il manifesto 19.11.17
L’identità nuova con un microchip
Neurotecnologie.
A che punto è la ricerca sull'interfaccia «cervello-computer». Un
tempo, le onde cerebrali riguardavano solo psichiatri e neurologi, oggi
fanno gola a molti e si concentrano su di loro diversi interessi, non
ultimi quelli commerciali
di Andrea Capocci
Salito
sull’automobile, Rodrigo Mendes non trovò né i pedali né il volante.
L’auto iniziò a muoversi e imboccò la strada. Rodrigo non aveva mai
guidato in vita sua, ma la macchina seguì gli ordini che lui impartiva
col pensiero. Non è l’incipit di romanzo di fantascienza sudamericano,
ma la fedele cronaca dell’impresa del quarantatreenne Rodrigo Mendes,
paraplegico da quando, nel 1992, prese una pallottola alla nuca durante
il furto di un’auto a San Paolo del Brasile. Mendes, che oggi dirige un
istituto dedicato alla riabilitazione e all’inserimento sociale delle
persone con disabilità di vario tipo, nello scorso aprile ha guidato
un’auto da corsa grazie a una speciale apparecchiatura in grado di
«leggere» le onde cerebrali e tradurle in istruzioni eseguite da altre
macchine, come «gira a destra», «rallenta» o «accelera».
TECNOLOGIE
DI QUESTO TIPO si chiamano «interfacce cervello-computer» o
«neurotecnologie» e sono uscite ormai dalla fase sperimentale,
diventando prodotti commerciali disponibili sul mercato. È un’ottima
notizia per chi soffre di malattie che limitano le facoltà motorie. Ma
le stesse tecnologie sono destinate anche ad altri usi. L’agenzia
statunitense dedicata alla ricerca in campo militare, discute da tempo
della possibilità di fornire ai propri soldati un’armatura di sensori e
microchip in grado di integrare le naturali facoltà umane con flussi di
dati addizionali e intelligenza artificiale.
Nel mezzo, le
neurotecnologie si prestano a un’infinità di applicazioni commerciali,
apparentemente più banali di una malattia paralizzante o di un conflitto
ma non meno invasive. Per trecento euro, si può già acquistare online
un paio di cuffie che trasforma le onde cerebrali in comandi diretti ad
altri dispositivi. Sui «big data» dell’attività cerebrale, che un tempo
interessavano solo neurologi e psichiatri, oggi si concentrano molti
interessi diversi. Conoscere il livello di attenzione durante la
fruizione di particolari contenuti (un video, una canzone, un
videogioco) renderebbe felice qualunque pubblicitario, ad esempio.
Inoltre,
sta crescendo la capacità degli scienziati di influenzare l’attività
cerebrale, oltre che di registrarla e analizzarla. Attraverso la
genetica, i neuroscienziati sono già riusciti a indurre nei topi ricordi
artificiali, riferiti a esperienze che l’animale non ha mai vissuto. In
questo modo, è possibile influenzarne il comportamento agendo sui
singoli neuroni. L’applicazione di queste tecnologie sull’uomo è ancora
lontana, ma il settore delle neurotecnologie attira già grandi
investimenti economici, soprattutto negli Usa. A livello federale, la
Brain Initiative (un programma decennale di ricerche neuroscientifiche
lanciato dall’amministrazione Obama) ha già investito 500 milioni di
euro per lo sviluppo delle neurotecnologie.
NON MANCANO POI gli
investimenti privati, a caccia un mercato che potrebbe raggiungere i
dodici miliardi di dollari nel 2020 per i soli dispositivi secondo il
sito Neurotech Reports. Nell’ultima «F8», la conferenza annuale dedicata
ai progetti innovativi di Facebook, molto si è parlato di intelligenza
artificiale, realtà aumentata e dell’intenzione dell’azienda di
permettere ai suoi utenti di comunicare trasmettendosi messaggi
direttamente da cervello a cervello, senza il fastidioso tramite di
tastiere, smartphone e videocamere (per non parlare della farraginosa
usanza di incontrarsi di persona).
Non poteva mancare il
contributo di Elon Musk (fondatore di Tesla, PayPal, SpaceX e altre
imprese che producono più brevetti che utili) che ha aggiunto alla sua
collezione di startup la Neuralink, dedicata alla cura di neuropatologie
e all’«espansione dell’intelligenza». Gli investimenti privati in
ricerca e sviluppo nel settore sono stimati attualmente intorno ai 100
milioni l’anno, in forte crescita.
GLI STESSI RICERCATORI si
rendono conto della delicatezza del tema, sebbene le neurotecnologie
muovano solo i primi passi. Lo dimostra un documento stilato da 27
esperti attivi a vario titolo nel campo e pubblicato nel numero di metà
novembre della rivista Nature con il titolo «Four ethical priorities for
neurotechnologies and AI» (Quattro priorità etiche per le
neurotecnologie e l’intelligenza artificiale). Il gruppo, battezzato
«The Morningside Group», è composto da neuroscienziati, informatici,
medici da quattro continenti, di estrazione accademica ma anche
industriale, come dimostra la firma di Blaise Aguera y Arcas, direttore
della divisione Intelligenza artificiale di Google. A coordinare la
collaborazione, il biologo Rafael Yuste della Columbia University (New
York) e la filosofa Sara Goering dell’università di Seattle.
I
firmatari propongono che anche per le neurotecnologie sia la comunità
scientifica ad auto-limitarsi, stabilendo quali sono le direzioni che
ricerche e innovazioni dovranno evitare. La stessa cosa è avvenuta negli
ultimi mesi in altri campi bioeticamente sensibili, come l’intelligenza
artificiale o le modifiche genetiche.
LA PRIMA AREA su cui
intervenire riguarda la privacy degli utenti delle neurotecnologie:
andrà garantito loro il diritto di controllare l’uso dei loro dati. I
ricercatori consigliano di affidarsi a algoritmi di verifica
generalizzati difficilmente manipolabili, come quelli che regolano il
mercato delle criptovalute come il Bitcoin e che ora interessano anche
banche centrali e governi.
Un altro aspetto delicato riguarda
l’identità individuale: le neurotecnologie possono modificare sia la
percezione soggettiva che quella oggettiva della propria identità. Ad
esempio, i pazienti che si sottopongono alla stimolazione cerebrale
profonda (l’invio di deboli segnali elettrici per mezzo di elettrodi
posti nel cervello, una tecnica utilizzata nella cura della depressione)
faticano a riconoscere come propri i comportamenti assunti dopo la
terapia. Se l’individuo, grazie al pensiero, può effettuare azioni anche
in luoghi distanti da sé con l’aiuto delle macchine, diventa difficile
stabilire chiaramente i confini del corpo e dell’identità.
Altra
questione aperta: le potenziali discriminazioni tra persone che sono
neuro-tecnologicamente «aumentate» e le altre. Oppure, tra utenti delle
stesse tecnologie appartenenenti a gruppi sociali diversi. Una ricerca
di un paio di anni fa dei ricercatori della Carnegie Mellon University,
ad esempio, ha dimostrato una donna che si affida al web per cercare un
lavoro accede preferibilmente a offerte economicamente meno vantaggiose
di quelle disponibili per gli uomini. Questa, evidentemente, è la
strategia ottimale suggerita dagli algoritmi che classificano gli utenti
sulla base del genere. Nel campo delle neurotecnologie, tali
metodologie dovrebbero essere bandite.
SE LA LETTURA del documento
è assai utile, in quanto individua dei nodi reali dello sviluppo
tecnologico prossimo venturo, sul suo impatto c’è qualche dubbio. Nelle
buone intenzioni dei promotori, le linee guida dovrebbero aggiungersi
alla Dichiarazione universale dei diritti umani – obiettivo ambizioso.
Se gli appelli e le dichiarazioni negli ultimi anni si sono
moltiplicati, la loro capacità di controbilanciare gli interessi
economici in campo sembra assai ridotta. L’uso dei nostri dati
personali, in pasto all’intelligenza artificiale di colossi come Google e
Facebook, è già fuori controllo. La partecipazione di Google al
Morningside Group vorrebbe rassicurarci sulla responsabilità sociale
delle imprese. Invece ne mina la credibilità, facendo assomigliare
l’appello a una campagna mirata a proteggere il brand.