il manifesto 15.11.17
Gramsci e le sue letture intorno al 1917 russo
Un incontro a Bari in cui ci sarà un confronto sulle categorie politiche sue e di Lenin
di Guido Liguori
Nel gennaio 1917 un militante socialista sardo trapiantato a Torino, che si guadagnava da vivere scrivendo sulla stampa di partito e cercava di capire come uno scatto di soggettività rivoluzionaria avrebbe potuto infrangere le tranquille certezze dei marxisti riformisti intrisi di positivismo e quieto vivere, scriveva di odiare «gli indifferenti», coloro che non si impegnavano, non prendevano parte, che accettavano il mondo così come era.
POCHE SETTIMANE DOPO, quel giovane di 26 anni, Antonio Gramsci, si entusiasmò come molti in Europa per le prime notizie che giungevano da Pietrogrado, dove gli operai, le donne (tutto ebbe inizio nella giornata di lotta dell’8 marzo, che per il calendario russo corrispondeva al 24 febbraio), i contadini intruppati e armati come soldati per andare a morire al fronte, in quella guerra senza precedenti per durata e sofferenze, si erano ribellati e avevano deposto lo zar, anche se per il momento non erano riusciti a fermare la guerra.
GRAMSCI AVREBBE seguito nei mesi successivi i fatti di Russia con passione e intelligenza, avrebbe gradatamente imparato a distinguere le forze in campo, e capito pian piano che i bolscevichi erano gli unici non solo a volere la pace, ma anche una vera rivoluzione socialista: la messa in discussione degli assetti proprietari e l’autogoverno dei produttori mediante i Soviet. Con i bolscevichi per Gramsci era la volontà collettiva che aveva trionfato: erano gli essere umani associati che dimostravano di aver compreso «i fatti economici e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva». Una lezione che, trasferita all’oggi, risulta fortemente antiliberista, poiché ci dice come le «oggettive leggi del mercato» non vadano subite, accettate, ritenute immutabile, ma possano essere cambiate, se le donne e gli uomini associati lo vogliono.
CENTO ANNI sono passati dalla Rivoluzione russa, anzi dalle due rivoluzioni russe del 1917 (di febbraio e di ottobre), e ottanta dalla morte di Antonio Gramsci, nel 1937: era quasi inevitabile che dall’incrocio di questa duplice ricorrenza nascessero antologie, articoli, convegni. Il più rilevante tra quelli previsti in Italia avrà luogo presso il Palaposte dell’Università di Bari il 16, 17 e 18 novembre, un incontro internazionale su Gramsci, la guerra e la rivoluzione. Tra oriente e occidente, realizzato dalla International Gramsci Society Italia, dalla Fondazione Gramsci di Puglia, dal Centro interuniversitario di ricerca per gli studi gramsciani e dalla Fondazione Gramsci di Roma, con la collaborazione del Dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Bari.
LO SCOPO non è solo quello di ricordare i fatti storici di quell’«indimenticabile 1917» o ricostruire la lettura che Gramsci ne diede. Il convegno si propone anche di esaminare le categorie gramsciane più importanti e misurarne l’utilità per il presente. Mettendo anche a fuoco come le categorie politiche fondamentali da cui era partito Lenin, «Stato» e «rivoluzione», cambiarono negli anni della maturità dell’autore dei Quaderni del carcere, proprio a partire da Lenin e dalla comprensione della irrepetibilità dell’Ottobre nei paesi a capitalismo maturo.
Per quest’opera di analisi storica, teorica e politica, saranno presenti in gran numero studiosi e studiose di tutto il mondo e di tutte le generazioni. Tra gli altri Donald Sassoon, Giovanna Cigliano, Giuseppe Vacca, Francesco Biscione, Silvio Suppa e Francesco Fistetti nella giornata d’apertura dedicata a «Guerra e rivoluzione», e Fabio Frosini, Lea Durante, Pasquale Voza, Eleonora Forenza e Massimo Modonesi nel secondo giorno di lavori, su «Un nuovo concetto di rivoluzione».
COMPLETERANNO I LAVORI, oltre agli altri interventi previsti (tanti i giovani studiosi e studiose impegnate su Gramsci), una pattuglia di esperte ed esperti dei paesi che una volta definivamo dell’Est (nella fattispecie Russia, Romania e Ungheria) che racconteranno come sono cambiate nel tempo, e negli ultimi anni, la percezione e la conoscenza di Gramsci nelle rispettive culture.
Infine uno spazio sarà dedicato alle scuole superiori, attivamente presenti al convegno, con un’intera sessione di lavoro (sabato mattina) dedicata all’incontro fra studenti, docenti e studiosi.
il manifesto 15.11.17
Lili Brik, tra Majakovskij poesia e rivoluzione
In occasione del centenario della Rivoluzione d’ottobre Bordeaux riedita l’incontro di Benedetti con la «musa». Lucetta Negarville scrive un’accurata prefazione a questa intervista datata 1977
di Claudia Scandura
«Intronando l’universo con la possanza della mia voce / cammino – bello, / ventiduenne». Così scriveva Vladimir Majakovskij nel 1915, l’anno dell’incontro con Lilja Brik, il grande amore della sua vita. La conosce nel mese di luglio, insieme al marito Osip Brik, «una data felicissima», annota nella sua autobiografia e a lei dedicherà poemi (La nuvola in calzoni, Di questo, Il flauto di vertebre), poesie (Lilicka, Di tutto), lettere d’amore, disegni.
«La musa dell’avanguardia russa» concesse nel 1977 una lunga intervista al giornalista Carlo Benedetti, per molti anni corrispondente dell’Unità da Mosca. Pubblicata l’anno successivo, quasi in concomitanza con il suicidio di Lili Brik, nella collana «Interventi» degli Editori Riuniti, l’intervista viene ora ripubblicata in occasione del centenario della Rivoluzione di Ottobre (Lili Brik. Con Majakovskij. Intervista di Carlo Benedetti, prefazione di Lucetta Negarville, edizioni Bordeaux). Un’operazione meritevole perché ripropone in tutta la sua concretezza il non facile rapporto fra poesia e rivoluzione, fra quest’ultima e gli intellettuali.
UN TRAVAGLIATO rapporto che sul piano personale culminò in una serie di suicidi, fra cui anche quello di Majakovskij stesso, nel 1930. Il pregio del libro consiste non solo nel ricreare con notevole precisione l’ambiente storico letterario in cui si dispiegò la vulcanica attività del poeta rivoluzionario ma soprattutto nel seguirne l’intensa attività di «ricerche formali» da La nuvola in calzoni a Flauto di vertebre a Di questo nella poesia, a Incatenata dal film e La signorina e il teppista (tratto dal racconto di Edmondo De Amicis La maestrina degli operai) nella cinematografia, fino a La cimice e Mistero buffo nel teatro.
Sorella di Elsa Triolet che, emigrata in Francia, divenne scrittrice, vinse un premio Goncourt e sposò Louis Aragon, l’affascinante Lili Brik intrecciò il suo destino con quello di molti rappresentanti dell’arte e della letteratura del 900, i poeti Majakovskij e Chlebnikov, i critici letterari Viktor Šklovskij e Roman Jakobson, la ballerína Maja Pliseckaja, il pittore Fernand Léger, tutti assidui frequentatori della sua casa moscovita.
ALTRETTANTO INTENSA fu la vita sentimentale di questa «femme fatale» che, al primo marito, il critico formalista Osip Brik, cui fu sempre legatissima e con cui condusse insieme a Majakovskij un curioso «ménage à trois», aggiunse l’ufficiale Vitalij Primakov e il biografo di Majakovskij, Vasilij Katanjan, suo compagno fino alla fine dei suoi giorni.
Nell’intervista concessa a Benedetti, Lili Brik riconferma certe simpatie già note di Majakovskij per poeti come Nekrasov e Blok e segnala «una comunanza di sentimenti« che può sembrare stupefacente fra il poeta della rivoluzione e Dostoevskij, bollato dalla critica sovietica come «arcaico e reazionario».
Nella conversazione con il giornalista vengono evocati molti momenti drammatici e umani che toccano relazioni pubbliche e private, anzi spesso il pubblico diventa privato e viceversa. Mentre risulta particolarmente illuminante per quel che riguarda i rapporti di Majakovskij con gli esponenti dell’avanguardia russa, l’intervista appare assai contraddittoria nell’ultima parte, quando tratta i motivi del suicidio del poeta che, secondo Brik, sarebbero quasi esclusivamente di natura personale e privata: «Volodja (V. M.) non faceva che parlare di suicidio. Era un’ossessione (…). Lui ripeteva, testardo di non voler conoscere la sua e la mia vecchiaia».
Una versione questa che non tiene conto dei numerosi interventi censori di cui fu oggetto il poeta negli ultimi anni della sua vita con un crescendo spaventoso da parte di burocrati ottusi, come peraltro viene raccontato.
LILI BRIK ha attraversato il Novecento portando con sé le sue contraddizioni. Nel periodo della perestrojka, all’apertura degli archivi in Russia, si avrà infatti la conferma delle voci che giravano già negli anni 20 di una possibile vicinanza dei coniugi Brik alla polizia politica e ci si renderà conto che, come scrisse Majakovskij a proposito del suicidio del poeta Sergej Esenin nel 1925, «in questa vita non è difficile morire. / Vivere è di gran lunga più difficile».
Corriere 15.11.17
Partner violento per 1 donna su 3 Allarme anche tra le bambine
Una donna su tre è aggredita dal partner e, nei casi più gravi, più dei due terzi accusano sintomi di stress da disordine post-traumatico a tre mesi dalla violenza. Hanno tra i 15 e i 49 anni, più di un terzo sono straniere. È quello che emerge dai dati di un progetto coordinato dall’Istituto superiore di sanità. Allarme anche per le bambine: per il 17,9% di quelle fino ai 14 anni, la causa di accesso al pronto soccorso per violenza è un’aggressione sessuale. Le conseguenze della violenza sono vaste: dal femminicidio all’aborto. Poi effetti invalidanti dovuti a percosse, ustioni, avvelenamenti. E ancora: depressione, abuso di sostanze e comportamenti autolesivi, tentativi di suicidio, disturbi alimentari, sessuali. Oltre il 35% dei casi delle vittime in eta fertile è dovuto ad aggressione da parte del coniuge o partner sentimentale. In quasi l’85% dei casi la violenza è compiuta da conoscenti. A tre mesi dalla dimissione ospedaliera il 67,5% delle vittime soffre di stress da disordine post-traumatico. Come quello delle vittime di grandi disastri, compresi gli attentati terroristici.
Repubblica 15.11.17
Il saggio di Massimo Recalcati svela le nuove forme di un rituale antico: dalla jihad alla finanza globale
Così spezzeremo le false catene del sacrificio
Contro il sacrificio di Massimo Recalcati (Raffaello Cortina, pagg. 140, euro 12). Da domani in libreria
di Roberto Esposito
Il rilievo determinante del sacrificio nella storia umana è stato riconosciuto dall’intera tradizione antropologica, religiosa, filosofica. Sigmund Freud e Norbert Elias, Elias Canetti e René Girard, Marcel Mauss e Georges Bataille, pur da angolature diverse, hanno collocato la logica sacrificale alla base della civilizzazione umana. Il sacrificio è la porta stretta,
la soglia simbolica, che gli uomini hanno dovuto varcare per distaccarsi dal comportamento animale — di per sé estraneo alla dinamica sacrificale perché del tutto aderente alla dimensione naturale. Diversamente dall’animale, per il quale il desiderio non si distingue dal bisogno, l’uomo sperimenta il limite e la mancanza, conosce la potenza della lacerazione, sa tenere a freno le proprie pulsioni. Tagliata dal negativo, la sua vita resta così inscritta nel cerchio del sacrificio.
Ma quale sacrificio? E sacrificio di cosa? Che vuol dire sacrificare? A rispondere a queste domande decisive, con l’intensità di un’intelligenza libera da pregiudizi di scuola, è adesso Massimo Recalcati nel suo ultimo libro Contro il sacrificio. Al di là del fantasma sacrificale, edito da Cortina. Evitando ogni riduzionismo, egli penetra nella scatola nera dell’economia sacrificale, distinguendo due tipi di sacrificio — uno simbolico e l’altro fantasmatico. Mentre il primo, implicito nel linguaggio umano, è in grado di potenziare la nostra esperienza, perché la ritaglia secondo profili e scelte personali, il secondo comprime la vita fino a soffocarla. Ne prosciuga la linfa e appiattisce lo spessore, assoggettandola a qualcosa — un’alterità tirannica — che impone il proprio dominio incondizionato. Come il cammello di cui parla Nietzsche in Così parlò Zarathustra, l’uomo si sottomette all’idolo che egli stesso ha creato, secondo una dinamica perfettamente spiegata da Étienne de La Boétie ne suo trattato sulla servitù volontaria. E non distante da quella analizzata da Reich nei suoi studi sul desiderio di fascismo da parte delle masse ipnotizzate dal potere.
È una sindrome tutt’altro che superata, ai cui estremi vi è da un lato l’abietto sacrificio omicida e suicida del terrorismo jihadista; dall’altro l’economia finanziaria che funziona accumulando debito nei confronti di creditori sempre più anonimi. Naturalmente un abisso separa queste due modalità del paradigma sacrificale contemporaneo. Ma a unirle, nella distanza, è il medesimo presupposto teologico-politico che solo un sacrificio senza fine possa liberare l’uomo da una colpa che lo marchierebbe fin dall’origine. Ecco perché, persino oggi, quando non si sacrificano più vite umane, e neanche animali, sugli altari, il sacrificio continua a permeare sordamente la nostra esistenza. Non solo quando la consegniamo, nuda, all’ineluttabilità di una Legge che non perdona. Ma anche quando cerchiamo nella trasgressione di questa, a favore del puro godimento, la via della liberazione. Anche il godimento senza limiti parla, per contrasto, il linguaggio della Legge — sostituendo il dovere di godere a quello di soffrire. Come ha sostenuto in un celebre seminario Lacan, la carne offerta alla violenza del godimento di Sade è perfettamente speculare al corpo mortificato dall’imperativo ascetico di Kant.
In ognuno dei casi la Legge è presupposta — o per ubbidirle ciecamente o per rovesciarla nel suo apparente contrario. Nella dinamica psicotica, d’altra parte, il masochista ha bisogno del sadico e viceversa. Anche chi rivolge verso se stesso il sacrificio della vita imposto agli altri — come il terrorista suicida — risponde a un’economia sacrificale che immagina di guadagnare un premio superiore a ciò che perde. In quel caso il sacrificio diventa non lo strumento per raggiungere il fine agognato, ma l’oggetto finale della pulsione.
A questo dispositivo capillare e implacabile, capace di ruotare su se stesso mostrando sempre nuovi volti, Recalcati oppone una diversa concezione del sacrificio. Essa non passa per la sua rimozione — il negativo è ineliminabile dalla vita umana perché costitutivo di essa — ma per la sua disattivazione. Alla sua fonte, oltre e dentro la pratica analitica, vi è una diversa interpretazione del cristianesimo, orientata dai testi di Kierkegaard e Bultmann, capace di ripensare anche l’enigma sublime della Croce. C’è, nel saggio di Recalcati, qualcosa che va anche aldilà della narrazione, già innovativa, di René Girard. Non solo Cristo, assumendolo su di sé, pone termine alla storia violenta del sacrificio vittimario. Ma si pone all’esterno della semantica sacrificale.
Accogliendo la versione di Luca, che esclude il termine “sacrificio” dall’offerta di sé di Gesù agli uomini — «questo è il mio corpo che è dato per voi», si comprende il significato più pregnante della formulazione rivoluzionaria di Paolo, secondo cui Cristo ci ha liberato dalla maledizione della Legge. Non rinnegandola, ma assumendola nel suo significato affermativo, vitale, generativo. Anziché contrapposta al desiderio, la Legge — l’unica che non è imposta dall’esterno perché espressiva del nostro linguaggio — coincide in ultima analisi con esso. È legge del desiderio. Quella, diceva Lacan, su cui non dobbiamo cedere. Solo essa è degna di un’esistenza libera di esistere. Come scriveva Jean-Luc Nancy in un passo scelto a esergo del libro, «la verità dell’esistenza è di essere insacrificabile. L’esistenza non è da sacrificare, e non la si può sacrificare. La si può solamente distruggere, o condividere».
Repubblica 15.11.17
L’enigma primordiale che incanta gli studiosi
La storia della civiltà incomincia grazie al dono di Prometeo
di Marco Belpoliti
La legna tagliata e accatastata a fine estate ora arde nella stufa. L’inverno non è ancora arrivato, tuttavia abbiamo già acceso il fuoco. Ogni volta che getto un pezzo di legno nella stufa penso a cosa deve essere stata la vita dell’umanità prima. Prima che il fuoco diventasse una fonte di calore, d’illuminazione e strumento di nutrimento. Secondo Catherine Perlès, autrice di “Preistoria
del fuoco” (Einaudi), già all’epoca della glaciazione di Mindel, 450mila anni fa, alcuni uomini mantenevano il fuoco nelle loro abitazioni. Come se l’erano procurato? Oggi è facile, basta comprare i fiammiferi in una qualsiasi tabaccheria (anche se non tutte vendono più i cosiddetti “svedesi”). Ma come hanno fatto i nostri progenitori a ottenerlo? Veniva ricavato da fonti naturali o era prodotto artificialmente? Tre sarebbero state le fasi dell’ancestrale rapporto dell’uomo col fuoco: in un primo tempo gli uomini non sarebbero stati capaci di padroneggiare quello provocato da fulmini, e ne avevano gran paura; poi hanno imparato a raccoglierlo e ad alimentarlo, senza però riuscire a produrlo; nella terza fase, infine, 400mila anni fa, sono stati in grado di far scaturire il fuoco ogni volta che serviva loro.
Senza il fuoco non saremmo sopravvissuti, e non avremmo avuto la ceramica, la prima arte secondo Lévi-Strauss, e neppure la fusione dei metalli. In breve: niente civiltà. Siamo figli del fuoco, come ci ha spiegato in modo poetico e filosofico, Gaston Bachelard nella sua Poetica del fuoco.
L’uomo si differenzia dagli animali solo il giorno in cui diventa padrone del fuoco; lo fa, come ci rammenta il mito di Prometeo, a spese degli dèi, poiché il fuoco è di natura divina (James G. Frazer, Miti sull’origine del fuoco,
Xenia). Se anche noi siamo divini, lo dobbiamo perciò al fuoco. Tuttavia la cosa più interessante che ci spiegano i paleontologi è che la scoperta e l’utilizzo del fuoco presuppone non un progresso tecnico, bensì psichico. L’Australopiteco possedeva già i mezzi necessari per usare il fuoco (fuochi spontanei, conservazione e produzione), però non sembra avesse, scrive Perlès, la struttura mentale per sfruttarli. Questo scarto si crea nella percezione del rapporto tra percussione o confricazione e produzione del fuoco. Lo scatto è avvenuto lì, nella testa dei nostri progenitori; poi la questione diventa puramente tecnica. Spesso ci dimentichiamo che le scoperte umane sono prima di tutto l’effetto di un progresso psichico e solo dopo di un fatto tecnico, il computer come il fuoco. Su come l’hanno prodotto i nostri antenati ci viene in soccorso un libro curioso: Fire. L’arte delle fiamme (Piemme) di Daniel Hume. Hume è un esperto di sopravvivenza in zone selvagge, uno di quei curiosi personaggi che cercano di ripercorrere il cammino dell’umanità reinventando i metodi perduti per cui siamo quello che siamo. Appassionato del fuoco da ragazzo, come racconta, è stato in giro per il mondo, dall’Africa all’Asia e all’Oceania, per scoprire come le tribù sopravvissute nelle foreste di quei tre continenti si procurano ancora oggi il fuoco. Mentre sto scrivendo giro le spalle alla stufa dove brucia un ciocco di legna che i miei vicini hanno tagliato e io ho stoccato sotto il portico nel mese di settembre. Ho da poco finito di leggere il libro di Hume, seguito naturale del libro di Lars Mytting,
Norwegian Wood (Utet). Mentre il libro di Mytting era un libro centripeto, fondato sulle pratiche di taglio e accatastamento della legna, questo di Hume è invece centrifugo: ci porta in giro per il mondo all’inseguimento dei sei metodi fondamentali attraverso cui l’umanità è stata in grado di produrre fiamme quando e dove voleva. Anche se non si è stati scout, tutti conoscono il metodo del piolo a mano, e quello del trapano ad archetto, sua variante: frizionare un legno su un altro legno, possibilmente asciutto, e avere un’esca di paglia o foglie per raccogliere il fuoco.
C’è uno strano connubio di ontogenesi e di filogenesi nel percorrere con Hunt, narratore vivace ed entusiasta, i metodi dei cosiddetti “primitivi”, metodi che ci riportano all’infanzia dell’umanità, ma anche alla nostra (o mia), quando accendere il fuoco era un bisogno insopprimibile: non si diventava adulti senza aver fatto questa prova, fosse anche con la lente e il sole (settimo metodo, non antico però). Siamo tutti degli incendiari, potenziali discepoli di Erostrato: è il complesso del fuoco di Bachelard.
Gli altri metodi sono: quello dell’aratro, sempre usando legno; della sega, simile; della cinghia, sua variante; e quello del pistone pneumatico, il più curioso. La base di tutto è strofinare, frizionare e agitare un legno con un altro legno, salvo il caso di accendere il fuoco con le scintille provocate dal percuotere una pietra con un’altra (ottavo metodo). Hume è un tipo pratico e va al sodo. Non si pone il problema di cosa sia per noi il fuoco. Forse non ha neppure letto il libro della Perlès, o l’altro bel volume di Johan Goudsblom, Fuoco e civiltà (Donzelli editore); e neppure si pone la questione che ha coinvolto Richard Wrangham, docente di Antropologia biologica a Harvard, in L’intelligenza del fuoco (Bollati Boringhieri). Questi ha dimostrato come la cottura del cibo abbia modificato l’umanità nel corso di migliaia di anni, problema che neppure Darwin aveva esaminato. Wrangham ha concluso che noi, Homo Sapiens, siamo sopravvissuti perché abbiamo cominciato a cuocere il cibo.
Eppure un fascino un po’ selvaggio (e ingenuo) il libro dell’esperto di sopravvivenza Hume ce l’ha. Adesso che l’ho letto, in caso d’improvviso collasso della civiltà, so come accendere un fuoco. Naturalmente spero di non dovermi mai trovare nelle condizioni del protagonista de La strada di Cormac McCarthy. Mai dire mai.
il manifesto 15.11.17
Aste di schiavi a Tripoli, le prove in un video-scoop della Cnn
Vendiamo umani. La giornalista afro-americana commenta: «Mancano solo le catene»
di r. g.
«Mancano solo le catene», commenta la giornalista afro-americana della Cnn che ha messo a segno uno scoop internazionale sul ritorno del mercato degli schiavi in Libia secondo metodi che sembrano ricalcati dal film Django Unchained senza però la fine catartica di Tarantino.
Il video, evidentemente girato con un cellulare e acquistato dalla giornalista, mostra i volti sgomenti dei due ragazzi nigerini venduti all’asta e reclamizzati come esemplari forti, adatti a lavori pesanti come quelli agricoli. Immagini riprese in una notte dell’agosto scorso, sulla base delle quali la giornalista della Cnn ha poi cercato conferme e girato interviste nel centro per migranti Treeq Alsika di Tripoli gestito dalle autorità ufficiali di Tripoli.
È riuscita anche a filmare da lontano un’altra asta di carne umana viva, sempre alla periferia della capitale libica. Un mercanteggiamento veloce, sempre di notte, dentro un compound illuminato e presidiato da un guardiano in tuta mimetica di cui non è stata inquadrata la faccia.
La reporter ha anche intervistato un supervisore del centro di detenzione, il quale conferma di aver sentito dire dell’esistenza di queste aste di schiavi ma di non averne mai vista nessuna. «I contrabbandieri di esseri umani – racconta lei – dopo la chiusura della rotta marittima ad opera della Guardia costiera libica sono rimasti in arretrato rispetto ai passaggi e così diventano i padroni dei migranti, che vendono come schiavi». Lei e i suoi collaboratori hanno quindi consegnato alle autorità di Tripoli tutta la documentazione raccolta, prima di pubblicarla con il titolo «People for sale», ricevendo in cambio la promessa di avviare un’indagine.
In base alle testimonianze raccolte nel centro di detenzione di Tripoli, dove si vedono centinaia di giovani africani accatastati gli uni sugli altri in uno stanzone o in specie di gabbie «senza cibo né acqua», le compravendite di uomini non sono una novità, vanno avanti da tempo. Così come le torture e le richieste di riscatto alle famiglie d’origine. Alle ong dei soccorsi i migranti dicono che avvengono anche dentro i centri.
il manifesto 15.11.17
Vergogna Italia, l’accordo sui migranti con la Libia «è disumano»
L'Onu accusa l'Europa. L’Alto commissario delle Nazioni Unite attacca la politica Ue e il piano Minniti: «La sofferenza nei campi di detenzione è un oltraggio alla coscienza dell’umanità»
di Adriana Pollice
La collaborazione tra Ue e Libia per fermare il flusso di migranti è «disumana». Così l’ha bollata ieri in una nota l’Alto commissario Onu per i diritti umani, il principe giordano Zeid Raad al-Hussein, che ha poi aggiunto: «La politica dell’Unione europea di sostegno alla Guardia costiera libica perché intercetti i migranti e li consegni alle terrificanti prigioni in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità. Il sistema di detenzione per migranti è irrecuperabile: una situazione già disperata è diventata catastrofica». L’accusa si fa più esplicita quando Zeid Raad al-Hussein spiega: «La comunità internazionale non può pretendere di risolvere migliorando le condizioni di reclusione. I prigionieri non hanno alcuna possibilità di contestare la legalità della loro detenzione e non hanno accesso a un aiuto legale». L’Alto commissario ha chiesto la depenalizzazione dell’immigrazione irregolare perché «solo le alternative alla detenzione possono salvare le vite dei migranti».
SECONDO IL DIPARTIMENTO libico per il contrasto all’«immigrazione illegale» (che dipende dal ministero dell’Interno libico), 19.900 persone sono trattenute in strutture sotto il suo controllo, contro le 7mila di metà settembre. «L’Ue non ha prodotto nulla per ridurre gli abusi subiti dai migranti» ha proseguito l’Alto commissario. Una donna sub-sahariana ha raccontato allo staff Onu, che a novembre ha visitato quattro strutture: «Sono stata portata via dal centro di detenzione e stuprata in una casa da tre uomini, compresa una guardia del centro». Donne, uomini e bambini raccontano: «Ci picchiano solo perché chiediamo cibo o cure mediche o informazioni». Un uomo rinchiuso nel centro di Tarik al-Matar, dove in 2mila vivono ammassati in un hangar senza bagni funzionanti, ha spiegato: «Non dormiamo, abbiamo malattie, ci manca il cibo, non ci laviamo per mesi. Moriremo tutti, è troppo difficile sopravvivere all’odore di feci e urine».
Stupri e violenze accompagnano i migranti fin dall’inizio del loro viaggio, ricorda l’Onu: «Sono già stati esposti a rapimenti, torture, lavori forzati, sfruttamento, gravi violenze fisiche, fame e altre atrocità nel corso dei loro viaggio attraverso la Libia nelle mani dei trafficanti». Una donna della Costa d’Avorio ha raccontato: «Durante il viaggio uomini armati hanno scelto sei donne, quando mi sono rifiutata sono stata schiaffeggiata e mi hanno puntato una pistola alla testa. Quattro uomini mi hanno stuprata. Ero all’inizio di una gravidanza, ho sanguinato molto, penso di aver perso il bambino».
UE E ITALIA, ricorda l’Onu, stanno fornendo assistenza alla Guardia costiera libica per intercettare le imbarcazioni, anche in acque internazionali, «nonostante i timori che questo condanni più migranti a una detenzione arbitraria, illimitata, atroce. Non possiamo essere testimoni silenziosi di questa schiavitù – ha concluso l’Alto commissario – in nome della prevenzione dell’arrivo sulle coste europee di gente disperata e traumatizzata». L’Onu chiede poi alle autorità libiche di porre fine alle violazioni dei diritti umani.
Dall’Ue ieri si è cercato di ridimensionare la portata delle accuse: «L’Unione europea lavora in Libia in cooperazione con l’Onu, la priorità è salvare vite e combattere i trafficanti – spiega una portavoce – per creare canali legali verso l’Europa per chi necessita protezione internazionale. La Ue finanzia Oim, Unhcr e Unicef per migliorare le condizioni in Libia. I campi di detenzione devono essere chiusi, la Ue chiede che i migranti vengano portati in centri di accoglienza con standard umanitari internazionali. Solleviamo regolarmente questo argomento con le controparti libiche». Nessuna marcia indietro neppure sulla marina libica: «Abbiamo addestrato 142 membri della Guardia Costiera. Fa parte dell’Operazione Sophia». Proprio ieri la Guardia costiera libica è tornata ad attaccare le Ong chiedendo più fondi all’Ue. Si è fatto sentire anche il presidente del parlamento europeo, il forzista Antonio Tajani: «Oggi sarà presa la decisione ufficiale, una delegazione del Parlamento europeo si recherà in Libia per verificare la situazione. L’azione contro l’immigrazione illegale non può essere confusa con la violazione dei diritti umani».
Repubblica 15.11.17
“Migranti all’asta come schiavi” Libia, ecco l’ultimo video shock
Inchiesta della Cnn. L’Onu attacca la Ue: “Un patto disumano con Tripoli”
di Alessandra Ziniti
I MIGRANTI sono schierati in fila, tutti uomini giovani, neri, alti e forti. Uno alla volta vengono avanti mentre una voce fuori campo declama le loro qualità. «Questo è uno scavatore, un grande e forte uomo». Da una piccola folla schierata di fronte si alzano le mani: «Offro 500, 550, 600, 650 dinari…». Aggiudicato per 400 euro circa. Il prossimo è un «grande ragazzo forte per lavoro agricolo». In questo caso la cifra sale un po’ di più.
L’ultimo orrore dalla Libia arriva da un filmato della Cnn, una sconvolgente testimonianza del commercio di “merce” umana che avviene quotidianamente nei dintorni di Tripoli, con gli schiavi del terzo millennio venduti all’asta per poche centinaia di euro. Poco di più di quanto, stando ai racconti di altri migrati, gli stessi trafficanti di uomini ricavano dalla “vendita” di migliaia di giovani donne migranti, che arrivano in Libia con il sogno di imbarcarsi su un barcone diretto in Italia e finiscono, dopo mesi di torture, nelle mani delle organizzazioni che gestiscono il grande business della prostituzione.
Nuovi agghiaccianti immagini e racconti che vanno ad aggiungersi a una lunghissima teoria di denunce di violenze, abusi, torture riscontrati dagli osservatori dell’Onu che ieri hanno portato l’alto commissariato delle Nazioni unite a definire «disumana la politica della Ue che consiste nell’aiutare la guardia costiera libica ed intercettare e respingere i migranti». Una fortissima presa di posizione alla quale una portavoce della Ue ha subito risposto sollecitando la chiusura dei campi di detenzione in Libia «dove la situazione è inaccettabile » e assicurando che la Ue «si confronta regolarmente con le autorità locali perché usino centri che rispettino gli standard umanitari». E oggi il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani dovrebbe ufficializzare la prossima missione di una delegazione di parlamentari in Libia per «verificare la situazione ».
Ma è il video shock pubblicato dalla Cnn a destare grande impressione e a rivelare che oltre al business delle partenze, le decine di migliaia di migranti che arrivano in Libia dai paesi dell’Africa subsahariana alimentano anche un nuovo schiavismo. L’asta documentata con telecamere nascoste è avvenuta in una proprietà privata nella cintura di Tripoli. In poco più di cinque minuti una decina di uomini-schiavi viene venduta e consegnata ai padroni. «Alla fine dell’asta abbiamo avvicinato i ragazzi venduti – raccontano i due giornalisti autori del servizio – ma erano talmente terrorizzati che non riuscivano a parlare». Il filmato è stato consegnato alle autorità libiche che hanno promesso l’avvio di un’indagine. «La situazione è davvero terribile – dice Mohammed Abdiker, direttore delle operazioni d’emergenza dell’Oim – le ultime relazioni sui mercati degli schiavi possono essere aggiunti alla lunga lista degli orrori».
Un trattamento disumano come i tanti riscontrati dagli osservatori dell’Onu che «sono rimasti scioccati da ciò che hanno visto: migliaia di uomini denutriti e traumatizzati, donne e bambini ammassati gli uni sugli altri, rinchiusi dentro capannoni senza la possibilità di accedere ai servizi più basilari», è la forte denuncia dell’Alto commissario Zeid Raad Al Hussein che punta l’indice contro l’Europa accusandola di «non aver fatto nulla per ridurre gli abusi perpetrati sui migranti».
Durissime le sue conclusioni che chiamano in causa direttamente l’Italia per l’accordo con la Libia: «La politica della Ue che consiste nell’aiutare la guardia costiera libica e intercettare e respingere i migranti è disumana. La comunità internazionale non può continuare a chiudere gli occhi sugli inimmaginabili orrori vissuti dai migranti in Libia e sostenere che la situazione non può essere risolta che migliorando le condizioni di detenzione. La sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità».
Repubblica 15.11.17
Se questo è un uomo
Quei migranti in esilio ridotti in schiavitù ci riguardano
di Marco Belpoliti
VOI che vivete sicuri/ Nelle vostre tiepide case/ Voi che trovate tornando a sera/ Il cibo caldo e visi amici:/ Considerate se questo è un uomo». Un uomo di colore, un nero, venduto a 400 dollari. Uno schiavo, come all’epoca degli antichi imperi. Oggi anche questo diventa possibile. Il video della Cnn ci mette davanti agli occhi un doppio abominio. L’uomo venduto come in un mercato e la sua pelle scura. La schiavitù che è stata abolita nel mondo moderno, che è costata morte, dolore, sofferenze, sembra ritornata. Nel video non si riesce a scorgere con nettezza lo sguardo di questo uomo, tuttavia si coglie come una rassegnazione dipinta sul suo viso, una passività che fa di questo intollerabile spettacolo qualcosa di insopportabile.
DI LÀ dal mare che bagna le nostre coste, non lontano da noi, appena più a sud del mondo cosiddetto civilizzato, la guerra, i conflitti tribali e religiosi riportano d’attualità un costume obbrobrioso che credevamo cancellato. Tutto questo ci riguarda direttamente, non è remoto, non è uno scherzo della storia. Chi ha visitato il National Museum of African American History and Culture di Washington sa cosa ha significato per milioni di donne e uomini africani la tragedia della deportazione e della schiavitù. La traversata dell’Oceano dentro le mefitiche stive dei negrieri, l’approdo e il lavoro forzato. Là nell’architettura che imita quella di un canestro rovesciato, che scende a vari metri sotto il livello del suolo, dentro il cuore del museo, ci sono raccolti i poveri oggetti, i ritratti, le memorie di questi schiavi su cui si è costruito l’impero del cotone, ma anche quello del caffè e del tè, dei beni voluttuari e degli indumenti utilizzati dall’America e dall’Europa. E ancora non sono trascorsi cento anni che un’altra deportazione ha dato vita al sogno folle di un dittatore paranoico nel cuore dell’Europa, che ha trasformato in schiavi intere popolazioni, avversari politici e prigionieri di guerra. Bisogna guardare queste immagini per capire che non è solo una vicinanza fisica — le coste della Libia — ma anche una vicinanza morale che fa sì che questi stranieri, migranti in esilio dalla propria terra, ridotti in schiavitù, misera gente nelle mani di uomini senza scrupoli, ci riguardano direttamente. In Europa si è diffusa da qualche anno un’infezione latente per cui « ogni straniero è nemico » , come scriveva Primo Levi nella premessa del suo libro nel 1947. Una convinzione che « si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati » e che non sembra stare « all’origine di un sistema di pensiero » . Ma quando questo accade, ci ammonisce Levi, al termine della catena c’è il Lager.
Sono uomini come noi, uomini identici a noi. Non è tollerabile che questo sia il loro destino: « Meditate che questo è stato: Vi comando queste parole./ Scolpitele nel vostro cuore » . Sì, questo è un uomo.
La Stampa 15.11.17
Migranti come schiavi battuti all’asta in Libia
Video choc della Cnn, uomini venduti a 800 euro a testa La dura accusa dell’Onu: “L’accordo di Italia e Ue è disumano”
di Marco Bresolin
Quanto vale la vita di un uomo? In Libia, se si tratta di un centrafricano «forte, adatto al lavoro nei campi» meno di 800 euro. Con una base d’asta di 500. Una cifra inferiore a quella spesa per arrivare fin lì, affidando il proprio destino ai trafficanti. È un agghiacciante reportage della Cnn che svela i contorni più crudi della tratta di esseri umani in Libia, dove i migranti vengono venduti all’asta come schiavi. Braccia da sfruttare al di là del Mediterraneo, non essendo più possibile buttare quei corpi su un gommone da mandare in direzione dell’Europa, dell’Italia, alla deriva.
Il documento giornalistico arriva nel giorno della grande accusa lanciata dall’Onu per il piano che ha chiuso la rotta del Mediterraneo Centrale insieme con gli occhi di Italia e Unione Europea. Un patto “disumano” con le autorità libiche - secondo l’Alto Commissario per i diritti umani dell’Onu, Zeid Raad Al Hussein - che ha risolto solo l’ultima parte del problema immigrazione, quello visibile «al di qua». Sono diminuiti gli sbarchi e le vittime in mare. Ma al di là del Mediterraneo continua a succedere quello che succedeva prima. Anzi, con il blocco delle partenze, forse pure peggio.
«Migliaia di detenuti denutriti e traumatizzati». Donne e bambini ammassati gli uni sugli altri in capannoni «senza alcun tipo di accesso ai servizi minimi essenziali». Episodi di «schiavitù moderna, stupri e altre forme di violenza». Questo succede, accusa l’Onu, nelle «terrificanti prigioni» libiche. Gli osservatori sono rimasti «scioccati» nel vedere «le sofferenze dei migranti detenuti in Libia». Che, accusa Zeid Raad Al Hussein, «sono un oltraggio alla coscienza dell’umanità». Tutto ciò, insistono le Nazioni Unite, per evitare che queste persone raggiungano le coste europee. Senza che «l’Ue e i suoi Stati membri abbiano fatto nulla per ridurre gli abusi».
I toni e i contenuti della denuncia dell’Onu non sono mai stati così duri. E questo ha certamente creato un po’ di fastidio a Bruxelles, dove dalle parole dei portavoce della Commissione si percepisce una certa irritazione. L’Ue assicura di lavorare in Libia «in piena cooperazione con le Nazioni Unite» per progetti che - si fa notare - vengono finanziati dall’Europa. Si ribadisce la necessità di «chiudere i campi di detenzione» perché la situazione è inaccettabile. L’Europa risponde alle accuse che riguardano i metodi usati dalla Guardia Costiera libica dicendo di aver addestrato «solo 142 uomini». Di ciò che fanno gli altri nessuno si assume la responsabilità. E sottolinea di aver contribuito a realizzare 8.000 rimpatri volontari assistiti dalla Libia verso i Paesi d’origine, liberando queste persone dal limbo. Ma ciò che non si vede è la tanto pubblicizzata politica dei corridoi umanitari. Bruxelles a luglio aveva lanciato un piano da 40.000 trasferimenti l’anno, ma fino al mese scorso i governi avevano messo a disposizione solo 14.000 posti.
I «resettlement» dalla Libia sono quasi impossibili perché gli Stati non hanno un’ambasciata, dunque non danno il via libera per accoglierli. Nei giorni scorsi l’Unhcr è riuscita a portare a termine la prima evacuazione di un gruppo di migranti «estremamente vulnerabili», trasferiti temporaneamente in Niger in attesa della loro destinazione finale. È la prima volta che succede. Erano in venticinque.
La Stampa 15.10.17
“Si sapeva tutto da tempo. Quell’intesa è da rivedere”
Emma Bonino: “Le milizie lasciano entrare solo in pochi centri”
di Francesca Paci
«Che destino, quello di Cassandra». Emma Bonino guarda il filmato diffuso dalla Cnn con l’amarezza di chi non gioisce per aver anticipato i tempi né si aspetta strette di mano congratulatorie. Già a settembre, alla presentazione romana del film di Andrea Segre “L’ordine delle cose”, la leader radicale si era dissociata dall’ottimismo generale per la drastica diminuzione degli sbarchi mettendo in guardia il governo dall’appaltare alle milizie libiche le nostre frontiere e la vita dei migranti.
Il video mostra una vera e propria asta di uomini. C’è un’escalation? I trafficanti vogliono sbrigarsi?
«È solo una variante dell’orrore che conosciamo. Uomini, donne e bambini ridotti in schiavitù, stuprati, battuti, ammassati uno sull’altro».
Perché l’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani al Hussein parla ora, mentre da mesi si moltiplicano le denunce?
«Si sapeva tutto e da tempo. Ma gli ispettori erano pochi e io passavo per una visionaria. Poi è arrivato il rapporto di Médecins Sans Frontières e poi il ministro Minniti ha dichiarato che i campi in Libia erano la sua ossessione e che l’Oim e l’Unhcr ne avrebbero “migliorato” le condizioni. Il risultato è che la Libia permette a mala pena di visitare di tanto in tanto qualcuno dei 29 centri ufficiali di detenzione, quelli di cui abbiamo letto i reportage giornalistici. Il resto, a cominciare dai centri illegali, è terra di nessuno».
È la prima volta che l’Onu tocca con mano la situazione?
«L’accesso ai campi è un problema enorme. Stavolta 6 osservatori sono stati ammessi in 4 campi a Tripoli e abbiamo la prova provata. E dire che si tratta sempre dei soliti centri, teoricamente “i migliori”. Ma in questi giorni la foto del lager di Sahba acquisita dalla Procura di Palermo ha rivelato cosa accade nel Sud della Libia, dove i migranti si danno il cambio per dormire perché non possono stare sdraiati tutti insieme sul pavimento coperto di feci».
Ha sempre criticato l’accordo sui migranti siglato dall’Europa con la Turchia. Considera alla stessa stregua quello con la Libia?
«È peggio. Per quanto io sia critica con Erdogan e il suo Stato autocratico è pur sempre uno Stato e ha il controllo del territorio. In Libia ci siamo accordati con un governo che non controlla neppure i suoi uffici e, direttamente o indirettamente, ha appaltato la questione alle milizie. Abbiamo anche assistito a una cruenta guerra tra bande per la gestione dei migranti».
Puntando il dito contro l’Ue, l’Alto rappresentante Onu ha chiesto anche di decriminalizzare l’immigrazione irregolare. È la sua battaglia. A che punto è?
«Infatti il reato di clandestinità è una vera e crudele assurdità. Al Hussein ha detto testualmente che i centri di detenzione in Libia sono terribili, al di là di ogni possibilità di miglioramento. La nostra campagna “Ero Straniero”, per il superamento della Bossi-Fini, è una lunga marcia, bisogna insistere. E dobbiamo andare avanti».
Avanti da soli o d’intesa con forze politiche come il Pd che pure, dovendo rispondere a un elettorato inquieto, non possono aprire le porte ai migranti?
«Bisogna dire la verità agli elettori. Sarà pur vero che gli sbarchi sono diminuiti ma sono aumentati i morti. Inoltre, per ammissione di Tripoli, le persone detenute in Libia sono passate da 7 mila che erano a settembre alle quasi 20 mila attuali».
Cosa avrebbe dovuto fare l’estate scorsa l’Italia mentre gli altri Paesi europei ci lasciavano soli?
«Gentiloni ha ragione nel ripetere che l’Italia ha avuto, rispetto ai migranti, la politica più decente d’Europa. Ad eccezione della Grecia e un po’ della Germania tutti gli altri sono rimasti indifferenti o hanno fatto ostruzionismo. Sicché a un certo punto è stato deciso che la priorità era fermare gli sbarchi a ogni costo, tanto più che, come vediamo, i costi drammatici li pagano loro. Ma avremmo almeno potuto prima negoziare il controllo dei centri di detenzione e pretendere la ratifica dei trattati sui rifugiati che i libici non hanno mai sottoscritto. Guardiamo invece la dinamica dell’ultimo naufragio avvenuto a 30 miglia, in acque internazionali, con la vedetta libica che indifferente alla richiesta di soccorso dell’elicottero della marina italiana se ne infischia e trascina i cadaveri di 50 persone preparandosi a bastonare quelle che ha tirato a bordo. Per quanto ci si possa abituare alla cronaca, non funziona. È un rapporto tutto da rivedere. E non c’è solo la Libia: per non ripetere Cassandra, cerchiamo di capire cosa succede in Libano prima che sia troppo tardi».
La Stampa 15.11.17
“Da mesi lo denunciamo
Si sta scendendo a patti con dei veri criminali”
di Fabio Albanese
«Purtroppo niente di nuovo. Ma è vergognoso che debba arrivare una denuncia dall’altra parte del mondo perché se ne parli». Riccardo Gatti è il capo missione della Ong spagnola Proactiva Open Arms, una delle cinque rimaste a presidiare il Mediterraneo centrale e a soccorrere i migranti che partono dalla Libia.
Cosa racconta quel filmato della Cnn?
«Racconta cose che denunciamo da tempo, che apprendiamo dai migranti che soccorriamo o che vediamo con i nostri occhi. La situazione in Libia è grave ma la politica in Europa e in Italia continua a lanciare messaggi rassicuranti che non corrispondono alla realtà».
Qual è la realtà?
«La realtà è che si stanno facendo accordi con criminali e gente senza scrupoli; e invece di aiutare i migranti e i rifugiati a scappare da quell’inferno, aiutiamo questa gente a riportarli nei campi di detenzione, in condizioni terribili».
Che notizie avete della situazione attuale in quei campi?
«C’è un recente rapporto di Oxfam secondo cui il 100 per cento delle donne è stato ripetutamente violentato, il 74% dei reclusi ha assistito a omicidi e torture, l’84% ha subito trattamenti inumani e torture. Sono senz’acqua, senza cibo, senza medicine. E noi istruiamo la guardia costiera libica a riportarli indietro, con le motovedette date dall’Italia. Si sta dando potere a chi non è capace di soccorrere».
Ieri l’Onu ha detto che il patto di Ue e Italia con la Libia è disumano. Dopo aver visto il filmato della Cnn, il presidente del Parlamento europeo Tajani ha detto che una missione di europarlamentari per la Libia è imminente. Qualcosa si muove?
«Che la situazione sia grave lo ripetiamo da mesi, inascoltati. Poi però se la Cnn fa vedere le immagini di una vendita di schiavi a 20 minuti di auto da Tripoli, finalmente se ne accorgono. Ho sempre in testa quello che dicono le persone che salviamo in mare: la Libia è un inferno. Ed è per questo che bisogna agire, e presto».
Corriere 15.11.17
Libia, l’Onu accusa l’Europa e l’Italia «Un orrore le prigioni per migranti»
Video su ragazzi venduti come schiavi. Tajani: inaccettabile, l’Europarlamento verificherà
di Ivo Caizzi
BRUXELLES L’organizzazione delle Nazioni Unite mette sotto accusa l’Unione Europea e l’Italia, che hanno frenato gli arrivi di immigrati in Europa finanziando le autorità della Libia per bloccarli o riaccettarli sul suo territorio. La dura denuncia dell’Alto commissario Onu per i diritti umani, il giordano Zeid Raad Al Hussein, sui «terrificanti» campi di detenzione per migranti in Libia è stata ulteriormente drammatizzata da un video-choc diffuso dalla tv Usa Cnn su migranti venduti all’asta come schiavi in Libia. Al punto che la Commissione europea ha chiesto la chiusura di queste prigioni e il presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani ha annunciato per oggi la costituzione di una delegazione di eurodeputati da inviare in Libia per verificare le violazioni dei diritti umani.
«Orrori inimmaginabili» hanno sconvolto gli osservatori Onu quando hanno visitato a Tripoli quattro centri di detenzione per migranti gestiti dal Dipartimento per la lotta all’immigrazione illegale del ministero dell’Interno libico. «La sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità», ha protestato Al Hussein in un comunicato, dove ha definito «disumana» la politica della Ue e dell’Italia di finanziare le autorità libiche, perché «rischia di condannare molti migranti a una prigionia arbitraria e senza limiti di tempo, esporli alla tortura, allo stupro, costringerli al lavoro, allo sfruttamento e al ricatto». L’invito è a «non essere testimoni silenti della schiavitù moderna, di stupri e altre violenze sessuali, di uccisioni fuorilegge per evitare che persone disperate e traumatizzate raggiungano le coste dell’Europa».
La Commissione europea ha replicato ammettendo che «i centri di detenzione in Libia debbono essere chiusi» perché «la situazione è inaccettabile». Ha aggiunto che «l’Ue sta proseguendo gli sforzi per sostenere la creazione di un processo standard da parte delle autorità libiche attraverso il quale i migranti, soccorsi dalla guardia costiera libica, siano sbarcati e portati in centri di accoglienza che corrispondano agli standard umanitari internazionali». Il commissario Ue per l’Immigrazione, il greco Dimitris Avramopoulos, ha condiviso «la necessità di migliorare urgentemente» le condizioni dei migranti in Libia e ha detto che «proteggere vite ed assicurare un trattamento umano e dignitoso a tutti lungo le rotte migratorie resta la nostra priorità condivisa, dell’Ue e dei suoi Stati membri, in particolare dell’Italia». Il governo italiano si è difeso tramite la Farnesina sostenendo che «sono mesi che chiediamo a tutti i player coinvolti di moltiplicare l’impegno e gli sforzi in Libia per assicurare condizioni accettabili e dignitose alle persone presenti nei centri di accoglienza».
Tajani ha definito «assolutamente inaccettabile» quanto accade in Libia. «L’azione forte contro l’immigrazione illegale non può essere confusa con la violazione dei diritti umani — ha spiegato —. Tutto ciò che si deve compiere deve essere fatto nel rispetto dei diritti delle persone». I missionari comboniani, in base alla loro lunga esperienza assistenziale in Africa, hanno denunciato che la comunità internazionale «dimentica troppo facilmente che spesso le oligarchie locali africane sono al soldo di potentati stranieri (cinesi, americani, europei)» e che «gli sbarchi sono il drammatico risultato di politiche di sfruttamento umano e ambientale del continente».
Corriere 15.11.17
L’irritazione del governo: è anche merito nostro se oggi si fanno ispezioni
di Marco Galluzzo
«Oltre a denunciare le Nazioni Unite possono fare di più»
ROMA «Noi abbiamo fatto il nostro dovere e tutelato gli interessi del nostro Paese. E sui diritti umani dei profughi e dei migranti nessuno, nemmeno le Nazioni Unite, può venirci a fare una lezione. Se oggi si fanno ispezioni nelle carceri libiche è solo merito nostro. Oltre che denunciare l’Onu può anche fare di più, molto di più...».
Nel giorno in cui anche l’Italia, insieme all’Unione Europea, viene messa in croce dalle Nazioni Unite, con l’accusa di aver girato la testa dall’altra parte, di essersi curata soltanto di provvedere alla sicurezza dei propri confini, la reazione che si registra fra Palazzo Chigi e ministero dell’Interno è di questo tipo. E una nota ufficiale della Farnesina chiarisce: «Sin dal primo momento l’Italia ha posto in tutte le sedi il problema delle condizioni umanitarie dei centri di accoglienza in Libia d’intesa con l’Ue e sollecitando anche le agenzie Onu a operare e a lavorare in questa direzione».
Del resto il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni aveva già replicato alle accuse che da alcune settimane le istituzioni internazionali ci rivolgono rivendicando con orgoglio: «Siamo gli unici ad avere una politica decente in Europa, in tema di migranti».
Nello staff del ministro Marco Minniti, come in quello del capo del governo, la posizione italiana è articolata in più punti, ma con una linea di confine che appunto rivendica il lavoro fatto finora. Se oggi le organizzazioni internazionali sono in grado di fare ispezioni nei centri di detenzione libici «è anche merito di Roma». E bisogna aggiungere che l’Oim «ha finora gestito oltre 9 mila rimpatri mirati, cosa mai avvenuta prima». Non solo: l’Unhcr sta trattando proprio con le autorità libiche la creazione del primo centro di accoglienza gestito dall’Onu, in territorio libico. «Esistono difficoltà e ritardi, ma è l’unica strada», spiegano dal Viminale .
Nel governo aggiungono, anche se in modo informale, che sin qui le Nazioni Unite, che pure si stanno muovendo, avrebbero potuto fare molto di più e invece di denunciare una situazione che conoscono tutti, indubbiamente orribile sui diritti umani, potrebbero con maggiore celerità passare dall’analisi ai fatti concreti, visto che sono gli unici autorizzati. Accusare l’Italia di aver fornito mezzi e risorse alle autorità costiere libiche per intercettare un maggior numero di clandestini o per combattere il traffico di esseri umani è semplicemente «ridicolo», aggiungono al ministero dell’Interno.
Oggi Marco Minniti risponderà al question time alla Camera, chiarirà i contorni dell’ultimo incidente nelle acque del Canale di Sicilia e probabilmente risponderà proprio alle accuse che ci vengono rivolte dall’Onu.
il manifesto 15.11.17
Italia-Europa, il disumano che è in noi
di Tommaso Di Francesco
«È disumana» la politica dell’Unione europea di assistere le autorità libiche nell’intercettare i migranti nel Mediterraneo e riconsegnarli nelle «terrificanti prigioni: lo denuncia l’Alto commissario ‘Onu per i diritti umani Zeid Raad Al Hussein che accusa: «La sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità», ricordando che «gli osservatori dell’Onu in Libia sono rimasti scioccati da ciò che hanno visto: migliaia di uomini denutriti e traumatizzati, donne e bambini ammassati gli uni sugli altri, rinchiusi dentro capannoni senza la possibilità di accedere ai servizi più basilari». L’accusa finale è «di non aver fatto nulla per ridurre gli abusi perpetrati sui migranti».
La durissima condanna delle Nazioni unite riguarda in primo luogo l’Italia, le politiche di accoglienza del governo Gentiloni e in particolare dell’emergente ministro degli interni Marco Minniti, promotore e capofila del sistema di «riconsegne» alle cosiddette «autorità libiche» dei migranti intercettati in Mediterraneo.
Dove, in questi giorni, è ripresa la tragedia dei morti annegati, con la battaglia navale delle guardie libiche per strappare i disperati alle ormai poche navi di soccorso delle Ong. Dopo che contro le Ong è stata scatenata per tutta l’estate una campagna di colpevolizzazione, indagini della magistratura, operazioni dei servizi segreti e indegne campagne giornalistiche.
Tutti impegnati a sostenere il governo nel tentativo di cancellare la disperazione dei migranti. Il misfatto delle morti a mare non si deve, che importa se allora muoiono nei deserti o nelle prigioni libiche? Proprio quello «stile coloniale italiano», quel Codice Minniti, era stato apprezzato a fine agosto scorso dal vertice di Parigi dei quattro paesi decisivi dell’Unione europea, Germania, Francia, Spagna ed Italia con tanto di partecipazione dell’Alto rappresentante della politica estera Mogherini. Insomma, non è che l’Ue non ha fatto nulla per ridurre gli abusi, li ha semplicemente autorizzati. Tutti in campo ad appoggiare l’Italia, incapaci per parte loro di provvedere altrimenti con una ripartizione equa degli arrivi dei profughi. E con una pervicacia dal sapore elettorale volta a dimostrare ad ogni costo alle rispettive opinioni pubbliche il comune intento a contenere, il più possibile lontano dalla coscienza europea ed occidentale, il fenomeno epocale delle migrazioni dei rifugiati da guerre e persecuzioni e da miseria. Nell’occasione del summit della Ue, ci fu una perfidia in più: per bocca di Angela Merkel venne ribadita la nefasta distinzione nell’accoglienza negandola ai cosiddetti «migranti economici», relegati in un doppio inferno.
E Mogherini (Mister Pesc) spiegò che non era necessario promettere un piano Marshall per l’Africa, «già spendiamo – disse – 20 miliardi di euro, in aiuto allo sviluppo, alla cooperazione, in partenariati commerciali…». Per un continente ricchissimo come l’Africa, nel quale siamo impegnati nel commercio di armi e in tante guerre, e del quale ogni giorno rapiniamo risorse petrolifere, minerarie e terre? Da quel summit europeo – per il quale l’Italia «aveva salvato l’onore dell’Europa» -, le cui decisioni vengono giudicate ora «inumane» dall’Onu, nacque anche la proposta di aprire centri di identificazione in Africa, con tanto di chiamata di correo dello stesso Unhcr che ora, invece, accusa l’operazione di «oltraggio all’umanità». Lì l’Europa si convinse che la sua frontiera a sud – Minniti ce l’ha ripetuto alla noia – doveva diventare il Niger, con il Ciad e il Mali. Senza chiedersi intanto che fine avrebbe fatto subito quel milione di profughi che da molti mesi è rimasto intrappolato in Libia.
Tranquilli. Ha ripetuto il governo Minniti-Gentiloni, ci penseranno le «autorità libiche». Ma quali? Le tante che esistono, i signori della guerra, i «sindaci» eletti da nessuno, la guardia «costiera libica»? Tutte formule che riconvertono a ruolo e a libro paga, dopo le devastazioni della guerra Nato a Gheddafi, centinaia di milizie armate spesso legate al jihadismo estremo. Oppure con le forze militari che Macron metterà a disposizione in Niger e Ciad.
Ma qual è alla fine la spiegazione di tanto «oltraggio alla coscienza dell’umanità», come l’Onu definisce le responsabilità dell’Ue? Il ministro Minniti lo ha ripetuto: «Se non avessimo fatto questo in Libia c’era da temere per la tenuta democratica del Paese». Quindi trasformando in lager buona parte del continente africano «per la democrazia»? Cioè assumendo la politica della paura, con l’occhio attento ai sondaggi elettorali, e finanziando milizie mafiose, come hanno rivelato importanti e veridici reportage della stampa internazionale. Agghiacciante quello di ieri della Cnn che ha mostrato come nei centri di detenzione libici vengano allestite aste di profughi-schiavi. Poteva mai essere «per la democrazia» una tale vergognosa decisione? E infatti ora le Nazioni unite, scioccate, la definiscono per quello che è: un «oltraggio alla coscienza dell’umanità».
Il Fatto 15.11.17
L’Onu: “Europa e Italia disumane sui migranti”
“Dall’accordo con la Libia orrori inimmaginabili, offesa all’umanità”. Le Nazioni Unite bocciano anche la legge sulla tortura
di Giampiero Calapà
“Politica disumana”, “orrori inimmaginabili”, “un’offesa alla coscienza dell’umanità”. L’Onu si pronuncia così sul tappo del ministro Marco Minniti nel Mediterraneo, e lo fa condannando l’accordo di collaborazione tra Libia e Unione europea, perché Bruxelles ha appoggiato e sostenuto il piano del Viminale, da cui per tutta la giornata di ieri non arriva un solo commento.
È stato l’alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani, Zeid Ràad al Hussein ad accusare: “Non possiamo essere testimoni silenti della schiavitù moderna, di stupri e altre violenze sessuali, di uccisioni fuori legge nel nome della gestione dell’immigrazione e dell’evitare che persone disperate raggiungano l’Europa”. Perché “è un’offesa alla coscienza dell’umanità”.
L’Onu, quindi, prende anche le parti delle Ong, denunciando l’assistenza di Ue e Italia alla Guardia costiera libica: è una condanna per “più migranti a una detenzione arbitraria e illegittima”: “nonostante i timori sollevati da gruppi per la tutela dei diritti umani i migranti sono così esposti a tortura, stupro, lavori forzati, sfruttamento ed estorsione”. E a inizio novembre, secondo i dati forniti dallo stesso governo di Tripoli, i migranti detenuti in Libia sono 19.900, mentre a settembre erano ancora circa 7 mila.
Zeid ha riferito racconti di violenze terribili esortando “la comunità internazionale a non chiudere gli occhi davanti agli orrori inimmaginabili sopportati dai migranti in Libia e fingere che la situazione si possa sanare semplicemente migliorando le condizioni di detenzione”. Non si limita alla denuncia l’alto commissario ma invita l’Italia e gli altri Paesi europei a “creare apposite leggi nazionali per decriminalizzare l’immigrazione irregolare, in modo da garantire il rispetto dei diritti umani dei migranti”, esattamente come chiedono i Radicali con la campagna “Ero straniero” per il superamento della Bossi-Fini nel momento politico in cui il Pd si trova al bivio tra il modello-Minniti e un’alleanza con Emma Bonino e Riccardo Magi.
Contemporaneamente alle accuse dell’Onu all’Italia – doppie, perché il Comitato contro la tortura boccia la legge approvata dal nostro Parlamento – la situazione in Libia è raccontata da un’esclusiva Cnn: ragazzi venduti per poche centinaia di dollari, battuti addirittura all’asta dai trafficanti. Si tratta di un video di 7 minuti, ripreso con uno smartphone: “Ottocento dinari… novecento, mille e cento, venduto per mille e duecento dinari”, grida una voce maschile. Un uomo quindi è stato venduto per circa 800 dollari. “Un ragazzone forte, adatto al lavoro nei campi”, spiega ancora l’aguzzino. Poi ne presenta un altro: “Questo è uno scavatore, un omone forte. A chi serve uno scavatore?”. I giornalisti della Cnn hanno raccontato: “Abbiamo avvicinato due dei migranti venduti, erano così traumatizzati che non riuscivano a parlare. E non si fidavano di nessuno, erano terrorizzati”.
Nello stesso giorno la Marina libica ringrazia il sostegno italiano alle motovedette, chiede all’Ue altri mezzi per il soccorso dei migranti e accusa l’ong Sea Watch di aver manipolato le immagini di un video “con lo scopo di accusarci della morte di un giovane migrante, mentre invece lo abbiamo salvato”. È morto di sicuro il piccolo Great, due anni e sette mesi, recuperato in mare proprio da Sea Watch il 7 novembre: ieri è stato sepolto a Scicli, in Sicilia, dopo il funerale cristiano voluto dalla sua mamma, una ragazza nigeriana.
il manifesto 15.11.17
Haftar denunciato all’Aja per crimini di guerra
Caos Libia. La sicurezza in Libia non migliora e la Guardia costiera di Tripoli ora dà forfait sullo stop ai migranti
di Rachele Gonnelli
Come spesso i despoti, il generale libico Belqasim Kalifa Haftar ha un’espressione stereotipata scolpita in volto che si adatta molto bene come maschera del potere dai molti travestimenti. Così, mentre l’anno scorso si faceva vanto di indossare pesanti cappelli di pelo con le orecchie nei suoi ricorrenti viaggi a Mosca a convegno con gli alleati russi, ora fa mostra di sè, con quella stessa faccia inespressiva, circondato da emiri in veste bianca e kefia, i suoi nuovi sponsor.
L’uomo forte della Cirenaica, che si propone di governare la Libia e si dice pronto anche a fermare per conto dell’Italia e dell’Europa il flusso di migranti sulla rotta del Mediterraneo, era infatti in visita ieri al Dubai Air Show, sua terza visita negli Emirati arabi uniti negli ultimi sei mesi.
Contro di lui, proprio ieri mentre era a Dubai, un pool di avvocati europei dei diritti umani con base a Londra, lo studio intitolato «Guernica 37» in memoria del primo bombardamento a tappeto di una città durante la guerra civile spagnola, ha presentato una richiesta di avvio di indagine penale per crimini di guerra. I legali chiedono al Tribunale dell’Aja che Haftar sia messo sotto accusa per stragi intenzionali di civili, omicidi, torture e deportazioni.
Ma niente lascia pensare per il momento che l’iniziativa dello studio Guernica 37 avrà un esito in termini brevi. La procuratrice delll’Icc, la stessa Fatou Bensouda che in estate presentò un vero e proprio atto d’accusa contro le milizie che continuano a combattersi e a contendersi il contrabbando di migranti e petrolio, ha appena presentato la sua nuova relazione sulla Libia, nella quale si ricordano i mandati di cattura spiccati dall’Aja nei confronti del generale gheddafiano Senussi, del secondogenito del Colonello Saif Al Islam Gheddafi per crimini commessi durante la guerra civile del 2011 e nei confronti del generale Mahmoud al Werfalli al comando delle forze speciali di Haftar per l’assassinio di 33 prigionieri legati. Un episodio, questo, che non risale alla guerra ma a tempi molto più recenti: l’anno scorso.
La procuratrice menziona Haftar solo per i suoi ringraziamenti al Tribunale internazionale dell’Aja, ma ricorda anche che tutti e tre i ricercati dall’Icc dovrebbero essere consegnati dallo stesso Haftar. E le accuse dello studio legale di Londra, anche se meno precise, si riferiscono agli stessi uomini e alle stesse circostanze.
Nel frattempo i partner che l’Italia si è scelta per fare il lavoro sporco che prima della guerra faceva Gheddafi – fermare i migranti – sono sempre più in difficoltà. Il portavoce della Guardia costiera del governo Serraj, Ayoub Qasem, annuncia da Tripoli tramite l’agenzia di stampa italiana Nova che dall’anno che viene, «in mancanza di aiuti economici», il personale impegnato sulle coste nella caccia ai barconi verrà radicalmente diminuito. Qasem sostiene di non avere mezzi sufficienti per salvare i naufraghi e accusa le ong come Sea Watch di intromissione e mancanza di collaborazione.
Il Fatto 15.11.12
La politica dello struzzo non paga
Emergenze elettorali - L’efficacia di aver demandato il controllo dei flussi si sta rivelando di breve durata
di Guido Rampoldi
Finisce com’era prevedibile da mesi: con un disastro umanitario che non può essere più occultato e comincia a scandalizzare il mondo. L’Alto commissario Onu per i diritti umani, Zeid Raad al-Hussein, ha la buona grazia di non chiamare in causa l’Italia ma è evidente che si riferisce soprattutto al nostro Paese quando scrive che “la politica dell’Unione europea è disumana”. Possiamo considerarlo il bisbiglio inoffensivo di un dignitario musulmano, futile esercizio d’indignazione di un carrozzone internazionale, e tornare a occuparci di fiaschi più toccanti e familiari, dalla Nazionale al Pd renziano.
Ma la sconfitta che stiamo rimediando in Libia è di quelle che restano scolpite nei libri di storia e contribuiscono alla nostra immagine internazionale, a definire il nostro posto nel mondo, oltre che in un’Europa cui purtroppo somigliamo. E per allontanare l’onta non basterà dire, con il ministro degli Interni Minniti, ‘se non vi sta bene proponete voi un’alternativa’. Quell’alternativa saremmo noi a doverla produrre, e in fretta, se vogliamo recuperare la credibilità sacrificata sull’altare d’una Realpolitik avventurosa e sbagliata. Per cominciare sarebbe indispensabile prendere atto del fallimento.
Si dirà che avere in Libia una politica è stato comunque meglio che non averne alcuna, come accadeva al tempo del governo Renzi. E si potrà aggiungere che non era agevole far collimare i nostri interessi strategici con una politica umana sull’immigrazione. Ma nel suo procedere a tentoni, zigzagando parecchio, il governo ha inanellato errori e orrori del tutto gratuiti. Roma aveva il diritto di riprendersi il controllo sui flussi migratori: ma non c’era alcun bisogno, per cominciare, di lasciar correre, cioè favorire, l’aggressione contro le Ong del mare, condotta da buona parte di Parlamento e media, e nutrita da istituzioni (verosimilmente con un apporto dei nostri servizi, il cui compito non è di manipolare l’opinione pubblica).
C’era lo spazio per consolidare una collaborazione tra Stato e Ong: invece le Ong, anche quelle che subordinavano la propria suscettibilità all’interesse primario di tutelare l’incolumità dei migranti, sono state prima strattonate da Roma e poi costrette ad abbandonare le acque antistanti la Libia da un diktat della guardia costiera libica vidimato dal silenzio-assenso dell’Italia.
Alla fine dell’estate molti giornali salutavano il successo della politica italiana e un editoriale del Corriere
intimava a noi scettici di cospargerci il capo di cenere. Il numero dei migranti arrivati in Italia era diminuito, così il numero degli affogati; quelli intercettati in mare dalla guardia costiera venivano serenamente ‘riaccompagnati’ in ‘centri d’accoglienza’, in realtà osceni lager, come certifica l’Alto commissariato Onu.
Ma un cambiamento radicale la politica italiana l’ha prodotto: ha fatto sparire dalla scena i migranti, un gioco di prestigio che permetteva di dimenticare in quali condizioni disperate languissero e di incassare il plauso di un’opinione pubblica maldisposta verso stranieri poveri. Non è durata: Invisibili a tanti media e politici nostrani, i prigionieri dei lager sono di nuovo sotto gli occhi del mondo.
Cosa fare? Se c’è una cosa chiara è che la salvezza dei 150 mila intrappolati sulle coste libiche non può essere delegata al circuito milizie-trafficanti né ai loro referenti politici, nessuno dei quali ha sufficiente forza e autorità per imporsi. È in corso un negoziato Onu che pare condurre a nulla. Il generale Haftar, un furfante che l’Italia da ultimo ha cercato di blandire sorvolando sui suoi documentati crimini, si sta rivelando un bluff. E dove si combatte, il conflitto minaccia di saldarsi alle turbolenze egiziane in un’unica area di crisi, un’Egibia alle nostre porte.
Occorre una decisa iniziativa europea. Non se ne vedono le condizioni, ma proporla e battersi perché entri nell’universo delle possibilità, sarebbe un esercizio morale e intellettuale utile a immaginare soluzioni diverse dalla politica dello struzzo, per ‘popolare’ che possa risultare quell’impedirsi di vedere e capire.
Reoubbica 15.11.17
La traversata verso il nulla
di Massimo Giannini
SE È VERO che la sinistra italiana somiglia alla Nazionale di Ventura (come ha scritto Tommaso Cerno alla vigilia della direzione del Pd e del match contro la Svezia), allora il destino è segnato. La spavalda sicumera di Matteo Renzi che nel 2015 annuncia a Putin «vogliamo vincere i mondiali in Russia» è la stessa del segretario del Pd che oggi dice «vinceremo le elezioni del 2018». Al di là del paradosso, il “nemico dei gufi” che diventa gufo di se stesso, la sconfitta è sicura.
L’apertura di gioco del leader ai “fuoriusciti” non dà risultati. Uno sforzo c’è stato.
IL PERSEGUIMENTO di «una coalizione più larga possibile», dopo aver teorizzato il dogma dell’autosufficienza del Pd. Il cedimento su alcune misure sociali nella manovra, dopo aver rifiutato ogni abiura sulle cose fatte. Ma non basta: troppo poco e troppo tardi, obietta la “sinistra della sinistra”. Così si condannano entrambe a patire, rivisitata, la profezia di Arturo Parisi: perdere, e perdersi. Per vincere bisognerebbe sapere qual è il campo di gioco, insieme trans-nazionale e nazionale. Ma la sinistra non lo sa. Del primo non parla affatto. Del secondo parla a vanvera.
Il campo trans-nazionale, per una cultura politica che da Gramsci in poi lo ha arato per vocazione, è diventato terra incognita. Come lamenta Prodi, nessuno indica quale ruolo abbiamo in Europa, nel Mediterraneo, nel mondo. La Cina capital-comunista di Xi investe 1.800 miliardi di dollari sulla “Via della Seta”, mentre qui i nostri eroi combattono ancora la battaglia sugli 80 euro. L’Onu denuncia gli orrori dei lager libici, mentre qui i nostri eroi si rifugiano nella cinica contabilità del “piano Minniti”. McKinsey avverte che i robot possono sostituire 54 milioni di lavoratori in Europa e 9 milioni in Italia, mentre qui i nostri eroi si accapigliano sull’articolo 18.
Il campo nazionale, per un ceto politico che voleva costruirci una torre con le macerie dei due partiti di massa del Novecento, è diventato campo minato. Come lamenta Veltroni, la sinistra si arrocca a palazzo in un clima da Anni Trenta. Non sa più parlare a quel che resta del ceto medio, agli ultimi e ai penultimi della Grande Recessione. E lascia questo spazio ideale e sociale alla destra. Quella in doppio petto blu di Berlusconi che a 81 anni rinverdisce il suo Ventennio, quella in felpa verde di Salvini che vende tutto a saldo al supermarket delle paure, quella in “chiodo” nero di CasaPound che si fa Stato nel Paese- senza-Stato.
Non bastano né la narrazione governista né la torsione “socialista”, per recuperare il tempo e il terreno perduto. È ovvio che Renzi, Boschi, Lotti non sono solo un groviglio di trame di famiglia tra Rignano, Arezzo, Laterina. È evidente che Bersani, D’Alema, Speranza non sono solo un grumo di rancori personali deflagrati con la scissione. C’è di più, e c’è anche di buono, nelle azioni e nelle intenzioni di queste “anime perse” della diaspora. Ma non viene fuori, e comunque non serve a ricucire gli strappi. Queste sinistre non ci sono nei luoghi del lavoro delocalizzato, che ormai vota Lega, né in quelli del lavoro giovanile precario, che non vota più. Non ci sono nei non-luoghi come Ostia, dove invece le teste rasate con i tatuaggi del duce, oltre a botte e minacce, distribuiscono anche sacchi di pane, pasta e olio per gli anziani.
Tutta questa sinistra, un po’ riformista un po’ populista, sembra ora concentrata soprattutto nella “spartizione dei posti” (come accusa un’altra sua costola rotta, quella “civica” di Tomaso Montanari). Non vede più il Paese, che infatti se ne va. L’astensionismo è uno sbocco naturale, nella saldatura tra la crisi sociale e la crisi democratica: il 54% di non voto alle regionali in Sicilia è solo il prodromo di quello che accadrà alle politiche del 2018. Un bacino immenso di delusi, smarriti, arrabbiati, che neanche il cyber-populismo pentastellato riesce più a drenare.
L’altro sbocco, fatale, è quindi a destra. Una destra che nel Paese non ha mai cessato di esistere e forse di essere maggioritaria. Nel 2013 il Pdl perde 6,3 milioni di voti. Di questi solo un terzo va ai Cinque Stelle. Il resto finisce in frigorifero, congelato per quattro anni. Oggi, complice il totale fallimento dell’Opa renziana sul Centro e il mancato sfondamento grillino, il blocco si scongela e rifluisce di nuovo nel suo invaso d’origine. La destra, appunto. Ancora una volta a trazione forzaleghista. Non ancora un programma politico, perché dall’euro ai diritti civili la confusione lì dentro è sovrana. Ma già un elettorato, pronto a rispondere al “richiamo della foresta” come nel 1994, nel 2001, nel 2008.
Contro questa Resistibile Armata, oggi, sarebbe chiamata a misurarsi la sinistra. Ed è inaudito che non sia in grado di farsi almeno a sua volta “cartello”. Che i suoi leader non siano capaci di sminare il campo dalle troppe mine che loro stessi hanno seminato. Fino a un anno fa alle feste dell’Unità si sentivano dire: «Per favore, siate uniti». Oggi la preghiera è diventata anatema: «Per carità, mai con quegli altri».
È proprio questa sindrome “sconfittista” e “nichilista” che una classe dirigente credibile e responsabile dovrebbe saper curare, dentro se stessa e dentro il suo popolo. Guidando e invertendo la “fase”, che vede ogni sinistra in campo da sola, in ordine sparso, rassegnata a una consapevole disfatta. Pronta a essere minoranza nella prossima legislatura. Disposta a una lunga traversata nel deserto verso il nulla. La Nazionale si può liberare di Ventura, la sinistra si può condannare a questa sventura?
Corriere 15.11.17
«Noi civici vittime dei partiti, c’è chi è contro l’unità»
di G. A. F.
«Non c’erano le condizioni né di agibilità democratica né di contesto per garantire quell’assemblea costruttiva e sul programma che avevamo convocato». Sono le parole di Anna Falcone, avvocato, promotrice con Tomaso Montanari del fronte del No al referendum e animatrice del «Brancaccio», l’area civica che il 18 giugno ricevette il mandato di promuovere una lista unica a sinistra al Pd e che sabato si sarebbe dovuta riunire all’Angelicum .
E invece, avvocato Falcone, cosa è successo?
«Abbiamo provato fino all’ultimo a far ragionare tutti quanti (SI, Possibile, Rifondazione e Mdp ndr ). Purtroppo si sono già celebrate in Italia altre assemblee in cui i toni di una minoranza hanno avuto il sopravvento sulla maggioranza dei cittadini che hanno preso parte. Certi atteggiamenti non sono accettabili, non possiamo consentire che vengano trasposti nell’assemblea nazionale» .
A questo punto ritiene sia impossibile l’unità dell’intera sinistra?
«Dipende dal senso di responsabilità di tutti i partiti. Il nostro è stato un gesto forte ma necessario in un momento in cui o si costruiscono seriamente i presupposti di quella sinistra che non c’è ancora e di cui abbiamo parlato al Brancaccio. Oppure non riusciremo a convincere gli italiani su un serio progetto di lotta alle disuguaglianze e all’egemonia dei mercati sulle vite delle persone. Il nostro impegno era per una lista unica e per un programma coraggioso. Tutto passava dalla garanzia di metodi realmente democratici. Queste garanzie non le abbiamo avuto» .
Oggetto della discordia è anche la potenziale leadership di Pietro Grasso?
«Pietro Grasso è una persona che merita la massima stima e che non deve essere utilizzato come mera bandiera. Lui non ha ancora sciolto le riserve su questa sua candidatura».
La sua strada si separerà da quella di Montanari?
«Non c’è nessuna frattura fra di noi. Anzi continueremo insieme con la nostra associazione “Democrazia e Uguaglianza”, che non è un nuovo partito ma uno strumento con cui lavoreremo nel medio-lungo periodo» .
C’è un responsabile in questa vicenda?
«Qualcuno forse questa unità non la voleva fin dall’inizio».
A chi si riferisce, a Giuliano Pisapia?
«Secondo lei? Ci sono tanti che potrebbe rientrare in questo profilo» .
Repubblica 15.11.17
Anna Falcone
“Sciogliamo il gruppo del Brancaccio Con questi partiti non si può che litigare”
«Noi ci fermiamo qui. Non è possibile andare avanti, perché il progetto della sinistra unita si è trasformato in un ring tra quei partiti». Anna Falcone è, con Tomaso Montanari, leader del movimento civico del Brancaccio, dal nome del teatro romano in cui si erano convocati la prima volta.
Falcone, voi del Brancaccio siete artefici dell’ennesima scissione a sinistra.
«Ci siamo fermati per senso di responsabilità e coerenza. Io ho una enorme fiducia nei compagni di base, ma i vertici di quelle forze politiche hanno continuato a bisticciare. La contrapposizione poi tra le due forze di Mdp e Rifondazione era diventata una guerra».
Ma cosa vi ha allontanati: i vecchi riti della politica, la spartizione dei posti in lista?
«La coazione a ripetere, direi. Non si costruisce così una nuova sinistra. Noi abbiamo puntato a un discorso innovativo, di apertura a tutto quel popolo che si rifugia nell’astensionismo, di nuovi metodi».
Anche Rifondazione sulla cui struttura organizzativa vi siete appoggiati, vi ha attaccati alla fine.
«Non ci siamo mai appoggiati su Rifondazione. Siamo sempre e solo andati avanti con i volontari. Ma per l’assemblea del 18 novembre non c’erano più le condizioni di sicurezza».
Non vi sembra un po’ la scissione dell’atomo?
«Noi non ci siamo neppure organizzati in movimento, abbiamo puntato a un percorso e ci siamo messi a disposizione. L’abbiamo fatto non per sedere a un tavolo o per chiedere qualcosa in cambio. Sono dispiaciuta, molto».
Non avete apprezzato la scelta di Pietro Grasso, il presidente del Senato, come leader della nuova sinistra?
«Ho grande stima di Grasso e ho capito che anche lui è avulso dai tatticismi della politica e si è posto come garante di un percorso della sinistra, nonostante il ruolo che ha. E questo dà la misura di quanto gravi motivi di urgenza ci siano. A lui chiediamo che sia garantita la massima trasparenza perché quello che nasce a sinistra non sia una Sinistra arcobaleno con una spruzzata di civico».
D’Alema l’ha sentito?
«Non ho questa frequentazione. Lo ringrazio per tutto quello che ha fatto per il No al referendum costituzionale».
Ora cosa farete? E lei per chi voterà?
«Volevamo essere unificanti e siamo diventati bersaglio di critiche infondate e ingenerose da parte di Rifondazione comunista e terreno di conflitti. Io voglio sperare di votare per la sinistra che non c’è ancora. Ho apprezzato quanto detto da Fratoianni e Civati, però non c’è più tempo, è l’ultima chiamata».
(g. c.)
Repubblica 15.11.17
Grasso e Boldrini contro gli attacchi Pd “Noi imparziali, basta vederci in aula”
Polemica sulla discesa in politica dei due presidenti. Rosato: “La seconda carica dello Stato deve essere super partes”. Orlando: “È un passaggio all’opposizione senza precedenti”
Mdp: “È una strana idea della democrazia pensare ai loro ruoli come esercizio notarile”
di Tommaso Ciriaco
ROMA. Una campagna elettorale, due Presidenti delle Camere, mille scintille tra le sinistre pronte alla guerra. Nell’aria, quel profumo di elezioni che amplifica lo scontro. «Il duplice impegno di Grasso e Boldrini – ragiona nel cuore della Camera Ettore Rosato, potente capogruppo renziano - è oggettivamente una novità. E in un certo senso “scopre” le istituzioni. Non chiediamo le dimissioni, né penso che non possano fare politica. Rilevo però che esiste una differenza enorme tra la seconda e la terza carica dello Stato, perché il Presidente del Senato può trovarsi a ricoprire temporaneamente l’incarico di Capo dello Stato. Per questo deve essere super partes».
Quanto può stare stretta la casacca istituzionale a chi ha deciso di guidare un partito alle prossime elezioni, ecco il dilemma. E soprattutto: imboccare il sentiero della leadership politica non consiglia le dimissioni? È il tema sollevato ieri su Repubblica da Eugenio Scalfari, ed è al centro del dibattito tra le due sinistre.
Per Grasso, il nodo semplicemente non esiste. Preferisce «non entrare nella polemica», fanno sapere ambienti della Presidenza, anche perché l’unico metro di giudizio è l’imparzialità nella gestione dell’Aula, non certo la neutralità assoluta. E però, ricordano, non è certo il primo Presidente del Senato a fare politica. Per il resto - dicono - parlano i risultati, ad esempio l’unanimità con cui ieri la giunta presieduta da Grasso ha licenziato il testo di riforma del regolamento.
L’altra sponda è occupata da Boldrini. Che reagisce così, ufficiosamente: «Non è certo la prima volta che i Presidenti delle Camere fanno incursioni nel politico, pur in un quadro di riconosciuta terzietà. È sempre successo, almeno negli ultimi quindici anni». C’è chi ricorda che nel passato i suoi predecessori erano però anche leader di partito. «È vero - sostiene - ma il diverso curriculum non può diventare una ragione per non intervenire nel dibattito pubblico». E poi c’è sempre il richiamo alla gestione dell’Aula: «Ho sempre garantito terzietà. Si potrebbero fare tanti esempi, ma bastano quelli delle ultime caldissime settimane, quando di fronte alla richiesta avanzata da sinistra di non far porre la fiducia sulla legge elettorale, la scelta è stata quella di non opporsi alla decisione del governo, anche facendosi carico delle polemiche che sono seguite».
Non esiste un “manuale del Presidente”, certo. E però il nodo resta, e fa discutere: non si è più liberi lasciando lo scranno istituzionale? Il Pd di Matteo Renzi non sembra intenzionato a chiedere un passo indietro dei due Presidenti. Pesano ragionamenti e precedenti. E pesa, confessata sotto voce alle latitudini del Nazareno, anche la voglia di spendere l’arma polemica della partigianeria istituzionale contro i probabili “avversari in casa” della prossima campagna elettorale. Giorni fa, per dire, il braccio destro renziano Matteo Richetti ha stroncato le «fesserie» anti-Grasso di alcuni renziani dopo le elezioni siciliane. Ciononostante, segnala un problema: «Come ho già ricordato in un post, ho fatto il Presidente del “parlamento regionale” dell’Emilia Romagna e per il mio modo di concepire il ruolo di garanzia e super partes che viene affidato a questi incarichi, non mi sarei mai permesso di dire “non c’è più” a nessuna forza politica ». Si riferisce all’affondo di Grasso contro il Pd che «non esiste più», essendosi fermato a «quello di Bersani e di Sel». A sinistra l’aria che tira è esattamente questa, cordialmente ricambiata. «Immaginare che il ruolo di presidente delle due Camere si debba limitare a un esercizio notarile di quella funzione - attacca l’Mdp Francesco Laforgia - è una strana idea della democrazia».
Per paradosso, però, sono i pontieri dem che lavorano davvero alla coalizione di centrosinistra a vivere come un ostacolo all’unità l’attivismo di Grasso e Boldrini. Sentite Andrea Orlando a Radio Radicale: «L’assenza di una proposta politica chiara sostiene - ha creato spazi che hanno prodotto tentazioni e un effetto collaterale di distorsione degli equilibri istituzionali. Non trovo un precedente storico rispetto a un passaggio all’opposizione di tutti e due i Presidenti in una forma così esplicita e forte».
Se la sinistra si lacera, a destra si sorride di uno strappo che Piero Fassino proverà a ricucire contro ogni legge della fisica. E certo, il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli apprezza per davvero l’operato di Grasso, ma forse soffia anche un briciolo sul fuoco dello scontro a sinistra quando assicura: «Gli attacchi contro il Presidente sono gratuiti e inopportuni. Mai come ora sta dimostrando la sua terzietà».
La Stampa 15.11.17
Alleanze elettorali e caso banche
Si complicano le sfide di Renzi
di Marcello Sorgi
Prima ancora di cominciare, la trattativa a sinistra per cercare di ricostruire la coalizione si complica ogni giorno di più. Ieri è stata la giornata dello scontro tra il ministro di Giustizia Orlando, che in teoria dovrebbe essere l’interlocutore privilegiato dei fuorusciti dal Pd, e anche a questo scopo aveva tenuto lunedì un piede dentro e uno fuori dalla direzione del partito in cui Renzi, per la prima volta, aveva fatto un’apertura a tutte le componenti del centrosinistra, bersanian-dalemiani compresi. Orlando ha innanzitutto spiegato meglio la sua posizione, offrendo al segretario un apprezzamento che prima non aveva manifestato, e poi criticando i due presidenti delle Camere, per il ruolo politico, incompatibile con le loro attuali funzioni, che hanno assunto rispettivamente, Grasso per Mdp e Boldrini per Campo progressista. La risposta del capogruppo di Mdp La Forgia è stata dura, e certo non rappresenta un buon viatico per il negoziato che Fassino dovrebbe avviare per conto di Renzi, sia pure entro precisi confini, ribaditi anche ieri: parlare del futuro, senza abiure né veti. Ciò che ha convinto Bersani a ribadire che non ci sono le condizioni per un riavvicinamento.
In prospettiva, per Renzi, si complica anche la partita della commissione d’inchiesta sulle banche. Finora infatti, sia pure con la mozione anti-Bankitalia fatta votare alla Camera, il leader Pd su questo terreno era riuscito a non lasciare spazio al Movimento 5 Stelle. Il quale adesso sembra deciso ad alzare il tiro, con la richiesta di convocare in commissione l’attuale presidente della Bce Draghi, governatore ai tempi dell’acquisizione di Antonveneta da parte del Monte dei Paschi di Siena, che ne uscì dissestato; e l’ex-amministratore delegato di Unicredit Ghizzoni, indicato nel libro di Ferruccio De Bortoli come bersaglio di pressioni volte a far acquisire a Unicredit Banca Etruria. Le due mosse di M5S puntano chiaramente a mettere in difficoltà il Pd, che dovrà valutare se comportarsi con Draghi come ha fatto con l’attuale Governatore Visco. E soprattutto come reagire all’eventualità, tutt’altro che remota, che sia il presidente della commissione d’inchiesta Casini, adoperando i suoi poteri, a non autorizzare queste audizioni, per limitare, come ha detto fin dal giorno della sua elezione, il polverone che potrebbe alzarsi dalle deposizioni. L’orientamento del presidente, che non s’è ancora trasformato in decisione, solleverà di sicuro molte reazioni. A cominciare da quella dello stesso Movimento 5 Stelle, che accusa preventivamente Casini di voler mettere la mordacchia al lavoro dei commissari.
il manifesto 15.11.17
«Ciao, sono Piero». Alleanze, la mission impossible di Fassino
Democrack. L’ex segretario Ds manda sms a Civati, Mdp e Si per conto di Renzi In forse ancora l’incontro con Pisapia. Polemica su Grasso e Boldrini. C’è anche Prodi nell’agenda, così il mediatore spera di ottenere il sì dell’ex sindaco. Orlando corregge, non ha criticato i due presidenti: «Nessuna censura al loro operato». Ma il Pd li attacca
di Daniela Preziosi
«Sono Piero, ho bisogno di parlarti. Mi chiami?». Nel pomeriggio Pippo Civati si è trovato questo messaggio nel cellulare. «Piero» è Piero Fassino e in questo modo molto sciolto ha inaugurato il suo ruolo di ambasciatore per conto di Renzi. a caccia di alleanze a sinistra. Dei papabili alleati centristi si occuperà invece Lorenzo Guerini, mediatore meno caratteriale e più adatto alle missioni delicate. Ma il compito di Guerini è più semplice.
Quello che Renzi ha affidato a Fassino è quasi una mission impossible. E infatti ieri sera Mdp e Sinistra hanno mandato segnali di dubbio persino sull’utilità di un incontro. «Non c’è nulla in agenda», giurano da Mdp. Civati ci scherza: «Un incontro non si nega a nessuno». In caso, potrebbero inviare Guglielmo Epifani a nome del trio dei partiti della lista di sinistra (Mdp, Si, Possibile). Ma in fondo a che pro? Ragiona un dirigente bersaniano. «Fassino è poco adatto alle mediazioni, la proposta di un’alleanza con Alfano per noi è irricevibile. Ma tu incontreresti uno che sai per certo che ti vuole vendere una patacca?».
L’ex segretario potrebbe incontrare Romano Prodi nella speranza di arrivare al giro di incontri forte della sua benedizione. Venerdì toccherà ai verdi di Bonelli, poi ai socialisti di Riccardo Nencini, a Ignazio Messina dell’Idv, e di nuovo ai radicali italiani, che si sono già visti con Renzi lunedì scorso (senza chiudere nessun accordo). Ma il core business delle fatiche di Fassino è l’incontro con Giuliano Pisapia, l’unico a sinistra che potrebbe rispondere un sì, sempre ammesso che voglia ancora partecipare alla sfida delle politiche. Ieri lo ha sentito per telefono. L’appuntamento non è ancora fissato. Dovrebbe essere un faccia a faccia.
In serata l’ex sindaco ha riunito i suoi. Le sue intenzioni in queste ore sono particolarmente indecifrabili anche ai più stretti collaboratori. Soprattutto dopo l’assemblea di domenica in cui, con la sorpresa disegnata in volto, si è visto surclassare negli applausi da Laura Boldrini che diceva: «Per ora non ci sono le condizioni per un accordo con il Pd, purtroppo». E del resto la proposta di Renzi è sempre la stessa: un’alleanza da Alfano alla sinistra (sempreché il partitino di Alfano regga alle divisioni interne).
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La presidente della camera, insieme al collega del senato Piero Grasso, ieri è stata al centro delle polemiche, stavolta per l’impegno di entrambi a sinistra, venuto più allo scoperto in queste ultime settimane – che sono anche le ultime della legislatura: Grasso ha abbandonato il Pd ed è indicato come leader in pectore della lista di sinistra, Boldrini a sua volta domenica ha parlato da leader alla platea di Campo progressista. Il fatto è che a contestare la seconda e la terza carica di presunta non imparzialità non sono solo renziani d’assalto, come la senatrice Rosa Maria Di Giorgio, dopo aver letto Scalfari e De Bortoli.
A farsi scappare qualche parola di troppo è stato il ministro della Giustizia Orlando lunedì pomeriggio alla direzione del Pd. La frase che gli viene attribuita: «Tra lei e Grasso rischiamo di aver creato due mostri». Il Guardasigilli ieri ha passato la giornata a smentire. «Ho fatto una considerazione di carattere generale a proposito del fatto che in assenza di una prospettiva politica del Pd, che speriamo di aver superato, c’è il rischio di elementi di distorsione e di frammentazione che possono avere anche riflessi sul fronte istituzionale. Assolutamente nessuna censura sull’operato di Boldrini e Grasso», dice a Radio Radicale.
Da Montecitorio e da Palazzo Madama non arriva alcun commento. Del resto la polemica sa di strumentale – i due presidenti sono stati più volte contestati anche da sinistra nel corso della legislatura – e gli esempi di presidenti di una camera che hanno variamente praticato il loro impegno politico, non solo a fine legislatura, è lungo: da Fini a Casini, già leader di partito al momento della nomina, a Schifani.
Mdp difende Boldrini e Grasso, e con quest’ultimo si schiera anche il leghista Roberto Calderoli: «Gli attacchi contro il presidente Pietro Grasso sono gratuiti e inopportuni. Mai come ora sta dimostrando tutta la sua terzietà, come si vede anche dalla decisione che ha preso oggi di nominare me relatore della riforma del Regolamento del Senato». Approvata in giunta all’unanimità.
Corriere 15.11.17
Lo smarcamento dei presidenti rischia di aprire un nuovo fronte
di Massimo Franco
La polemica era in incubazione da giorni. E il fatto che a sollevarla sia un esponente del Pd critico con la segreteria come il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, le conferisce contorni in chiaroscuro. Ma ammonire che «il passaggio all’opposizione di tutti e due i presidenti delle Camere ha come effetto collaterale il rischio di una distorsione di equilibri istituzionali» suona come segnale d’allarme. Che la seconda e terza carica dello Stato si dissocino dalla maggioranza che li ha eletti, ricorda, non ha precedenti. Ma lo smarcamento di Piero Grasso e Laura Boldrini non è «solo responsabilità loro ma anche conseguenza di un vuoto di proposta politica».
Le parole del ministro sono affidate a Radio radicale . E seguono il suo intervento alla direzione del Pd di lunedì, dove aveva definito la scelta di Boldrini come un’anomalia «mostruosa». In quella riunione, Orlando si è astenuto sul documento finale. Anche perché il ministro accusa il vertice dem di non avere fatto abbastanza nemmeno per «aiutare» l’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, in bilico tra Pd e Mdp. Il rischio di un incidente istituzionale ha indotto in serata il ministro a correggere il tiro, assicurando di non avere voluto attaccare Grasso e Boldrini. Ma la loro adesione a una formazione decisa a contrastare i dem crea diversi malumori.
Il Pd può avere sottovalutato l’isolamento che soprattutto il presidente del Senato ha percepito. Il referendum del 4 dicembre 2016 che aveva tra i suoi obiettivi l’abolizione della «Camera alta», di certo non ha aiutato. Ma la tempesta è in arrivo e Mdp cerca di prevenirla, assicurando «la terzietà» dei presidenti. «L’attacco è appena cominciato», avverte il capogruppo alla Camera, La Forgia. «Questo sì, sarebbe qualcosa che indebolisce l’autorevolezza delle Istituzioni». La conferma della frattura a sinistra finisce tuttavia per mostrare responsabilità non del solo Renzi.
Il «troppo tardi» col quale Pier Luigi Bersani ha risposto all’offerta di dialogo del Pd non ha convinto tutti. E fa dire a un esponente storico come Emanuele Macaluso che «il suo gruppo non vuole ricostruire il centrosinistra perché giocano tutto, anche con Grasso, per sconfiggere Renzi». Per questo, la mediazione affidata dai dem a Piero Fassino per ricucire i rapporti è quasi disperata. E la confusione aumenta. Da una parte, sembrava che con la scissione di Mdp, il Pd finalmente potesse esprimere la strategia del partito-perno.
Ora, invece, appare intenzionato a trovare un compromesso con i suoi ex compagni, per paura di regalare la vittoria al centrodestra o addirittura al M5S. Il portavoce di Renzi, Matteo Richetti, garantisce «un cambio vero di strategia, non di tattica, anche se non è nelle corde del segretario. Il Pd da solo non vince». Ma il dialogo si apre con una diffidenza reciproca palpabile. E la reprimenda sui conti pubblici italiani in arrivo dalla Commissione europea, proprio mentre il partito renziano vanta i risultati economici del governo, non contribuirà a dissolverla.
Il Fatto15.11.17
Etruria Renzi sulla Banca d’Italia sapeva già tutto e non ha detto niente
risponde Giorgio Meletti
“Se si perde il referendum mi ritiro anch’io dalla politica” (le stesse parole del suo compagno di giochi). “Denuncio Ferruccio de Bortoli perché ha scritto il falso, ossia che io avrei fatto una telefonata all’Ad di Unicredit per il salvataggio di Banca Etruria, di cui non mi sono mai interessata”.
Queste due dichiarazioni di miss Sorriso, fatte coram populo, sono risultate in realtà due bugie clamorose, indegne di una onorevole sottosegretaria. Di fatto, è rimasta in politica e non ha denunciato nessuno. Ma a chiunque si deve dare la possibilità di riscattarsi. E allora, da cittadini, le rivolgiamo un paio di domandine: perché miss Sorriso non ci racconta le ragioni per cui, nel 2014, lei (ministra da pochi giorni), suo padre (nel Cda di Banca Etruria), il presidente di questa Giuseppe Fornasari, si incontrarono nella villa di Laterina col presidente Flavio Trinca e l’Ad Vincenzo Consoli di Veneto Banca? E visto che siamo in clima di confessioni, perché non ci dice pure due parole sulla telefonata intercettata in cui il padre, vicepresidente di Etruria, il 3 febbraio 2015, si rivolgeva a Consoli in questi termini: ”Io ne parlo con mia figlia, con il presidente domani e ci si sente in serata”. Sarebbe interessante sapere di che cosa doveva parlare con la figliola e col presidente (Renzi, forse).
Attilio Bellesi
Caro Bellesi, noi sappiamo molte cose dell’interessamento dell’onorevole Maria Elena Boschi per la banca di cui suo padre Pier Luigi era vicepresidente fino al momento del commissariamento, una settimana dopo la telefonata che lei ricorda. È evidente che, dopo aver mentito al Parlamento giurando di non essersi mai occupata di Banca Etruria, la notizia data da De Bortoli l’ha messa in imbarazzo. Quando poi il Fatto ha rivelato la riunione nella villa di famiglia di Laterina, l’onorevole Boschi non ha nemmeno smentito, tanto meno ha minacciato querele. Anche noi nei mesi scorsi abbiamo rivolto pressantemente una serie di domande alle quali la sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio non ha mai voluto rispondere. Lei è però più fortunato perché alla sua domanda siamo in grado di rispondere noi: gli uomini di Veneto Banca ed Etruria spiegarono alla neoministra delle Riforme il comportamento a loro parere scorretto della vigilanza bancaria della Banca d’Italia. Ed è questa, in fondo, la cosa più grave della vicenda. Oggi Matteo Renzi denuncia l’inadeguatezza e gli errori della vigilanza da capo di partito in campagna elettorale. Peccato. Sapeva già tutto appena insediato a Palazzo Chigi, quasi quattro anni fa. E non ha fatto e non ha detto niente. Nel frattempo sono saltate sette banche.
Giorgio Meletti
il manifesto 15.11.17
Tavolo pensioni, la Cgil prepara già la piazza il 2 dicembre
Anche contro la Manovra. Il direttivo chiama alla «mobilitazione»: dal governo niente su giovani e donne. Landini: serve un decreto per bloccare l’età. La Cisl: trattare fino all’ultimo, serve un accordo. La Uil: valutare la via parlamentare
Una manifestazione della Cgil a piazza San Giovanni a Roma
di Massimo Franchi
C’è già la data per la mobilitazione sulle pensioni (e contro la manovra). È sabato 2 dicembre. A meno di un assai improbabile ravvedimento totale del governo, la Cgil ha scelto la via della manifestazione nazionale a Roma.
IL DIRETTIVO DI LUNEDÌ SERA – in contemporanea con la partita della nazionale – dopo l’illustrazione dello stato della trattativa da parte di Susanna Camusso, ha dato mandato alla segreteria «a decidere tutte le iniziative di mobilitazione nazionale utili». La linea del parlamentino Cgil è chiara e univoca – solo tre voti contrari da parte della Rete – e fa perno sull’impietoso confronto fra la piattaforma unitaria sulle pensioni di Cgil, Cisl e Uil o gli accordi già previsti per la Fase 2, da una parte, e i risultati sbandierati dal governo nell’ultimo incontro. A parte il conto economico delle misure previste – il governo parla di 300 milioni, l’anno scorso la manovra ne stanziava (a detta dei renziani) 7 miliardi – è la completa assenza di capitoli interi a testimoniare la pochezza dei provvedimenti: niente pensioni di garanzia per i giovani. briciole per il lavoro di cura delle donne, niente in termini di flessibilità in uscita.
ANCHE SUL TEMA DELLE 15 categorie di lavori gravosi a cui non si applicherà lo scatto di 5 mesi a 67 anni di età pensionabile, Susanna Camusso ieri ha sottolineato: «Sono 50 mila le persone che per vecchiaia vanno in pensione ogni anno. Il governo dice che si parla del 10 per cento di quella platea e quindi stiamo parlando di soli 5 mila».
ECCO ALLORA CHE la richiesta della Cgil al governo è molto decisa: «Ci vuole un decreto per bloccare il meccanismo dell’innalzamento. Farsi prendere in giro non serve. Un conto è dire che c’è il blocco e non va avanti nulla, un’altra è dire che dal 2019 l’età aumenta ma nel frattempo discutiamo», spiegava ieri Maurizio Landini.
POSIZIONI CHE LA DICONO lunga su quanto si creda alla possibilità di un accordo nell’incontro definitivo convocato sabato mattina a palazzo Chigi.
Al parlamentino della Cgil però si è discusso – in primis lo ha fatto il segretario dei pensionati Spi Cgil Ivan Pedretti – anche di come evitare di rompere l’unità confederale faticosamente ricostruita in questi anni. L’ipotesi è quella di evitare di firmare il documento del governo e di lasciare al governo stesso presentare l’emendamento alla manovra con le – poche – migliorie uscite dalla trattativa lampo con i sindacati.
UNA POSSIBILITÀ che viene tenuta in considerazione anche da Cisl e Uil, seppur con valutazioni differenti. L’unità è infatti quotidianamente dimostrata sul territorio dove in varie fabbriche si tengono – lunedì alla Whirpool di Cassinetta (Varese) dove ha partecipato il segretario generale Uilm Rocco Palombella – sciopero unitari sulle pensioni.
IERI ENTRAMBE le confederazioni hanno tenuto i loro esecutivi. La Cisl ha risposto direttamente alla Cgil dando mandato ad Annamaria Furlan di «portare fino in fondo il negoziato», di «non disperdere i contenuti sino a oggi realizzati», affinché non si arrivi a scelte che rendano irrilevante la funzione sociale del sindacato». In pratica il ragionamento è: una volta che finalmente ci convocano a palazzo Chigi portiamo a casa un accordo.
LA UIL INVECE ha una posizione mediana. Chiede esplicitamente al governo «interventi per le pensioni dei giovani soggetti a lavori discontinui» e «la proroga dell’Ape sociale al 2019, oltre all’ampliamento delle categorie dell’Ape sociale per il 2018» e si differenzia dalla Cisl soprattutto per la prospettiva di usare «il confronto con le forze parlamentari» come grimaldello per ottenere il congelamento dello scatto d’età pensionabile come da emendamenti promessi da tutte le forze politiche, Pd compreso. E continua a parlare di «mobilitazione a sostegno delle rivendicazioni sindacali unitarie». Ma ad oggi immaginarsi una manifestazione unitaria il 2 dicembre è molto complesso. Quanto che il governo sabato sorprenda tutti.
Il Fatto 15.11.17
La retromarcia del Kurdistan
Il governo della regione autonoma irachena torna sui suoi passi: lo “Stato” dei curdi, osteggiato anche dal vicino Iran, è durato un mese e mezzo
di Roberta Zunini
Piegato nella volontà anche dal sisma che ha finora provocato oltre 500 morti e migliaia di feriti e sfollati, il Kurdistan iracheno ha infine alzato bandiera bianca e annunciato di accettare la sentenza della Corte suprema di Baghdad del 6 novembre che vieta la secessione di qualsiasi provincia dell’Iraq. “Crediamo che questa decisione debba diventare la base per iniziare un dialogo nazionale inclusivo tra Erbil e Baghdad per discutere tutte le questioni” in sospeso, si legge in un comunicato del governo regionale del Kurdistan.
Si dovrebbe aprire così una nuova fase nei negoziati, in stallo, tra le autorità di Erbil e quelle di Baghdad. La leva però è di fatto solo nelle mani del vicino iraniano, la Guida spiriturale Alì Khamenei, mentore dell’ex premier iracheno al Maliki, oggi formalmente vice di Abadi, sempre potentissimo. Baghdad, nonostante la presenza, residua, americana è ormai una provincia dell’Iran. Che prima ha voluto che Abadi chiudesse lo spazio aereo curdo e quindi ha ordinato di conquistare la città curda contesa, anche perché ricchissima di petrolio, di Kirkuk.
La posta in gioco di questa tragica farsa animata anche dal sultano Erdogan (in eterna trattativa con Putin contro gli alleati Nato americani e quotidianamente disposto a tutto affinché non nasca un abbozzo di stato curdo per emulazione entro i confini turchi) è costituita però non solo da Kirkuk, ma anche i valichi di confine tra Kurdistan e Turchia e tra Kurdistan e Iran dove transita ogni giorno una teoria infinita di camion carichi di petrolio.
Abadi ha dichiarato di aver accolto con favore la decisione del governo regionale del Kurdistan, per poi sottolineare subito dopo : “Riprenderemo però il controllo sulle aree di confine senza esitazione ma senza violenza. Del resto non possiamo aspettare per sempre”. Per indorare la pillola ai curdi fiaccati dal terremoto, Abadi ha inoltre ribadito l’impegno del suo governo a pagare gli stipendi dei lavoratori pubblici del Krg. In questo frangente ne avrebbero bisogno soprattutto i medici del pronto soccorso e gli infermieri degli ospedali pubblici che non ricevono il già misero stipendio da almeno 4 mesi. E intanto curano i feriti del terremoto.
Il paradosso che i curdi hanno dovuto affrontare, dopo le violente reazioni del governo centrale dopo il voto per l’indipendenza del 25 settembre, voluto dal clan Barzani e dal suo partito democratico del Kurdistan, è l’aver dovuto combattere contro le armi e i blindati americani dati dall’Iraq alle milizie sciite. Quegli americani ex amici contro i quali ha parlato la settimana scorsa l’ex presidente Masud Barzani, dopo le sue dimissioni rimasto “solo” a capo dei peshmerga usati dagli americani in funzione anti-Isis. Armi troppo pesanti così come il vento della storia che sembra girare sempre a sfavore dei curdi quando si tratta di “quagliare” e concedere loro uno Stato, almeno nel Kurdistan iracheno.
Corriere 15.11.17
La nuova edizione di «Atlantide» su La7
Purgatori: affronto la Storia anche con la formula del talk
di Renato Franco
Il racconto della memoria e dell’attualità è fatto di vite di donne e uomini e ogni storia nasconde spesso un segreto da scoprire o un ricordo da far riaffiorare. Da oggi in prima serata su La7 Andrea Purgatori racconta eventi e personaggi che sono il tessuto della nostra Storia nella nuova edizione di Atlantide , il programma di approfondimento storico e culturale della rete.
Purgatori, autore, giornalista e scrittore, rilegge il recente passato e il presente in controluce, scavando dietro gli avvenimenti e le storie personali dei protagonisti che le hanno vissute. « Atlantide è una testata storica di La7, in genere venivano presentati 1 o 2 documentari senza contesto — spiega Purgatori —, la nuova sfida è ripensare al format proponendo i documentari cuciti da un racconto grazie anche alle testimonianze di alcuni ospiti». La narrazione di un mini talk che sposa l’approfondimento di un argomento, l’attualizzazione di un tema partendo dalle sue radici storiche. «Mi affascina l’idea di questo doppio registro: il racconto per immagini e il racconto per parole». Si comincia con una delle coppie più celebri e discusse: John e Jackie Kennedy. «Un documentario ripercorre i sette momenti centrali della vita di un presidente diventato icona del sogno americano; l’altro è un ritratto privato della moglie: dopo la morte di Jfk, Jackie da modello da imitare è diventata modello da evitare, quasi rifiutata dagli americani. Io spezzerò le immagini con interventi che fanno da raccordo con il presente: i primi ospiti sono Furio Colombo e Jas Gawronski, due punti di vista assai diversi su Kennedy».
Nelle settimane successive (otto puntate, ogni mercoledì), Atlantide affronterà il tema della Terza Guerra Mondiale e la minaccia nucleare; il terrorismo e i fondamentalismi; l’ambiente e le trasformazioni della Terra.
In una società dove il pensiero è sempre più fast food e il ragionamento e la riflessione sono app inutilizzate, il pubblico come accoglierà questa sfida? «Proponiamo un’idea diversa di televisione, in questo momento non lo fa nessuno. È una scommessa, ma credo che il pubblico curioso si possa far catturare da un angolo di visuale originale rispetto al solito panorama».