giovedì 2 novembre 2017

il manifesto 2.11.17
Chi può salvare l’Europa dall’ombra nera del passato che torna
Europa. Quelle strategie capaci di ribaltare la visione, arretrata e solo finanziaria, dell’attuale classe dirigente europea. Per gestire l’immigrazione come risorsa del futuro. Non più Stati e Regioni ma piccoli e grandi Comuni, uniche entità in cui la democrazia rappresentativa può essere affiancata da forme di partecipazione diretta
di Guido Viale

Assistiamo al progressivo svuotamento dell’Unione europea intesa come organismo politico di governo, sia di ciò che succede nei territori di sua competenza, sia dei rapporti con gli altri paesi con cui è in relazione. È la sua riduzione a pura entità contabile addetta a tradurre in prescrizioni le decisioni dell’alta finanza, senza alcuna capacità o volontà di condizionarne o prevenirne le scelte letali.
A VIGILARE SULLA obbedienza dell’Unione e degli Stati membri c’è la Bce che controlla la borsa: non il denaro che la grande finanza mette in circolazione e poi usa secondo convenienze alle quali anche la Bce si deve adeguare, come mostra il rimpolpamento delle casse delle banche svuotate dai loro amministratori; bensì il denaro che circola tra i cittadini e tra le imprese per mandare avanti le proprie attività, e che senza denaro vengono meno; ma che ormai sopravvivono sotto la minaccia di venir paralizzate, come in Grecia due anni fa.
L’UE, GLI UOMINI e le donne che ne occupano le istituzioni, non hanno idea di come affrontare i problemi all’ordine del giorno: quello dei profughi, sia in Europa, dove continueranno ad arrivare, che nei paesi da dove fuggono. Eppure è la questione su cui l’Unione si sta sfaldando, ricostituendo i confini tra uno Stato membro e l’altro e spingendo i rispettivi governi in direzioni opposte. E sui profughi si è creata in tutti i paesi del continente anche una faglia tra accogliere e respingere che sta facendo saltare tutti i precedenti assetti politici. Poi ci sono le guerre che l’Unione ha lasciato crescere lungo tutti i suoi confini; a volte accodandosi agli Stati uniti, a volte gestendole direttamente, a volte lasciando incancrenire la situazione, senza prendere iniziative comuni e autonome per riportarvi la pace. Con il passare del tempo, quei confini si sono allargati fino a comprendere tutti i paesi da cui provengono i profughi che ora l’Europa e il governo italiano cercano in tutti i modi di respingere.
IN TERZO LUOGO, LA LOTTA per il clima riguarda sia gli impegni che l’Unione non sta rispettando, sia la necessità di rendere di nuovo abitabili territori da cui le popolazioni fuggono in massa, alimentando anche, ma certo non solo, il flusso dei profughi che cercano di raggiungere l’Europa. Poi c’é la virata nazionalista e razzista in atto che sta trascinando tutto il continente in una corsa scomposta a chi promette di respingere di più e meglio i profughi. Infine il grand guignol della secessione catalana mette in evidenza quanto cittadini e cittadine europee siano insofferenti delle regole che Unione e Stati membri si sono date. Ma anche su di essa l’Unione è più muta e immobile di una mummia; e viaggia veloce verso la sua dissoluzione.
CI VORRÀ UN PO’ perché una burocrazia abituata a gestire come feudi le istituzioni dell’Unione e una classe politica pavida e priva di visione riconoscano di occupare niente altro che un guscio vuoto, governato non da loro, ma dal cosiddetto pilota automatico inserito da Draghi a nome e per conto dell’alta finanza. Ma prima o dopo dovranno accorgersene e suscita ilarità l’idea che a restituire carne e sangue all’Unione possa essere Macron, passione di Habermas e Scalfari, ma soprattutto marionetta e beniamino dei beneficiari dello svuotamento delle istituzioni politiche europee.
NESSUNO DEI PROBLEMI all’ordine del giorno può essere affrontato senza misurarsi con tutti gli altri. E se il bandolo della matassa è una ineludibile quanto improbabile svolta di 360 gradi nei confronti dei profughi – perché da questo dipende l’agibilità politica necessaria ad affrontare tutto il resto – occorre prendere atto che alla base di tutto c’è la politica di austerità a cui governi nazionali e istituzioni europee continuano a essere attaccati come un’ostrica al suo guscio. È questa la vera barriera che gli Stati dell’Unione hanno eretto, a partire dal 2008, contro l’arrivo di un numero di profughi mai superiore a quello dei migranti che arrivavano ogni anno nei decenni precedenti e con i quali l’Europa aveva realizzato la ricostruzione postbellica, il «miracolo economico» e la sua trasformazione in un’economia globale: ruolo che da dieci anni sta invece perdendo.
Oggi, chiuse in una visione meschina, miope, cinica e alla fine razzista, le classi dirigenti europee hanno imboccato un vicolo cieco che decreta la morte o l’imbalsamazione dell’Unione, ma segna anche il loro irriducibile tramonto.
All’orizzonte si affaccia ormai l’ombra nera di un passato che ritorna senza nemmeno essersi cambiato gran che d’abito.
A fermarla non possono essere personaggi che hanno ridotto il progetto di Ventotene a un morto che cammina, ma solo la costruzione di un movimento di massa che, partendo dall’unificazione delle tante forze disperse oggi impegnate in iniziative di accoglienza e di inclusione dei profughi, sappia farne la leva per affrontare anche gli altri problemi: con un programma di conversione ecologica per creare milioni di posti di lavoro con cui offrire a profughi e migranti le stesse opportunità di inclusione che spettano ai milioni di disoccupati e di precari che le politiche di austerità hanno disseminato negli ultimi dieci anni.
Con una riorganizzazione delle comunità straniere – profughi e migranti sia di recente che di antica immigrazione – che ne faccia i protagonisti di un programma di pacificazione dei loro paesi di origine.
QUELLO CHE LE CANCELLERIE europee hanno dimostrato di non sapere né voler perseguire; ma anche con tanti progetti di risanamento ambientale e sociale di quei territori che riapra la prospettiva di un ritorno volontario di tutti quelli che lo desiderano: innescando così un movimento circolare fondato su una vera cooperazione, non affidata alle multinazionali né ai governi corrotti e feroci tenuti in piedi dalle cancellerie europee, ma a organizzazioni di profughi, di migranti, delle loro comunità di origine. E da una grande leva di giovani europei desiderosi di sperimentarsi in un programma di riconversione ecologica che abbracci sia i propri paesi che quelli in cui mettere alla prova il proprio impegno solidale.
INFINE, CON UNA rifondazione dell’Europa, non come federazione di Stati né di Regioni che ne scimmiottino le politiche fallimentari, bensì di municipalità. Comuni piccoli riuniti e di decentramenti di Comuni grandi legati tra di loro attraverso processi negoziali e uniche entità in cui la democrazia rappresentativa, ormai alle corde, possa essere positivamente affiancata da una democrazia partecipata di prossimità. Per riterritorializzare mercati, produzioni agricole e attività industriali, relegando progressivamente euro e mercato mondiale a ruoli sussidiari; e per riportare così democrazia e politica al loro significato originario: quello di autogoverno.