Il Fatto 8.11.17
Caro Matteo, la rana di Fedro alla fine esplose
di Luisella Costamagna
“La
sconfitta ha qualcosa di positivo: non è definitiva. In cambio, la
vittoria ha qualcosa di negativo: non è mai definitiva”. Se Matteo Renzi
leggesse Josè Saramago, invece dei tanti incensatori-ventriloqui che
continuano imperterriti a pompare il suo ego ipertrofico, non
rischierebbe di fare la fine della rana della favola di Fedro, che a
forza di gonfiarsi esplose. Nel 2012 il suo pigmalione Giorgio
Napolitano disse di non aver sentito nessun boom dei grillini nelle
elezioni amministrative anche siciliane: oggi possibile che il Fonzie di
Rignano non senta il bum che gli arriva dall’isola? No, niente da fare.
Ammette
sì, tramite la Sibilla renziana Meli, che “la sconfitta è netta”, ma
“tutto come previsto, il risultato è quello che ci aspettavamo” e se
pure “cercano di mettermi da parte, non mollo”. Anche perché la colpa
mica è sua, ma di Grasso che non ha accettato la candidatura (e poi
st’ingrato ha pure lasciato il Pd) e della “trappola degli scissionisti”
Bersani e D’Alema che, dopo “la cilecca in Sicilia”, se ora decidessero
di correre da soli pure alle politiche, si prenderebbero “una
responsabilità non da poco”.
Maledetti vetero-comunisti che non
hanno digerito il fidanzamento siciliano con Alfano e adesso non
vogliono accompagnarlo all’altare da Berlusconi! Niente da fare, Renzi
come Fonzie non riesce a dire “ho sbagliato”, non riesce a fare mea
culpa: “sei stato tu, sei stato tu” ripete mulinando il dito accusatorio
a 360 gradi mentre si gonfia e gonfia.
Ancora aggrappato al 40%
delle europee 2014, quando gli italiani ancora non lo conoscevano bene e
furono “conquistati” con gli 80 euro in busta paga, ha rimosso tutte le
sconfitte elettorali degli ultimi tre anni fino alla Sicilia. Regionali
2015: la batosta epocale di Lady Like Moretti in Veneto e della Paita
nella rossa Liguria del decennale Pd Burlando. Comunali 2016: la
conquista grillina della Roma rutellian-veltronian-mariniana e di
Torino, con Fassino Appendino al chiodo. Fino alla storica dèbacle al
referendum del 4 dicembre quando, invece della luna del 60% degli
italiani che gli hanno detto NO, ha preferito il dito del 40% come se
fosse ancora il 2014.
Non che non sia apprezzabile vedere sempre e
solo il bicchiere mezzo pieno, non scoraggiarsi e ripetere con Simona
Ventura “Crederci sempre, arrendersi mai” o eleggere a manifesto
“L’ottimismo è il profumo della vita” dello spin-doctor Farinetti. Ma
qui – nella Penisola dei Leader Famosi – il calice renziano sembra ormai
a secco e se gocce di qualcosa ci sono ancora, non sembrano di acqua
dissetante bensì di assenzio obnubilante.
In questo ingiustificato
delirio d’onnipotenza, di cui – ripeto – non è l’unico responsabile
(chi nel suo partito e su stampa e tv continua a dirgli “gonfiati,
gonfiati”?), c’è però – sono sicura – uno squarcio di verità e
pentimento reale.
Possiamo scommettere che, tra i tanti errori
commessi che non vuole vedere, ci sia una decisione che ammette sia
stata uno sbaglio madornale, al punto da non dormirci la notte: essersi
dimesso da premier. “Tornassi indietro col cavolo che lo farei” – si
sente distintamente ad ogni stazione ferroviaria del suo tour
elettorale, ormai sorta di Via Crucis – e giù a mangiarsi le mani. Di
questo passo infatti, quando gli ricapita?