il manifesto 25.11.17
Il femminismo radicale di Carla Lonzi
Teoria. L'etica dell'immediatezza e della radicalità dell'essere applicata all'esplorazione di sé come donne
di Ester de Miro
C’è
una parola che percorre un certo filone della filosofia europea, da
Kierkegaard in poi, sino ad Heidegger, ed è “autenticità”, ossia essere
se stessi, liberarsi dei ruoli imposti dalla società, andare alla radice
di un pensiero e di un comportamento che ci appartengono e ci
identificano cercando di evitare ogni sovrastruttura e ogni maschera.
L’autenticità è un’idea radicale (e un’esigenza paradossalmente sentita e
vissuta da un filosofo come Kierkegaard che pure si è sdoppiato e
moltiplicato nei vari pseudonimi con i quali ha firmato i suoi testi)
che fatalmente abbandona il piano della teoria per incrociare quello
dell’esistenza, dell’essere “qui” e “ora” di ogni individuo.
L’esistenzialismo – soprattutto attraverso le opere di Sartre, Camus, e
Simone de Bouvoir – ha segnato fortemente il pensiero degli anni ’50 ed
ha creato un clima d’interesse per una nuova etica dell’autenticità del
vissuto, divulgata persino dalla letteratura di Françoise Sagan, e in
seguito affiorata nell’Ecole du regard di Robbe-Grillet, nel teatro di
Beckett, nel cinema di Resnais e di Duras, e infine nella Nouvelle
Vague. Quest’etica dell’immediatezza e della spontaneità, della
radicalità dell’essere, aveva contagiato anche le arti visive e i nuovi
artisti, che si staccano dalla tela per cogliere il movimento nel suo
divenire, il corpo nel suo muoversi, la colata di colore nel suo cadere
sulla tela. Già nei primi anni ’50 Jackson Pollock con l’”action
painting” aveva spostato il fulcro della creazione dalla tela al “gesto”
del dipingere, e tutta l’arte contemporanea si muoveva sempre più verso
modi di essere e comportamenti. A Firenze, negli anni ‘60, una giovane
critica d’arte allieva di Longhi, dopo alcune pubblicazioni su Seurat e
Rousseau, mette in crisi il proprio ruolo di critica e decide di dare la
parola agli artisti registrando su nastro i loro interventi orali. Il
suo nome è Carla Lonzi e molto presto abbandonerà la carriera di
critica, “contestando”, come si diceva allora, il suo professore e il
ruolo della critica d’arte in generale per dedicarsi, oltre che alla
voce degli artisti, all’esplorazione di sé, del suo statuto di donna,
del suo posto nel mondo, all’autenticità dei suoi impulsi e dei suoi
desideri attraverso il dialogo con altre donne e la costituzione di un
gruppo all’interno del quale fosse possibile costruire ex novo la
propria identità e guardare con “occhi di donna” il mondo circostante e
il proprio universo interiore. Carla Lonzi si era formata attraverso
anni che aveva scelto di trascorrere in un collegio religioso ed anni di
militanza nel Partito Comunista, elementi che forse avevano contribuito
a conferire al suo linguaggio una serietà, un’austerità, una logica
stringente, che lasciavano poco spazio a cedimenti “femminili” o ad
indulgenze nei confronti del mondo maschile, e, soprattutto,
contrastavano con la cosiddetta “liberazione sessuale” nata negli Stati
Uniti e giunta in Italia soprattutto attraverso Marcuse e gli scrittori
della Beat Generation. Rileggere oggi Memorie di una Beatnik di Diane di
Prima può dare un’idea – sebbene la stessa autrice confessi di aver
“calcato la mano”, spinta dagli editori – della liberalizzazione dei
costumi alla fine degli anni ’60 in America, tra spinelli e Figli dei
fiori. Sebbene non tutte le ragazze si ritrovassero nel rigore e
nell’intransigenza delle formulazioni di Carla Lonzi, che con Carla
Accardi ed Elvira Banotti aveva fondato Rivolta Femminile, i piccoli
libretti verdi stampati dalla Casa Editrice che aveva lo stesso nome,
cominciarono a circolare e a destare interesse anche per i loro titoli
esplosivi, venuti dopo il Manifesto di Rivolta femminile: Sputiamo su
Hegel nel 1970, seguito l’anno successivo da La donna clitoridea e la
donna vaginale, entrambi frutto delle riunioni di autocoscienza condotte
settimanalmente dal gruppo milanese formatosi intorno a Carla Lonzi.
Mentre in molte città erano nati gruppi femministi che organizzavano
manifestazioni, si battevano per la libertà di abortire ed esibivano in
pubblico la loro protesta colorata fatta di zoccoli, seni al vento e
gonnellone zingaresche, dando vita all’aspetto più folcloristico e
superficiale del femminismo, nelle stesse città si formavano i piccoli
gruppi di Rivolta Femminile, in cui ognuna raccontava al registratore –
in una confessione immediata, come Carla Lonzi aveva già fatto con gli
artisti – il proprio vissuto e i problemi legati alla quotidianità, con
una particolare attenzione ai rapporti con gli uomini e alla sessualità.
E, come sta avvenendo oggi con le “confessioni” legate alle rivelazioni
di Asia Argento, le reazioni del gruppo oscillavano tra la solidarietà e
la disapprovazione, riunioni “difficili” quindi, anche perché
assomigliavano in parte a sedute di analisi, ma senza l’analista e non
strettamente private. Le pubblicazioni di Carla contenevano affermazioni
molto scarne ed incisive sulla società e sulla stessa cultura, che
risultavano effettivamente programmate e decise da una volontà maschile
quasi mai contraddetta o contestata radicalmente, che aveva preso nel
corso della Storia decisioni ed iniziative senza mai tener conto di una
metà del genere umano di gran lunga maggioritaria: le donne. Il suo
linguaggio, scarno e assolutamente piano, senza enfasi, più che il tono
della rivendicazione, ha quello della constatazione, che, diversamente
da ciò che si potrebbe pensare, non apre ad alcuna obiezione o
discussione e si pone con la mitezza – e l’autorità – dell’osservazione,
con la definitività dell’evidenza. Di qui a mio avviso la radicalità
del suo femminismo, che rivendica l’orgoglio della differenza contro
l’illusione dell’uguaglianza e radica nell’anatomia femminile – la
clitoride come via regia all’orgasmo – l’autonomia di una sessualità
svincolata dalle richieste maschili e dal fine generativo, considerato
illegittimo. Oltre alle molte verità che i testi poco frequentati di
Carla Lonzi ci hanno lasciato c’è da considerare la pazienza, la
precisione e la costanza con cui ha trascritto ciò che in molti anni è
stato prodotto da un particolare vissuto delle donne e dalla loro
parola. Maria Luisa Boccia, che a Carla Lonzi ha dedicato un libro ampio
ed esaustivo, L’io in rivolta, parla di uno “sguardo spietato” generato
in lei dalla lettura del testo di Carla Lonzi Vai pure, indirizzato
come commiato a Pietro Consagra, il grande artista a cui la Lonzi era
stata legata per molti anni. Ecco, credo che questa sana, spartana
spietatezza sia quel coltello che alle donne è necessario quando
malintesi, convenzioni e falsi sentimenti le legano a situazioni
invivibili distruggendone l’io e l’autenticità.