Il Sole 6.11.17
Timeout. Le pause della discordia
Quelle 11 ore di riposo che tolgono il sonno a medici e infermieri
di Gianni Trovati
Giusto
due anni fa, a novembre del 2015, la questione infiammò il mondo della
sanità, con agitazioni e scioperi di medici e infermieri. Il tentativo
di risolverla è stato fatto all’italiana, a suon di deroghe e di
tolleranza di situazione fuori regola. Ma ora il problema torna sui
tavoli con il rinnovo dei contratti degli statali, e promette scintille.
Stiamo
parlando del cosiddetto «orario europeo», che impone ai datori di
lavoro di garantire almeno 11 ore di riposo fra un turno e l’altro. Un
diritto ovvio, che però in molti settori fa saltare il banco: a partire
dalla sanità.
Il problema è semplice. Per essere lucidi e lavorare
bene, fra un turno e l’altro bisogna andare a casa, mangiare qualcosa e
farsi una bella dormita. Gli orari, quindi, devono lasciare libere da
impegni le persone per almeno 11 ore. Senza interruzioni.
Ma
proprio sul carattere continuativo del riposo obbligatorio casca
l’asino. O meglio, soprattutto negli ospedali, cade la possibilità di
comporre davvero il tabellone dei turni coprendo tutte le caselle
necessarie a garantire il servizio sulle 24 ore. Dopo anni di vincoli al
turn over che hanno limitato i nuovi ingressi, la coperta è corta. E la
deroga vince sulla regola.
Il compito di trovare la quadra
toccherebbe ai nuovi contratti; la trattativa entrerà nel vivo già
mercoledì, quando sono stati convocati i primi tavoli dopo la pausa che
ha accompagnato l’attesa dei finanziamenti in manovra, ma c’è un
problema. L’Aran, l’agenzia negoziale che rappresenta la Pubblica
amministrazione nella sua qualità di datore di lavoro, ha il compito
ingrato di pensare le regole più raffinate nel tentativo di mettere
insieme l’obbligo di garantire il riposo e quello di assicurare il
servizio. Ma, ribattono i medici, gli infermieri e i loro sindacati, non
c’è regola che tenga: i due obiettivi si raggiungono solo allargando
gli organici.
Tornando sul pratico, in effetti, l’esperienza di
questi due anni offre un menu ricco di stratagemmi più che di
applicazione effettiva della regola: interpretazioni cavillose che
distinguono la «pronta responsabilità» dal turno anche quando la
reperibilità porta a una chiamata al lavoro, rispetto dei turni a
macchia di leopardo e, soprattutto, orari di lavoro che finiscono per
rompere la griglia degli obblighi senza che i controllori mettano bocca,
ben sapendo che le 11 ore farebbero saltare il banco. A mettere in fila
i tanti slalom fra le regole è stata qualche mese fa la Federazione
italiana delle aziende sanitarie e ospedaliere (Fiaso), che con il
Cergas, il centro di ricerca della Bocconi sulla sanità, è andata a
guardare che cosa succede negli ospedali italiani. Nel 55% dei casi le
undici ore di riposo consecutivo restano una bella idea, confinata
nell’utopia, e dove si è provato a tradurla in pratica sono state
tagliate soprattutto le ore di formazione. Il rapporto mostra anche
l’altra faccia della medaglia: queste interpretazioni creative e
flessibili degli obblighi hanno evitato il crollo del sistema,
confinando in uno-due casi su cento le ricadute in termini di tagli
significativi dei servizi o allungamento sensibile nei tempi d’attesa.
L’equilibrio
però rimane precario e il tema si candida a diventare una presenza
ingombrante nelle stanze del confronto sui contratti. Con due
aggravanti: i soldi, e il tempo.
Sul primo aspetto, i conti sono
relativamente facili. L’obbligo di garantire gli 85 euro lordi agli
oltre 600mila dipendenti del comparto assorbe gran parte dell’aumento
nominale da un miliardo già previsto per il fondo sanitario, tema che
sta già scaldando il confronto fra governo e regioni all’interno di una
legge di bilancio che non lascia grandi spazi aggiuntivi. E il
calendario è stretto. Sia la politica sia i sindacati ambiscono a
chiudere l’accordo entro fine anno, per portare gli aumenti nelle buste
paga in tempo per una primavera che si annuncia ricca di elezioni:
quelle per il Parlamento, ovviamente, ma anche quelle chiamate a
rinnovare le rappresentanze sindacali negli uffici pubblici. Arrivare a
quell’appuntamento con gli stipendi già spinti dai rinnovi contrattuali
aiuterebbe tutti.
Il contesto, insomma, è quello che è, e spinge
verso una risposta rapida a un problema complesso, rimasto appeso per
oltre tre anni visto che le regole entrate in vigore nell’autunno di due
anni fa sono scritte nella legge 161 dell’ottobre 2014. Il rischio,
quindi, è l’ennesima soluzione di compromesso, che scarica il problema
sulle spalle delle singole strutture: con tanti saluti al diritto al
riposo di medici e infermieri, e al diritto dei pazienti di essere
curati da persone in forma.