il manifesto 7.11.17
Renzi
Le dimissioni di un uomo solo allo sbando
di Norma Rangeri
Non
lo farà, non farà un passo di lato così come non accetterà i buoni
consigli che alcuni commentatori gli inviano a mezzo stampa (fai
autocritica, buttati a sinistra), perché, molto semplicemente, certi
suggerimenti vanno a sbattere contro il progetto e la cultura politica
di Renzi.
Certo sarebbe arrivata l’ora di riconoscere che la
disfatta siciliana è solo l’ultima di una lunga serie di sconfitte, sia a
livello politico generale (il referendum costituzionale), sia in
importanti amministrazioni locali, con grandi città (Roma, Torino,
Genova) consegnate al governo dei pentastellati o del centrodestra. Ora
si aggiunge la ciliegina sulla cassata siciliana.
Come onestamente ammette il vicesegretario Lorenzo Guerini, si tratta di «una sconfitta inequivocabile».
Renzi
dovrebbe, altrettanto onestamente, prenderne atto riconoscendo di aver
dato il massimo contributo a un esito così nefasto per il Pd. E,
serenamente, riprendere il progetto di ritirarsi a vita privata.
Se
non fosse che il giovane leader, ha perseguito e affermato una linea
politica neocentrista e, coerentemente, lavorato alla rottamazione della
sinistra interna, volendo portare a termine una profonda metamorfosi
del Pd.
Ha costruito un partito sulla sua persona, contro
sindacati e forze intermedie. Solo che così, come all’indomani delle
primarie del 2013 scrivevamo «di un uomo solo al comando», oggi, 5 anni
dopo, è ormai ora di cambiare definizione perché con tutta evidenza
siamo di fronte a un uomo solo allo sbando.
L’ex presidente del
consiglio non è tipo da farsi da parte, anche perché il partito che così
ostinatamente si è cucito su misura è una creatura che, nonostante
tutti i falsi movimenti verso Pisapia e altri raggruppamenti, rivendica
le politiche neocentriste e principalmente sull’economia e il lavoro.
Esattamente quelle che meglio esprimono la nuova natura del suo Pd.
Più
che consigli verso tattici spostamenti a sinistra, sarebbe giusto
riconoscergli una sua forte coerenza sulla via maestra di una
coalizione, dopo le elezioni politiche, con il redivivo Berlusconi.
Tanto più che il vecchio leader di Arcore suda cento camicie nel
completare l’operazione di lifting politico, da padre del populismo
italiano a figura degasperiana europeista. Trovando il conforto delle
grandi firme.
E’ per questo motivo, di fondo e generale, che
l’emorragia di consensi, prolungata e profonda, anziché amare
riflessioni sul suicidio del Pd, al contrario, si manifesta con reazioni
scomposte. Come la sgangherata e vana ricerca di qualche improbabile
capro espiatorio. E’ il caso dell’attacco al presidente del senato
Grasso per non aver accettato la candidatura in Sicilia. Recriminazione
sciocca non fosse altro per il fatto che è rivolta a chi stava meditando
di lasciare il Pd, come Grasso ha fatto all’indomani dell’approvazione
della legge elettorale.
Se il partito di Renzi si ritrova senza
candidati qualche domanda sul perché non sarebbe inutile. Succede in
Sicilia e capita anche con il preoccupate risultato di Ostia, il
popoloso municipio di Roma, dove è stato ripescato un piddino senza
chance in un territorio commissariato per mafia da due anni, con il
presidente del Pd finito agli arresti.
E come non bastasse, ecco
che nel ballottaggio tra pentastellati e destra (con l’exploit di Casa
Pound), l’indicazione di voto del Pd è l’astensione, la fuga,
l’abbandono del campo di battaglia.
Se Sparta piange, Atene non ride.
La
lista di Claudio Fava lotta per raggiungere il quorum del 5%,
probabilmente riuscirà ad agguantare un rappresentante nell’assemblea
siciliana. Un risultato dignitoso ma deludente, specialmente se
giudicato nel contesto di un’astensione che nessuno, nemmeno i grillini,
riescono a scalfire. Né in Sicilia, né al confine metropolitano di
Ostia dove è aumentata del 20%.
Ma è proprio lì, nella
disillusione verso questa sinistra che riconsegna il paese alla destra,
che chiunque voglia costruire un nuovo soggetto politico dovrà
misurarsi.