La Stampa 18.11.17
Grasso: “Lui aveva deciso che sarebbe toccato a me dopo Falcone e Borsellino”
Il presidente del Senato: “Mi ha salvato l’arresto di Riina. La mafia non finisce con lui, mai abbassare la guardia”
di Francesco La Licata
Totò
Riina è uno di quei personaggi della cronaca che non passano certamente
inosservati. Il capo di Cosa nostra rimane ben presente nella nostra
memoria collettiva ed anche nei ricordi di uomini dello Stato come il
presidente del Senato. Pietro Grasso ha conosciuto bene il boss
attraverso le migliaia di pagine del primo maxiprocesso di Palermo,
quando era giudice a latere in corte d’Assise. «Il racconto dei
collaboratori - ricorda adesso la seconda carica dello Stato - ci
restituiva un ritratto formidabile del tandem che guidava la mafia,
Riina e Provenzano, ma anche dell’intera compagine corleonese uscita
vincitrice dallo sterminio totale inflitto alla vecchia Cosa nostra
“palermocentrica”. Furono Buscetta, Contorno, Mannoia e tutti gli altri
ad aprirci gli occhi su una realtà allora poco conosciuta. Ma con Riina
ci fu pure, qualche anno dopo, qualcosa di più».
Potrebbe appagare, a questo punto, la nostra curiosità?
«È
una storia che risale all’autunno del 1992, dopo le stragi di Falcone e
Borsellino. Cosa nostra aveva in animo di colpire il potere politico da
cui si sentiva abbandonata. C’era un elenco di uomini politici indicati
come obiettivi da abbattere e i gruppi di fuoco di Cosa nostra si
apprestavano alla battaglia. Si dice che fu Bernardo Provenzano a far
riflettere la dirigenza di Cosa nostra, obiettando che se avessero
colpito i politici avrebbero perso ogni appoggio per il futuro.
Bisognava, perciò, continuare coi magistrati. E allora, raccontano i
pentiti, Riina si rivolse a Giovanni Brusca, non ancora collaboratore,
dicendogli: “Ci vorrebbe un altro colpettino”».
Un colpettino dopo Capaci e via D’Amelio?
«Esattamente.
E la scelta cadde su di me, che avevo la colpa di essere stato
“esecutore” del maxiprocesso di Giovanni Falcone. Dovevano uccidermi col
tritolo, a Monreale, mentre mi recavo a casa dei miei suoceri».
Attentato mai compiuto, per fortuna.
«Trovarono
difficoltà perché vicino al posto designato c’era una banca i cui
sistemi di allarme interferivano coi timer mafiosi e c’era il pericolo
che la bomba esplodesse quando non doveva. Poi, a gennaio, arrivò la
cattura di Riina e perciò sono qui a raccontare».
Riina viene descritto come un pazzo sanguinario. Condivide questo giudizio?
«Non
credo si possa definirlo matto. È stato un capo che ha saputo applicare
una ferma e spietata strategia militare. La guerra di mafia, vinta con
la forza ma anche con la furbizia e la capacità di allettare taluni
nemici a schierarsi al suo fianco, con la promessa di più soldi e più
potere, è una chiara dimostrazione della sua attitudine al comando».
Manipolatore e votato all’inganno?
«Accorto
e prudente, come Provenzano. Non andavano mai insieme alle riunioni per
non correre il pericolo di essere uccisi entrambi e per poter sempre
prendere tempo con la scusa di dover consultare l’assente. Ha governato
Cosa nostra anche quando formalmente il capo era Michele Greco (“il
Papa”) e questo perché era forte di una maggioranza interna non
manifesta».
Lo descrive quasi come un politico navigato.
«Cosa
nostra ha frequentato la politica ed ha imparato. La sua storia recente
ci racconta addirittura il suo tentativo, con le stragi, di
condizionare le Istituzioni e lo Stato. E non è attitudine degli ultimi
tempi. Dopo le uccisioni di Mattarella, La Torre e Dalla Chiesa, inizio
Anni Ottanta, toccò al giudice Rocco Chinnici con l’autobomba di via
Pipitone. I politici locali, i Salvo - dicono le indagini - portarono a
Riina gli “umori di Roma” che consigliavano di “darsi una calmata” per
non provocare provvedimenti repressivi. Ma Riina, già pieno di arroganza
rispondeva: “Ci lascino fare, noi siamo sempre stati a disposizione per
favori che abbiamo fatto».
Si riferiva ai cosiddetti omicidi eccellenti?
«Questo
le indagini non lo hanno potuto appurare e bisognerà indagare ancora a
fondo. Ho raccontato l’episodio solo per spiegare le aspirazioni di Cosa
nostra alla politica. Ma ci sarebbero tanti altri esempi da addurre,
per esempio il legame della mafia con l’imprenditoria e col mondo degli
appalti. Riina trattava con gli industriali di Catania e di Palermo, lo
ha spiegato pure il prefetto Dalla Chiesa, prima di morire. E hanno
ucciso il presidente Piersanti Mattarella perché qualcuno non gradiva la
sua politica regionale, l’apertura alla sinistra e come stava entrando
negli interessi economici che legavano la politica, l’imprenditoria e la
criminalità».
Presidente Grasso, cosa accadrà adesso? Fine di Cosa nostra?
«La
mafia non finisce quando muore un capo e guai ad abbassare la guardia.
Bisognerà stare molto attenti, adesso. Cosa nostra entrerà in una fase
di transizione, si esprimeranno anche i vecchi boss che hanno finito di
scontare il carcere, peseranno le alleanze tra le diverse famiglie che
sono cambiate mentre Riina era in carcere».
Potrebbe toccare a Messina Denaro?
«Da
quello che si sa è più interessato ai suoi affari che a quelli di Cosa
nostra. Lo stesso Riina, nei suoi dialoghi intercettati in carcere, fa
sapere il suo giudizio sul boss trapanese e non è entusiasmante: “Quello
si fa i fatti suoi”. Ma un capo lo troveranno, i boss sanno essere
molto concreti».