino ne La grande bellezza: bevono champagne, mangiano tartine e parlano di fascismi.
In molti suoi film c’è Rocco Papaleo.
Con lui ho condiviso pure pane e cipolla; ci siamo esibiti in teatri piccoli, dove guadagnavamo veramente poco.
Quanto poco?
Cinquantamila lire; a volte andavamo lisci, niente paga.
Come sopravvivevate?
In ogni modo, in un periodo incrociavo non so quante situazioni: dal doppiaggio di personaggi ultra-secondari, tipo il tizio di passaggio dentro un supermercato, alla voce narrante in quei cd-rom in vendita all’edicola: spiegavo i programmi nel computer (e improvvisa: “Bene, ora premete il tasto control-alt. Ora andate avanti…”); quindi la mattina al teatro, e di corsa a un altro spettacolo serale.
E Papaleo?
Era anche un grande fomentatore delle serate romane; con lui ho passato dei momenti storici dentro a Il Locale di Roma (storico disco-pub vicino piazza Navona, nato nei primi anni Novanta).
Ne “Il Locale” non c’era solo Papaleo…
No, da lì è nata e cresciuta un’intera generazione di artisti: Daniele Silvestri, Niccolò Fabi, Max Gazzè, Frankie Hi-Nrg, Riccardo Sinigallia, Sergio Cammariere…
Anche attori.
Eccome: Valerio Mastandrea, Edoardo Leo, Angelo Orando, Rolando Ravello, Raul Bova, Marco Giallini… Ah, per dare una misura: Francesco Favino era il buttafuori. Stavamo tutti lì, solo che non ci conosceva nessuno.
Poi, un giorno…
Valerio iniziò ad andare al Costanzo show, per Daniele il suo primo Sanremo, per me un contratto per scrivere le fiction su Canela 5 e Paola Cortellesi a Mai dire gol.
Quindi la Cortellesi la conosce da molto…
Nei primi anni Novanta sento bussare al camerino: ‘Sei bravissimo, ti posso invitare al mio spettacolo?’. Ci innamorammo artisticamente, e nel 1996 eravamo sullo stesso palco con Cose che capitano: tre anni di tournée.
Dei tempi de “Il locale”, chi era il più talentuoso?
Daniele Silvestri era già un capobranco, uno figo: ha sempre avuto coraggio e cultura, poi Frankie, uno veramente ribelle. Quando ha scritto Quelli che benpensano ci siamo sentiti pervasi da un senso di orgoglio generale, come se fosse anche un po’ nostra… Come attori il nostro punto di riferimento era Angelo Orlando, lo reputavamo un genio, ma in Italia non è stato capito. Ora vive a Barcellona.
Di chi è il maggiore salto di qualità?
Valerio. Lui è cresciuto in maniera straordinaria: se me lo avessero detto vent’anni fa, forse non ci avrei creduto, e ha imparato il cinema attraverso il cinema. Gli voglio bene. Negli anni Novanta abbiamo scritto il soggetto di un film, si chiama Suerte.
Dov’è finito?
Mai trovato i soldi. Era la storia di due fratelli, il suggello della nostra amicizia nonostante io sia juventino, aspetto da lui non tollerato (Mastandrea è romanista).
Di cosa trattava il film?
Del subcomandante Marcos, eravamo fissati, ci piaceva la sua rivoluzione. Poi in quel periodo era morto il mio più caro amico, dovevo fuggire, così chiamai Valerio: ‘Non possiamo scrivere una sceneggiatura senza un sopralluogo: partiamo per il Messico!’. E lui: ‘Ciccio, ma che sei scemo? Io sono andato solo una volta a Madrid e già con due ore di aereo mi sono venuti gli attacchi di panico!’. Insomma, mi sono imbarcato da solo e via per tre mesi… non avevo i soldi di oggi.
La sfrutta questa maggiore disponibilità economica?
Macché. Una volta viaggiavo senza una lira, ora non viaggio nonostante il conto in banca.
Lei ha un nucleo di attori feticcio…
Sono un gruppo di amici. Come attrice ho Paola (Cortellesi), tra gli uomini c’è Rocco (Papaleo) perché lo stimo, mi fa ridere e mi tratta veramente da fratellino; poi Alessandro Gassmann: mi commuove il suo percorso, non è facile essere il figlio del più grande attore italiano di sempre, eppure è diventato proprio bravo.
Si percepisce il suo percorso?
Oggi è molto più libero, si butta. È forte. Autonomo. Ligio. Uno sul quale puoi contare sulla scena: nel giro di tre ciak ti dà quello che serve. Ah, pure Marco Giallini.
Lui perché?
È estroso, folle, se ti deve mandare a quel paese non ci pensa un secondo; è come se stesse sempre con indosso il giubbotto di pelle e seduto per strada sulla sella della moto. Però le sue critiche non sono mai pretestuose, ma costruttive, ha un cuore d’oro, lui c’è sempre.
Un suo maestro.
In quanto a sceneggiatura penso a Ugo Pirro. Mi ammoniva sempre: ‘Occhio, ci metti un attimo a cadere, basta sbagliare un film e sei finito: l’anno dopo hai la metà del budget’. Per questo non sottovaluto nulla, sto attento a ogni aspetto, esattamente come ai tempi in cui con Paola ci montavamo il palco da soli e per i chiodi ci dava una mano Libero De Rienzo.
Lei oggi com’è rispetto a quando era ragazzo?
Mi sono trasformato. Ero molto narcisista, volevo diventare chissà chi, cercavo l’affermazione personale. Ero più battagliero. Ora no. Mi sono anche commosso quando Paolo Genovese ha conquistato il David con Perfetti sconosciuti; ho pensato: ‘Bravo, hai catturato l’occasione della vita, hai piazzato il tuo calcio di rigore decisivo’.
E il suo di rigore?
Non è ancora arrivato. Ma io non so quanto valgo.
(Come canta Francesco De Gregori: “Nino non aver paura…”).

La Stampa 19.11.17
Dieci anni di kindle, biblioteca tascabile
di Gianni Riotta

Il parroco guarda severo dall’altare il fedele di mezza età che, compunto, resta immerso con lo sguardo sul cellulare, smanettando beato durante la messa. Poi, con un’occhiata allerta il sacrestano che rimprovera il signore «Niente messaggi durante le funzioni!». Arrossendo il signore gira il video del telefonino dove, via Kindle Cloud, ha scaricato il Messale Romano del Tempo Ordinario, seguendo le Scritture della domenica.
L’episodio, reale, conferma quanto, a dieci anni dal lancio di Kindle, la cultura degli ebook, via tablet, computer, smartphones, ci abbia permeato la vita. Battezzandolo, nel novembre 2007, Jeff Bezos, papà ieri di Amazon e salvatore oggi del Washington Post, disse lapidario «Kindle è la cosa più importante che abbiamo mai fatto». Il primo Kindle per libri elettronici non era un accesso alla vostra biblioteca online, come quello scaricato dal fedele in chiesa, ma un tablet di plastica pesante 300 grammi, con una rotella da vecchia radiolina a transistor e tasti grandi come grani di pepe. Lo schermo provava a mimare la pagina di un libro e i caratteri, come schizzati da un inchiostro denso, apparivano pian piano, uno dopo l’altro.
Con in borsa il peso del primo volume di Guerra e Pace potevate portarvi dietro mezza biblioteca. Borges ed Eco avevano coltivato il culto dei libri in catasta come mistero e saga, e adesso si poteva averne sul comodino una tonnellata intera. Il mercato degli ebook decollò, dai 20 milioni di dollari del 2006 ai 53,5 del 2008. Una pacchia per gli autori dilettanti, finalmente liberi di pubblicare anche dopo i No stentorei di Adelphi e Einaudi. Da allora il goffo Kindle diventa un elegante tablet, il Kobo ed altri gli fanno concorrenza, e Bezos porta il formato su ogni schermo, tavolo, borsa, tasca.
Il libro elettronico è un regalo alla cultura, ho letto in parallelo le migliaia di pagine della biografia di Hitler di Kershaw e i primi due, monumentali, tomi della biografia di Stalin di Kotkin (il terzo e finale è atteso a breve), se avessi dovuto trascinarmi dietro i libri di carta ne avrei ricavato scoliosi e slogature al polso, nonché fermi dinieghi dagli steward di Ryanair al momento del decollo. Sul mio Kindle cloud prendo appunti, sottolineo in giallo o azzurro, comincio un libro sul computer in studio, lo affronto in tablet in volo, lo finisco sul cellulare in metropolitana, anche senza campo alcuno sottoterra.
I nostalgici avevano temuto che Kindle fosse l’ennesima bravata di Amazon, che dopo avere distrutto le care, vecchie, librerie con il loro profumo di carta, colla e rilegature e i commessi forbiti, avrebbe desertificato anche i libri. Invece i nostri compagni dei giorni di scuola, cartelle o zainetto, hanno reagito con vigore al Kindle e lo hanno lasciato indietro. Secondo i dati del centro Pew il 65% degli americani legge libri di carta, il 28% ebook, Kindle e no, il 4% audiolibri. Un irriducibile 40% legge solo sfogliando pagina dopo pagina con l’indice, un futurista 6% si attiene rigorosamente agli ebook snobbando la carta. Dati simili in Gran Bretagna, il resto del mercato europeo seguirà. Pew osserva che il pubblico colto dei laureati preferisce la carta, mentre chi non ha titoli di studio si nutre di ebook e audio book.
Insomma il libro ha tenuto e si gode il XXI secolo con piglio. Eppure il compleanno di Kindle, nipotino di Amazon, va festeggiato. Non solo perché ci ha messo in tasca la Biblioteca Universale, con migliaia di classici gratuiti in tutte le lingue, permettendoci di trovare titoli perduti da anni sdegnati dai librai golosi di best seller, ma anche perché rinviene, nel cuore della notte, in un luogo isolato dagli uomini, i due versi smarriti che soli sanno darci coraggio per far passare la più oscura delle notti.

Corriere 19.11.17
L’abolizione del voto di condotta
La scuola deve insegnare anche il senso del dovere
di Giovanni Belardelli

C on un recente decreto, il ministro Fedeli ha abolito il voto di condotta nella scuola media, e quindi la possibilità di far ripetere l’anno a chi abbia avuto un’insufficienza in questo campo. Tale eventualità diventa impossibile ora che il voto di condotta sarà sostituito da una «valutazione del comportamento con giudizio sintetico e non più con voti decimali, per offrire un quadro più complessivo sulla relazione che ciascuna studentessa o studente ha con gli altri e con l’ambiente scolastico», secondo il linguaggio dei nostri responsabili dell’Istruzione. Come se una simile valutazione più articolata non potesse essere semplicemente affiancata al voto di condotta espresso con un numero.
Nell’interpretazione del ministero, le nuove norme non indeboliscono la lotta al bullismo e il contrasto a comportamenti scorretti: resterebbe la possibilità di non ammettere alla classe successiva chi è stato escluso per motivi disciplinari dallo scrutinio finale. Ma non è così. Infatti i citati motivi disciplinari, per non consentire il passaggio alla classe superiore (o agli esami di terza media) debbono riguardare addirittura, secondo quanto stabilisce lo Statuto delle studen-tesse e degli studenti, «reati che violano la dignità e il rispetto della persona umana», «casi di violenza grave» tali da «ingenerare un elevato allarme sociale» ecc. Tutte fattispecie molto diverse dai casi di grave indisciplina o di «moderata» violenza legata a fenomeni di bullismo.
Ma a preoccupare non è tanto il contenuto specifico della nuova norma, visto che nella scuola media i casi di bocciatura per insufficienza in condotta credo fossero inesistenti o quasi. A preoccupare è soprattutto il segnale che essa manda all’intero mondo della scuola: un segnale che inevitabilmente va nel senso dell’allentamento della disciplina. E questo in un momento in cui ci sono istituti scolastici, come il liceo Virgilio di Roma, nei quali si verificano episodi gravissimi, in un clima che ieri la preside Carla Alfano, intervistata da questo giornale, ha definito «mafioso e intimidatorio»: bombe carta, feste con alcol e droga, un rapporto sessuale consumato a scuola, uno studente spacciatore arrestato. Un clima che è semplicemente ridicolo pensare possa essere contrastato dal Piano nazionale per l’educazione al rispetto, da poco annunciato dal ministro Fedeli. Il Piano conferma infatti la tendenza in atto da tempo a ridurre ogni pedagogia a una retorica (sull’accoglienza, la Costituzione, il rispetto della diversità), priva di rapporto con la possibilità — anche solo teorica — della sanzione.
Se è possibile abolire il voto di condotta, per di più nel disinteresse pressoché totale dell’opinione pubblica, è anche perché tutto ciò che ha a che fare con la disciplina, il rigore, la serietà è da tempo considerato in modo sospetto. A una parte del Paese — inclusi quei genitori del liceo Virgilio che hanno derubricato le bombe carta a semplici petardi — la sanzione di gravi mancanze nel comportamento non appare qualcosa che è collegato al senso del dovere e della responsabilità individuale, ma una forma di discriminazione sociale o una indebita limitazione della creatività dei ragazzi. Come è stato detto più volte, questa idea che punire, e anche soltanto selezionare sulla base del merito, equivalga a discriminare è certo uno dei lasciti del lungo Sessantotto italiano. Ma è anche la conseguenza di una trasformazione profonda della nostra cultura, in particolare della cultura di sinistra e in generale progressista. Una cultura che, soprattutto nella sua declinazione comunista, aveva a lungo alimentato invece l’idea che a scuola contassero autodisciplina, sforzo individuale, capacità di superare gli ostacoli e le difficoltà. Si trattava di una cultura che aveva eletto a proprio modello Antonio Gramsci che, privato della libertà e in condizioni di salute difficilissime, si era applicato agli studi e alle riflessioni consegnate ai Quaderni del carcere. È stata la sostituzione di quella cultura dell’impegno, della serietà e della disciplina con una che concepisce la scuola soprattutto o soltanto come luogo di inclusione sociale, in cui si devono (iper)proteggere i giovani, a far sì che pian piano ogni idea di sanzione sia diventata sostanzialmente illegittima. Che anche la scuola spinga in questa direzione, e proprio in un Paese che soffre di uno scarso senso della legalità e del rispetto delle norme, rappresenta un problema non da poco.

Corriere 19.11.17
Memoria Un libro di Pierluigi Vercesi (Neri Pozza) rievoca l’avventura del poeta e dei suoi «legionari» sulle sponde dell’Adriatico tra il 1919 e il 1920
Fiume , la sagra dei colpi di mano
D’Annunzio s’impadronì della città e la trasformò in un palcoscenico di sogni e fantasmi
di Antonio Carioti

Poteva essere una semplice disputa di confine. Ma la prese a cuore Gabriele d’Annunzio. E la sua personalità strabordante trasformò la crisi di Fiume nella «rappresentazione teatrale», così la definisce giustamente Pierluigi Vercesi, delle tensioni e delle pulsioni, dei sogni e dei fantasmi che agitavano l’Italia postbellica.
Il poeta era febbricitante il 12 settembre 1919, quando entrò nella città adriatica (oggi appartenente alla Croazia con il nome di Rijeka), che il governo di Roma rivendicava e che gli era stata negata alla conferenza di pace di Versailles. Con d’Annunzio erano partiti da Ronchi (detta poi per questa ragione Ronchi dei Legionari) circa 2.500 militari ammutinati (granatieri, bersaglieri, arditi), cui si aggiunsero volontari di ogni estrazione. E ben presto la febbre del carismatico letterato, come racconta Vercesi nel libro Fiume. L’avventura che cambiò l’Italia (Neri Pozza), si tramise alla cittadinanza locale, composta in maggioranza da individui di lingua italiana, e a gran parte del nostro Paese.
In teoria il governo avrebbe dovuto stroncare la ribellione, ma troppo era l’entusiasmo suscitato dal gesto compiuto dal poeta e dai suoi discorsi infiammati. Il debole esecutivo guidato da Francesco Saverio Nitti, bollato da d’Annunzio con il nomignolo ingiurioso di «Cagoia», non poteva permettersi il prezzo di uno scontro frontale e presumibilmente sanguinoso. Tanto più che l’impresa dei «legionari» fiumani, che reclamavano l’annessione della città all’Italia, aveva colpito l’immaginario di tutti gli insofferenti e gli eversivi, di destra e di sinistra, nazionalisti e anarchici, ma anche di personalità illustri come l’eroe di guerra Luigi Rizzo, il direttore d’orchestra Arturo Toscanini, l’inventore della radio Guglielmo Marconi, che portarono personalmente a d’Annunzio la loro solidarietà.
In quella Fiume ribollente di passioni, ricorda Vercesi, accadeva di tutto. Il poeta aveva istituito anche un Ufficio colpi di mano, incaricato di organizzare scorrerie alla caccia di rifornimenti: tra le prede, autocarri colmi di scarpe e cappotti invernali, vagoni ferroviari pieni di cibo, una nave carica di armi. Gli addetti alle razzie li aveva battezzati «uscocchi», dal nome dei pirati balcanici cinquecenteschi. Il più attivo tra loro era Mario Magri, futuro antifascista ucciso dai tedeschi alle Fosse Ardeatine nel 1944. Ma tra gli uscocchi troviamo anche un temerario diciassettenne, poi squadrista e quindi segretario del Pnf, che invece sarebbe stato soppresso nell’agosto 1943 sotto il governo Badoglio, poco prima dell’armistizio, e sarebbe stato celebrato come un martire dai camerati di Salò: Ettore Muti. Vicende analoghe e nel contempo opposte.
Fiume divenne un grande laboratorio anche di libertà dei costumi sessuali, «un bordello a cielo aperto, dove tutto è concesso in attesa dell’apocalisse», scrive Vercesi. Furoreggiavano personaggi variopinti come Guido Keller, molto vicino a d’Annunzio e amico del futuro scrittore Giovanni Comisso: pilota da caccia durante la Grande guerra, vegetariano, ghiotto di miele e avido di cocaina, dormiva spesso sugli alberi e si portava un’aquila appollaiata su una spalla. Era destinato a morire in un incidente stradale.
Il culmine dell’esperienza fiumana, nell’agosto 1920, fu la proclamazione della «Reggenza italiana del Carnaro» (dall’antico nome del tratto di mare su cui si affaccia Fiume), una fantasiosa entità statuale dotata anche di una costituzione, elaborata dal sindacalista rivoluzionario Alceste de Ambris. Detta Carta del Carnaro, per l’epoca risultava tra l’altro molto avanzata: poneva alla base dell’ordinamento «il lavoro produttivo» e stabiliva l’eguaglianza giuridica di tutti i cittadini «senza distinzione di sesso».
Nel frattempo però a Roma era tornato alla presidenza del Consiglio Giovanni Giolitti, vecchia volpe che isolò d’Annunzio sul piano politico, attraverso un accordo sotterraneo con Benito Mussolini (all’epoca in risalita dopo la batosta elettorale del 1919), e nel novembre 1920 stipulò con il governo di Belgrado il trattato di Rapallo, che prevedeva la creazione a Fiume di uno Stato libero.
In città la popolazione era stanca, anche gli eroici furori dei legionari si andavano spegnendo. Quando a Natale le truppe del generale Enrico Caviglia presero d’assalto Fiume per consentire l’esecuzione del trattato, con tanto di bombardamento dell’artiglieria navale, la resistenza fu breve, con poche decine di morti. D’Annunzio, ferito leggermente alla testa dai calcinacci sollevati da una cannonata, gridò all’«assassinio», ma preferì cedere il campo. Era riuscito a tenere in scacco lo Stato liberale per oltre un anno, accentuandone la delegittimazione. E gli umori di quell’avventura avrebbero nutrito lo spirito antiborghese del fascismo, ma anche quello di alcuni dei più agguerriti avversari di Mussolini.

Corriere La lettura 19.11.17
Manicomi. Tra il 1968 e il 1977 Anna Maria Bruzzone è a Gorizia e ad Arezzo tra i malati psichiatrici dove registra decine di colloqui: E appunta sue riflessioni sulla rivoluzione di Basaglia
Il diario con dentro le voci dei matti
di Alessia Rastelli

Repubblica 19.11.17
Alla scuola delle Frattocchie
Quando il Pci dava i voti
di Simonetta Fiori

In mezzo secolo di storia ci sono passati un po’ tutti: tra i banchi Natta, Barca, Tatò e tanti semplici militanti Un libro ora rivela come funzionava il “college” del Pci: pagelle comprese
Testo di Simonetta Fiori
Togliatti quella mattina sembrava furioso: ma cosa era venuto in mente ai compagni della segreteria di intestare la scuola di partito proprio a lui, in buona salute e intenzionato a vivere ancora a lungo? «Non si dà il nome di un vivo a una qualsiasi organizzazione se non per augurargli di morire » , scrisse di getto, non sappiamo se confortato da qualche gesto scaramantico. L’onomastica fu cambiata. Ma certo nessuno poteva immaginare che il neonato college al numero 22 della via Appia, il campus dei rivoluzionari di professione, sarebbe passato alla storia con il nome sommesso del comune laziale, evocativo di terreni impervi o di fritti carnevaleschi piuttosto che di austeri studi comunisti: Frattocchie, il più potente simbolo di pedagogia politica che l’Italia abbia mai conosciuto. Il “tempio delle certezze” rimpianto da penne insospettabili.
E allora bisogna chiedersi perché nella generale liquidazione della tradizione comunista l’unico mito sopravvissuto sia proprio la scuola di partito, palestra frequentata da un milione di militanti, per quasi cinquant’anni luogo di formazione non solo del ceto dirigente ma anche dei cosiddetti apparatchik, “ l’unica burocrazia efficiente e onesta del nostro paese”, scrisse un volta Indro Montanelli. Una leggenda che ancora rimbalza su sponde politiche opposte quando si evocano le “Frattocchie della Lega” o le “Frattocchie di Forza Italia”. E la spiegazione di così tenace durata si può trovare nella sterminata ricerca condotta anche in magazzini abbandonati da Anna Tonelli, professoressa dell’Università di Urbino (
A scuola di politica. Il modello comunista di Frattocchie: 1944- 1993).
Grazie a faldoni mai consultati la studiosa ha colmato una pagina bianca su quella “centrale di educazione collettiva” che ebbe il merito di introdurre alla partecipazione politica moltitudini di analfabeti. La sua indagine ricostruisce un sistema complesso di scuole distribuite in tutto il territorio nazionale — Frattocchie era solo la più famosa — finanziate con centinaia di milioni di lire ( cifre stellari negli anni Cinquanta!) e tenute insieme da un precetto semplice che all’attuale ceto politico potrà apparire oscuro e incomprensibile: “Se vuoi dirigere, devi studiare”.
Nostalgia di Frattocchie? Il sentimento appare fuori luogo, soprattutto se riferito al primo decennio dopo la fondazione — nel 1944 — quando l’alfabetizzazione fa rima con rivoluzione, tra mesti autodafé e iniezioni di dogmi marxisti-leninisti a opera di Pajetta e Grieco. Le materie studiate sono “ rivoluzione proletaria”, “ storia del movimento operaio internazionale”, “ lotta di classe in Italia”. E le pagelle finali — dette anche con termine poliziesco “ cartelle segnalatrici” — non solo valutano il rendimento sui corsi ma anche la pasta caratteriale degli allievi. Il giudizio non viene più affidato al mortificante voto borghese marchiato in cifre ma al grado di profitto esteso da “ottimo” a “insufficiente”, novità destinata a essere copiata dalla scuola di Stato. Tra le varie osservazioni, quello di “mormoratore” resta lo stigma più temuto, scagliato contro i compagni criticoni che seminano maldicenze nei corridoi della scuola.
Tra i banchi spuntano i volti della futura classe dirigente — Luciano Barca, Gabriele De Rosa, Tonino Tatò, più tardi Alessandro Natta, Alfredo Reichlin e Maria Antonietta Macciocchi — ma prevalgono gli anonimi operai dei quadri medi e bassi, quelli che compileranno con accenti commossi il tema di fine corso “Cosa mi ha dato la scuola”. Sono gli anni in cui tutti gli ammessi vengono invitati all’esercizio della critica e dell’autocritica, detta anche “autobiografia orale”: in realtà una penosissima confessione in pubblico da cui anche militanti dall’eroico passato resistenziale escono con le guance umide di lacrime. Rituali severi che ricordano le strategie educative messe a punto secoli prima della compagnia di Gesù, la fede rossa non meno totalizzante di quella celeste.
La scuola di partito però non è solo dogmatismo e obbedienza, ma anche svago e divertimento, tra partite di pallone e concertini di musica alla radio nel lungo dopocena. La scuola è soprattutto la scoperta di un metodo di studio, per cui è “vietato leggere alla maniera dei villeggianti”, “a torso nudo” o in pose scomposte, ma solo rigorosamente a tavolino. Un metodo fondato sul lavoro di gruppo, perché non sono ammesse concessioni all’individualismo borghese. Quella del collettivo è una legge inderogabile, non sprovvista di conseguenze comiche. Come quando il responsabile di un corso per segretari di federazione annota che “il vitto è stato ottimo e abbondante”, tanto che “il peso complessivo dei compagni è passato da 1.309 a 1.363 chilogrammi”. La traduzione plastica dell’uomo sciolto nella massa.
Sui banchi di dottrina politica ci si può anche innamorare, ma con la cautela richiesta dalla morale comunista. Le donne sono ammesse ai corsi, ma solo dopo aver documentato azioni di coraggio sotto il tallone nazista — certificazione non richiesta ai maschi. Miriam Mafai ricordava l’infinita tristezza del collegio femminile di Faggeto Lario, borgo piemontese dalle tinte romantiche, “dove le più temprate delle compagne ebbero acute crisi di malinconia e depressione”. A un certo punto i maschi erano stati separati dalle femmine perché così “ non pesa sulle donne quel senso di inferiorità soprattutto nel campo dei problemi politici”, rileva un funzionario dotato di formidabile sensibilità di genere. Nel 1946 desta scalpore il caso di due giovani donne accusate di “andare in cerca di uomini”, perché disinvolte negli atteggiamenti (“fumano come turche”) e use a “ un trucco pesante”. Troppo sessualmente esuberanti per poter convivere a un piano di distanza con i maschi nella scuola Marabini di Bologna. In fondo “siamo uomini come gli altri”, esclamò il compagno Masetti nella sua requisitoria sulle regole etiche dei seminari rossi.
L’ampliamento di Frattocchie nel 1955 — un progetto a cui parteciparono architetti come Aymonino, Di Cagno, Malatesta e Moroni — fu oggetto di una baruffa dentro il partito. I vertici non apprezzarono lo stile un po’ tetro del nuovo “ casermone” e ordinarono di piantare filari di grandi alberi in modo da nasconderne la vista dalla via Appia. L’atmosfera dentro Frattocchie si sarebbe rivelata tutt’altro che cupa. “ Assomiglia più a un’elegante pensione à la page che a una scuola di quadri politici rivoluzionari”, decretò Carlo Salinari facendosi largo tra i compagni che giocavano a scacchi su colonna sonora di un quartetto mozartiano. Col tempo anche i programmi scolastici perdono il dogmatismo dottrinario delle origini, ma restando ancorati — almeno fino agli anni Ottanta — ai paradigmi teorici del marxismo leninismo. Resiste la triade classica filosofia/ economia/ storia, con l’aggiunta della logica e poi delle scienze.
Per assistere al trionfo di Frattocchie bisogna arrivare alla metà degli anni Settanta, con l’esplosione elettorale del Pci. L’aula magna con il dipinto di Guttuso diventa meta di pellegrinaggio da parte di giornalisti di tutto il mondo. Il tono irridente dei primi tempi cede il passo al mito. Vittorio Gorresio ne elogia “ il tono di civile sobrietà”. Paolo Mieli sull’Espresso la descrive “ sempre più simile a un college statunitense”. Per quelle mura passa una giovane generazione di intellettuali comunisti destinati a occupare ruoli di prestigio nella stampa quotidiana, da Paolo Franchi a Giuliano Ferrara. E alla sua chiusura, nel 1992, non saranno pochi gli addii colorati da un’imprevista nota di rimpianto.
Oggi la scuola di Frattocchie è un edificio abbandonato. Da diversi anni la proprietà è passata alla famiglia Angelucci, molto attiva nell’ambito delle cliniche private. Il suo destino sembra incerto. Resistono là davanti gli alberi piantati mezzo secolo fa per nascondere le brutture, quelli sì indistruttibili. E forse provvidenziali. ?

Il Sole Domenica 19.11.17
Verso il 25 novembre
Il lungo silenzio che ferisce le donne
La denuncia di violenze è stata messa a tacere nel corso della storia Solo da poco ha ottenuto uno spazio pubblico e un accenno di ascolto
di Elisabetta Rasy

Di fronte al cupo e regolare rimbombo degli omicidi, quello che si chiama sbrigativamente femminicidio, cioè vite femminili spezzate con violenza e furore da persone contigue e non da criminali occasionali, spesso si tende a dire che si tratta della reazione dei maschi sviliti di fronte al nuovo potere e alla nuova libertà femminile che essi, i maschi impauriti, non sarebbero in grado di accettare. Ma le cose stanno davvero così? Basta uno sguardo alla cronaca per rendersi conto che la violenza contro le donne è orizzontale: dagli stupri indiani a quelli dell’Isis, dalle bambine forzate al matrimonio alle punizioni corporali per le colpevoli di adulterio secondo la legge islamica, dalle pratiche di aborto selettivo - selettivo cioè dei feti femminili – alle figlie femmine chiuse in orfanotrofi lager in Cina e ai dati dell’obitorio di Ciudad Suarez con le migliaia di ragazze brutalizzate e uccise, è impossibile non rendersi conto che la mappa delle violenze non conosce confini e riguarda il mondo occidentale evoluto come quelle aree più remote dove lo sviluppo economico e sociale fatica ad arrivare. E basta poi dare uno sguardo al passato, ai libri di storia e di letteratura, per capire che la violenza femminile è anche verticale, comincia dal mito, per esempio il sacrificio di Dafne per sfuggire ad Apollo, come lo racconta magnificamente Ovidio o come superbamente l’ha scolpito Bernini: uno stupro fatto ad arte, potremmo definirlo.
Poiché sono molti gli equivoci in materia, vorrei insistere contro l’idea che possa esserci una sorta di prezzo da pagare per la (ancora poca) libertà conquistata: Yara Gambirasio aveva tredici anni quando è stata barbaramente aggredita e lasciata morire, l’unica libertà che aveva era di andare a far ginnastica in palestra. Proprio questo scampolo di libertà, questa libertà da bambina, le è stato fatale. Fortuna Loffredo, del derelitto Parco Verde di Caivano, aveva sei anni quando è stata buttata dal settimo piano e da un anno veniva regolarmente abusata: aveva la libertà che hanno le bambine di cui nessuno si occupa e che possono diventare il giocattolo della crudeltà del mondo. Pure a qualcuno viene ancora in mente, vedi il parroco del quartiere San Donato di Bologna, di mettere in relazione la violenza maschile con la libertà delle donne che spesso non è altro che fiducia, voglia di allegria. (Chissà se quel parroco tanto impegnato su Facebook ha avuto il tempo di leggere la notizia delle ventisei giovani nigeriane trovate morte su un gommone partito dalle coste libiche verso l’Italia, sui corpi delle quali sono stati trovati lividi, segni di percosse, ossa rotte, forse brutalizzate prima della partenza o forse dopo, per lasciarle indietro come merce avariata al momento del tentativo di salvataggio: sono state sventate?). E, dal momento che è il tema del giorno, viene in mente a qualcun altro, una bellissima e ammiratissima attrice, di richiamare alla prudenza (prudenza? e di chi verso chi?) e di invitare a non confondere avances e molestie, quando anche una adolescente sa che le avances sono tali quando lei le gradisce e quando c’è reciprocità nel desiderio e smettono immediatamente di esserlo quando invece sono atti subiti.
Il caso Weinstein ha un merito: ha messo in campo, oltre a uno smodato desiderio di dire la propria opinione e di creare tifoserie contrapposte, un interessante pregiudizio basato sostanzialmente su un unico capo d’accusa: se molestie ci sono state andavano smascherate subito e invece, arrivando anni e anni dopo i fatti, la denuncia delle donne è in colpevole ritardo. Vero, giusto, proprio così, non si potrebbe mettere meglio a fuoco la situazione: la parola delle donne è in ritardo. Solo che non si tratta di quei venti anni dai fatti, cioè dalla prepotenza sessuale del produttore americano. Gli anni sono molti di più: sono secoli e millenni. La parola femminile sconta un ritardo infinito per essere stata tacitata da un inviolabile obbligo di silenzio lungo tutto il corso della storia. È davvero da molto poco che ha conquistato uno spazio pubblico, e solo qua e là nel mondo uno spazio di ascolto. Ed è un ritardo certamente colpevole, essendo la colpa però non di chi non può parlare ma di chi impedisce all’altro di farlo: non è un silenzio qualsiasi, è l’impossibilità di parola che sempre si verifica quando c’è uno sbilanciamento dei poteri, uno squilibrio dei diritti.
In materia di donne è proprio ritardo la parola chiave. Lo incontriamo in ogni campo della vita femminile e non è difficile scorgere il nesso tra questo ritardo e la violenza. Dai ritardi del passato (siamo sicuri di ricordare che solo nel 1981 vengono abrogate nel norme del codice penale relative al delitto d’onore?) a quelli di oggi la situazione non è meno grave. Di violenza parlano chiaramente le cifre. Per esempio quelle di una recente ricerca del World Economic Forum sul divario di genere nel mondo, i cui parametri non sono la ridda delle opinioni contrapposte ma elementi precisi, cioè economia, politica, salute, formazione. Ci vorranno, secondo le previsioni, cento anni per colmarlo, questo divario. L’Italia, rispetto ai quattro parametri, è all’ottantaduesimo posto (dopo Burundi, Bolivia, Mozambico...), ma se si considerano invece solo i parametri della situazione economica e della salute scende al centodiciottesimo posto. Salute e denaro, cioè utensili della sopravvivenza. Come è possibile che chi sia in una posizione così precaria possa difendersi dagli agguati della violenza? La precarietà crea dipendenza, fragilità, sottomissione, cioè potenziale esposizione alla violenza. E non riguarda soltanto le più sfortunate e le più derelitte: è vero, c’è anche chi guadagna bene e chi può curarsi, ma se non c’è parità diffusa che possa penetrare nelle menti e nei cuori e nel corpo collettivo della società, non c’è sicura difesa dalla violenza. E non c’è sicurezza senza giustizia, se non sono tutelate tutte le donne non lo è nessuna.

Il Sole Domenica 19.11.17
Evoluzione umana
Difficile diventare Sapiens
Il nostro percorso è stato molto complicato, non si è svolto in linea retta, ma attraverso prove ed errori: sono tante le forme umane che non hanno avuto successo
di Guido Barbujani

Da tempo Giorgio Manzi cura per Le Scienze una rubrica molto seguita, Homo sapiens. Dalle sue pagine ci ha tenuto aggiornati sulle ultime scoperte della paleoantropologia, lo studio della nostra evoluzione a partire dai resti fossili, che è poi il campo nel quale è un’autorità indiscussa a livello internazionale. Ma ha trovato modo di parlare anche d’altro: di come abbiamo addomesticato i cani; di Ötzi, l’uomo del ghiacciaio del Similaun; di come sofisticate tecniche digitali permettano di dare un volto a individui vissuti migliaia o milioni di anni fa; e addirittura del movimento Neoborbonico che reclama il cranio del brigante Vilella (attualmente al Museo Lombroso di Torino).
Oggi i suoi pezzi (di Manzi, non del brigante Vilella) sono stati raccolti in volume (Ultime notizie sull’evoluzione uman a), e leggerli tutti di seguito non è solo piacevole, è anche illuminante. Si coglie, al di là del tema di volta in volta affrontato, il disegno complessivo: un insieme di idee che Manzi ha messo a fuoco nel corso degli anni, a cui tiene, e che ribadisce, esplicitamente o implicitamente, ogni volta che si mette a parlare di scienza.
La prima idea è che il nostro percorso evolutivo è stato molto complicato. Avete presenti quelle illustrazioni in cui, partendo a sinistra da un antenato scimmiesco, man mano che ci si sposta verso destra sfilano creature sempre più erette, più gradevoli alla vista e più simili a noi? Bene, se vogliamo capire qualcosa dell’evoluzione, e non solo della nostra, meglio dimenticarsele. Non è andata così, non va mai così: riprendendo un tema caro al mai abbastanza compianto Stephen Jay Gould («impareggiabile maestro»), Manzi mette ripetutamente in chiaro che progresso lineare, nella nostra storia, se ne trova proprio poco. Non ci siamo evoluti in linea retta, ma per prove ed errori. Ci sono state tante specie umane; tutte tranne una hanno finito per estinguersi. Il nostro cammino è stato a zigzag, e molte delle sue tappe ci sono ancora sconosciute.
La seconda idea su cui Manzi insiste è, a pensarci bene, la stessa, ma declinata in modo diverso: non è complicata solo la nostra evoluzione, ma anche il processo intellettuale attraverso cui cerchiamo di ricostruirlo, ragionando su un cranio o su una pietra scheggiata. «Cautela verso i facili entusiasmi; con il passare del tempo, certe ipotesi possono essere riconsiderate o, magari, abbandonate», scrive. È un buon consiglio, specie di questi tempi.
Nella forsennata ricerca di fondi a cui ogni ricercatore è costretto, pena l’espulsione dal mercato, una popolare e sciagurata strategia è far parlare in qualche modo di sé giornali e siti web, magari sparandola grossa. Una volta è il ritrovamento di scheletri di Homo sapiens nel posto dove nessuno se li sarebbe aspettati, un’altra un fossile che sconvolgerebbe le datazioni correnti. Le cose, però, non stanno così. Nella scienza, e la paleontologia non fa eccezione, ci sono continue correzioni ma poche rivoluzioni.
Ogni volta che otteniamo nuovi dati possiamo mettere meglio a fuoco fenomeni che non comprendevamo o comprendevamo in maniera incompleta, certo. Ma questo cambiamento di prospettiva è, di regola, graduale. Il sensazionalismo, il presentare ogni nuova scoperta come sbalorditiva, finisce per generare, e non solo nel lettore meno accorto, il sospetto che la paleoantropologia sia una scienza fragile, così fragile da finire rivoltata come un calzino ogni volta che da uno scavo salta fuori un osso un po’ diverso. È un sospetto infondato, ci spiega, gentilmente ma fermamente, Giorgio Manzi.
I capitoli del libro seguono le tappe principali della nostra evoluzione, dal remoto e sconosciuto antenato comune di tutte le scimmie (noi compresi), agli australopiteci, al genere Homo, fino alla comparsa e ai primi passi per il mondo di Homo sapiens. Un capitolo è dedicato alle storie italiane, a un ristretto ma qualificato gruppo di creature, con i cui resti Giorgio Manzi ha avuto un rapporto stretto. Da questi fossili abbiamo imparato a conoscere aspetti sorprendenti del nostro passato: per esempio, dall’uomo di Ceprano.
In poche, emozionanti righe, Manzi, che ha partecipato in prima persona alla scoperta, racconta come forti piogge abbiano portato alla luce un vecchio osso nella campagna laziale; l’intuizione che quell’osso possa avere qualche importanza scientifica; e la conferma, cioè il processo attraverso cui si è arrivati a capire che quella calotta cranica è appartenuta all’essere umano più arcaico mai trovato dalle nostre parti. La storia è istruttiva per più di un motivo. Inizialmente datato intorno a un milione di anni fa, il cranio di Ceprano è stato collocato da analisi più recenti intorno a 400mila anni fa: in Europa ci sono fossili più antichi. Ma con questo la scoperta non perde di importanza, anzi, ne acquista. Le caratteristiche arcaiche del cranio di Ceprano in un periodo relativamente recente confermano una volta di più che la nostra evoluzione non è avvenuta in linea retta, che non siamo il punto d’arrivo di un processo inevitabile. L’uomo di Ceprano non è né antenato nostro, né dell’uomo di Neandertal, anche se lo precede di poco: è, con ogni evidenza, una delle tante forme umane che non hanno avuto successo, e hanno finito per estinguersi.
E all’uomo di Neandertal, così diverso da noi ma così vicino a noi da essersi accoppiato con qualche nostro antenato, è dedicato un altro capitolo, il terzultimo. Le conseguenze di questi scambi sessuali, di questi incontri ravvicinati fra strani tipi non sono ancora chiare, ma è chiaro che, per studiarle e comprenderle, disponiamo oggi di uno strumento formidabile: il DNA. Così, allo studio dell’anatomia e dei reperti archeologici, oggi si è affiancata la genetica. Combinando i metodi di tutte queste discipline stiamo imparando a leggere nei fossili storie sempre diverse, spesso stupefacenti, che speriamo Giorgio Manzi continuerà a raccontarci.
Giorgio Manzi, Ultime notizie sull’evoluzione umana , Il Mulino, Bologna, pagg.248,€ 13,60
Guido Barbujani

Il Sole Domenica 19.11.17
Nina Coltart (1927 – 1997)
Vitalità della psicoanalista
di Vittorio Lingiardi

A 25 anni dalla sua pubblicazione, esce, per la prima volta in traduzione italiana, quello che, con un ossimoro, definirei un «classico sconosciuto»della psicoanalisi britannica. Il titolo originale è Slouching towards Bethlehem, da un verso di Yeats su una rozza bestia che arranca verso Betlemme per «venire alla luce«. L’autrice è Nina Coltart, la «più indipendente degli Indipendenti«. La definizione è sua, come sua fu la decisione, il 24 giugno 1997, di togliersi consapevolmente la vita perché una grave malattia gliela avrebbe presto comunque tolta. Ma soprattutto perché era pronta: il momento in cui doveva «pensare a morire, se possibile, con grazia» era giunto. La morte, Nina Coltart, l’aveva conosciuta a dodici anni: in Cornovaglia, aspettando alla stazione i genitori che, schiantati da un incidente ferroviario, non sarebbero arrivati. Con lei rimaneva la sorella minore Gillian, l’affetto più grande di tutta la vita.
Sara Boffito, che con delicata sapienza ha tradotto e introdotto il volume, ci fa notare che to slouch ha un doppio significato: arrancare ma anche stravaccarsi, come fanno i bambini quando non stanno composti e come si fa sul lettino dello psicoanalista. È anche quello che succede in analisi, quando parti del mondo interno del paziente arrancano per «venire alla luce». Un’immagine generativa che contiene la fatica, il dolore e la vitalità del parto. L’analista dunque come levatrice, come lo era l’amatissima bambinaia delle sorelline Coltart. Come di fronte al mistero del nascere, l’analista deve prestare un ascolto attento e fiducioso, una «profonda e disinteressata apertura di sé a un’altra persona». Di questo è fatta l’analisi: «un movimento per venire alla luce«.
Coltart, continua Boffito, ha avuto il coraggio di non nascondersi dietro la teoria, ma di riconoscere che «ogni ora, con ogni paziente è anche, a suo modo, un atto di fede; fede in noi stessi, nel processo, e fede negli aspetti segreti, sconosciuti, impensabili nel nostro paziente». Si tratta dunque di Pensare l’impensabile (il sottotitolo inglese diventa il titolo italiano).
Il libro comprende vari scritti: una raccolta che, con gli altri due volumi già apparsi in traduzione italiana – Come sopravvivere da psicoterapeuta (Utet) e Il bambino e l’acqua del bagno (Astrolabio) – racconta un percorso di vita e di lavoro attraversato dalla pratica terapeutica (originale e lontana da ogni ideologia psicoanalitica) e dalla tensione religiosa (un’inclinazione personale per il buddhismo, scevra di qualsiasi consolazione new age). Due piani, quello analitico e quello spirituale, che Coltart intreccia con la semplicità di un lavoro a maglia, toccando luoghi di interiorità che, mentre la inseriscono tra i grandi della psicoanalisi novecentesca (soprattutto Winnicott, Bion e Bollas), la rendono sorella di donne di esperienza e pensiero eccezionali come Weil e Hillesum.
L’incontro dinamico tra i due mondi avviene grazie alla fede («con la f minuscola, non con la F maiuscola che potrebbe implicare un atteggiamento credulo nei confronti di una teoria o una dottrina, ma una fede nella nostra esperienza, la quale cresce ogni volta che, all’interno della coppia analitica, le cose accadono») e l’attenzione. Un’attenzione «nuda», bionianamente intesa come sospensione di memoria e desiderio, «un osservatorio nella nostra mente» che permette di offrire al paziente il miglior tipo di ascolto.
Sono molti i punti di questo libro in cui Coltart riesce a sintetizzare con efficacia argomenti complessi. Per esempio: «scendere sotto gli standard dell’ideale dell’Io genera vergogna; scendere sotto gli standard del Super-io genera colpa. Il giudizio dell’ideale dell’Io sentenzia “fallimento”; quello del Super-io “cattiveria”».
La sua lingua è colta e attraversata da un elegante umorismo, mai usato però per evitare l’intensità dei materiali clinici. Lei non si nasconde: né ai suoi pazienti, né ai suoi lettori. E così il testo, anche nelle parti più tecniche, rivela una vitalità toccata da una lieve, mai ingombrante, metafisica. E proprio perché nulla è nascosto, si rimane colpiti dall’intensità di alcune sedute, che qui non ho lo spazio per raccontare, se non attraverso i loro titoli: L ’analisi di un paziente anziano, Il paziente silenzioso, Sono le buone maniere a fare un uomo: vero o falso?.
La psicoanalisi, dice Coltart, è un’attività paradossale perché si nutre di scissioni psichiche: mettere a fuoco fulmineamente e scrutare con pazienza; tollerare il groviglio dei propri sentimenti ma saperli osservare con freddezza; rivolgere l’attenzione contemporaneamente al paziente e a noi stessi; distinguere le nostre reazioni dalle sottili proiezioni che il paziente fa su di noi e dentro di noi; fidarsi delle nostre conoscenze essendo disposti a non sapere nulla; prendere con fermezza piccole decisioni morali, ma tenerci alla larga dal giudizio.
Pensare l’impensabile è un libro da leggere per espandere i confini della psicoanalisi. Non è necessario pensarla come Coltart. È necessario però interrogarsi sulle domande che, più o meno esplicitamente, attraversano il suo libro: tecnica e relazione, mistero e svelamento, fattori terapeutici e non terapeutici, dolore e gioco. Ingredienti che in controluce troviamo in due brevi regole auree che questa gentile e tenace giardiniera della psicoterapia psicoanalitica ci ha lasciato: «Potate dove potete» e «Quando siete in dubbio non dite nulla».
Nina Coltart,Pensare l’impensabile, e altre esplorazioni psicoanalitiche , Traduzione di Sara Boffito, Raffaello Cortina, Milano, pagg. 224, € 24,00

Il Sole Domenica 19.11.17
Eva Cantarella
Il parricidio nell’antica Roma
di Mario Ricciardi

Non è un buon momento per i padri. Sopravvissuta a stento all’emancipazione femminile e alla riforma del diritto di famiglia, la figura paterna correrebbe il rischio di assumere un ruolo quasi ornamentale, come un monarca scandinavo. Sarà vero? Un piccolo aiuto a chiarirsi le idee, per avere una visione più lucida dei tempi in cui viviamo, ci viene dall’ultimo libro di Eva Cantarella, autorevole studiosa del mondo antico, e divulgatrice di grande eleganza, che ricostruisce la storia dei rapporti tra genitori e figli dall’antica Roma a oggi. Sin dalle prime pagine scopriamo che gli odierni nostalgici avrebbero avuto qualche motivo di ansia anche se fossero vissuti agli albori della civiltà romana. Pare che a quei tempi, infatti, vigesse una pratica – che Cantarella descrive con ironia come una sorta di antenata della “rottamazione” – che imponeva l’uccisione degli anziani, quando questi fossero diventati un peso per la società.
In epoca posteriore i romani, che si vantavano delle proprie tradizioni, trovarono questi precedenti imbarazzanti, e fecero di tutto per relegarli tra le “fake news”, ma diversi indizi fanno ritenere che qualcosa di vero ci fosse. Altrimenti perché chiamare i sessantenni «depontani»? Cioè quelli che «vanno dal ponte»... nelle acque del Tevere.
Per i padri le cose migliorano, ma non del tutto, più tardi. Se è vero, infatti, che essi avevano un ruolo centrale nell’organizzazione sociale della Roma classica, non si può certo dire che conducessero una vita serena. Non tanto per gli impegni lavorativi, ai quali attendevano, ciascuno nel proprio ruolo, mogli, figli e schiavi, ma per via della posizione in cui si trovavano dal punto di vista patrimoniale. Nel diritto del tempo essi erano titolari dell’intero patrimonio riconducibile al nucleo familiare, e conservavano questo ruolo fino alla morte. Le strade di Roma pullulavano quindi di giovani di belle speranze, e talvolta di facili costumi, che potevano contare al massimo sul peculium, una quantità di denaro, spesso non elevata, per le esigenze quotidiane. In tali condizioni ricorrere ai prestiti non era cosa facile perché il termine di scadenza “a babbo morto” non era visto con favore dai creditori. Eccetto che non si trovasse un modo per renderlo un po’ meno incerto. Ecco perché il parricidio, come afferma il grande storico Paul Veyne, era una “nevrosi nazionale” dei romani. La parte centrale del libro descrive in modo essenziale ma accurato il regime della famiglia nel diritto romano, i poteri straordinariamente estesi che aveva a disposizione il padre, che includevano, tra l’altro, anche quello di uccidere i figli o di venderli come schiavi. In queste pagine, in cui Eva Cantarella ritorna su temi di cui si è già occupata in passato, c’è anche un’interessante discussione di alcune questioni di metodo, relative alle fonti cui attingere per ricostruire il modo di vita dei romani. Gli storici antichi non dicono tutto, e a volte possono essere inaccurati o reticenti per ragioni ideologiche, quindi bisogna integrare attraverso lo studio dei testi giuridici, etici, retorici e letterari. Tenendo sempre d’occhio le scienze sociali: perché i romani sono uomini e donne per molti aspetti “diversi da noi”, quindi l’antropologia può aiutarci a comprenderli tanto quanto le discipline tradizionalmente coltivate dai classicisti. Eva Cantarella, che di tale approccio è stata una pioniera nel nostro Paese, usa questi riferimenti con parsimonia, ma in modo efficace, accompagnando il lettore che non sia familiare con gli indirizzi di ricerca più recenti in un percorso di scoperta affascinante.
Nella parte finale del libro c’è una rapida ricostruzione dell’evoluzione della famiglia dall’antica Roma alla società contemporanea. Trasformazioni nei costumi che cominciano a essere riconoscibili già nella tarda antichità si consolidano per via di diverse ondate di modernizzazione. Così avviene che la famiglia arcaica cede progressivamente il posto a quella nucleare, e col tempo finiscono per mutare anche le idee relative al matrimonio, ai rapporti tra i coniugi, al ruolo dei genitori rispetto ai figli. Nasce quella che gli studiosi chiamano la “famiglia sentimentale” che porta in primo piano la dimensione dell’intimità tra i suoi membri. Oggi è forse la perdita di questo ideale che i nostalgici piangono. Non la famiglia reale, che può essere un paradiso o un inferno a seconda delle circostanze, e che, come istituzione, evolve, come ha sempre fatto, ma un certo modo di concepirla, di idealizzarla, basato sull’idea che l’amore abbia un posto speciale tra le mura domestiche. Forse è questo che manca a tanti padri di mezza età, che hanno più tempo, ma meno certezze e passioni di quelli della generazione precedente: la fiducia di poter contare sull’amore dei figli.
Eva Cantarella, Come uccidere il padre. Genitori e figli da Roma a oggi , Feltrinelli, Milano, pagg. 139, € 14