Il Fatto 4.11.17
Eva Cantarella
“Per i bidelli ero solo dottoressa: ci ho sempre riso sopra”
Io
sono mia – Nei primi anni Settanta Cantarella è alle prime riunioni di
Rivolta Femminile. Un femminismo, oggi racconta “forse per me troppo
estremo”
intervista di Silvia Truzzi
La sua
favola della buona notte era la storia di Ulisse e del Ciclope: “Mia
madre diceva a papà: ‘Così spaventi le bambine’. E lui rispondeva:
‘Cappuccetto rosso è molto peggio’”. In un saggio pubblicato 35 anni fa e
riproposto da Feltrinelli nel 2010 (L’ambiguo malanno. Condizione e
immagine della donna nell’antichità greca e romana), Eva Cantarella ha
scritto: “Ripercorrere la storia delle donne nell’antichità greca e
romana non è semplice curiosità erudita. I radicali mutamenti
intervenuti nelle condizioni della vita femminile, il riconoscimento
della piena capacità delle donne di essere titolari di diritti
soggettivi e di esercitarli, la conquista della parità formale con gli
uomini non hanno ancora interamente cancellato il retaggio di una
plurimillenaria ideologia discriminatoria”. Partiamo da qui e con lei
per fare un punto su un tema di cui si parla molto, dicendo poco.
Perché ha scelto Giurisprudenza?
Avrei
scelto Lettere, ma a Milano c’era mio padre (il grecista Raffaele, ndr)
che insegnava. Mi sarei sentita in imbarazzo ad averlo come professore.
Ho scelto Legge e non me ne sono mai pentita anche perché ho incontrato
un grande professore di Diritto romano, il mio maestro Giovanni
Pugliese. E il diritto romano mi ha consentito di leggere il mondo
classico anche alla luce delle regole giuridiche, spesso sottovalutate
dagli antichisti.
Il diritto greco non esisteva nelle Università.
Era
stato insegnato nella facoltà di Lettere di Firenze da Ugo Enrico
Paoli. Io ho cominciato a insegnarlo in quelle giuridiche grazie ad
Arnaldo Biscardi, successore di Giovanni Pugliese, che si era
appassionato alla materia seguendo i corsi di Paoli.
Nei primi anni Sessanta di assistenti donne all’università non ce n’erano molte, giusto?
Alcune
assistenti c’erano, ma non diventavano professori. Non volendo fare
l’assistente a vita quindi ho dato l’esame da procuratore e sono
diventata avvocato, ma quello che volevo fare era soprattutto studiare,
concentrandomi sulla ricerca, per cui ho mosso i primi passi verso
l’insegnamento come professore incaricato a Milano e poi a Camerino. A
quei tempi la strada per diventare di ruolo passava per un periodo di
addestramento in università diverse da quelle in cui ci si era laureati.
Un’esperienza positiva, sia detto per inciso, che allargava la mente
consentendo di conoscere altre scuole e altri metodi di ricerca. Dopo
nove anni a Camerino, vinto il concorso da ordinario, sono stata
chiamata a Parma (tre anni), a Pavia (altri tre anni) e nell’88 sono
tornata a Milano.
L’anno prossimo sono i cinquant’anni dal ’68. Lei che faceva allora?
Era
il primo anno in cui insegnavo a Milano, e devo dire che guardavo con
interesse alla protesta (anche se non ho mai accolto richieste come il
voto politico o quello di gruppo). Ero tornata l’anno prima da Berkeley,
dove allora studiava mio marito (il sociologo Guido Martinotti, ndr), e
lì avevo vissuto il momento delle prime rivendicazioni studentesche. A
San Francisco, al di là del ponte, c’era la beat generation, da
Ferlinghetti a Gregory Corso, che sostenevano la lotta per i diritti
civili. Diciamo che ero pronta a simpatizzare con i movimenti di
protesta.
Torniamo alla giovane assistente di Diritto romano: è stata discriminata in quanto donna?
Il
mio maestro Giovanni Pugliese giudicava i suoi allievi esclusivamente
sulla base del merito. Non sono mai stata e non mi sono mai sentita
discriminata da lui. Ricordo solo qualche tentativo da parte di alcuni
colleghi. Subito dopo la laurea, l’assistente anziano di Pugliese (di
sua iniziativa) mi disse che avrei dovuto ri-schedare i libri della
biblioteca dell’istituto. Tutti: al mio collega maschio (si era laureato
con me) non l’aveva chiesto. Ma quando gli dissi che ero disponibile se
il lavoro fosse stato diviso a metà, dopo un primo momento di sorpresa
accettò.
Gli studenti le riconoscevano l’auctoritas?
Sì: gli
studenti sono ricettivi, sentono la passione e l’impegno. Chi invece
non me la ha mai riconosciuta sono stati i bidelli: fino al giorno della
pensione per loro sono stata “dottoressa”, mentre i miei allievi il
giorno dopo la laurea erano già tutti professori. Devo dire, peraltro,
che la cosa mi ha sempre e solo fatto sorridere.
Altri episodi?
Ne
ricordo uno. Quando Pugliese lasciò Milano per trasferirsi a Roma io
ero assistente volontario e arrivò un posto da assistente retribuito. Il
nuovo direttore dell’Istituto disse che sarebbe andato al mio collega,
dato che io ero sposata: il sotto testo era che avevo chi mi manteneva…
Il mio posto fu quello successivo.
Ai cortei delle femministe partecipava?
Nei
primi anni Settanta ho partecipato anche alle prime riunioni di Rivolta
Femminile, fondata da Carla Lonzi, donna di grande cultura e
intelligenza, autrice di un saggio celebre intitolato Sputiamo su Hegel.
Un femminismo forse per me troppo estremo, per cui dopo qualche
incontro rinunciai. Successivamente ho preso parte ai gruppi di
autocoscienza.
Quelli dei processi ai maschi?
Ma no, non si
processava nessuno! Ci si riuniva in piccoli gruppi, nei quali si
discutevano i rapporti con gli uomini (di regola difficili e sofferti).
Anche se questo mi ha aiutata a capire aspetti della condizione
femminile che altrimenti non avrei colto, essendo poco portata alla
introspezione, dopo un breve periodo mi sono orientata verso un’attività
concreta, molto più consona al mio carattere. Le discriminazioni,
allora, erano veramente tante, sia sociali sia giuridiche. Fino al 1969
il codice penale puniva come reato l’adulterio (beninteso solo se
femminile); nel 1974 è stato indetto il referendum per abrogare
l’introduzione del divorzio; fino al 1975 il marito era il
“capofamiglia”, unico titolare della potestà sui figli; nel 1981 un
altro referendum ha tentato di far tornare l’aborto un crimine. E sono
solo alcuni esempi. Io pensavo che fosse quello il campo sul quale
impegnarsi, e cercai di farlo.
Oggi quali sono le urgenze?
Ce
ne sono tante, alcune delle quali, purtroppo, legate ai tentativi di
cancellare le conquiste ottenute: la vergogna delle obiezioni di
coscienza che costringono centinaia di donne, se ne hanno i mezzi, a
cercare ospedali a volte lontanissimi dove il loro diritto venga
riconosciuto, o a ricorrere all’aborto clandestino con i rischi che
questo comporta. E poi la disparità salariale e la mancanza di sostegno
alla maternità. I consultori familiari sono spariti, manca un sistema di
welfare statale. Ma la cosa forse più importante è combattere, a
partire dalle scuole, la tendenza maschile a maturare l’idea di una
presunta superiorità che porta a stabilire rapporti di malintesa
solidarietà mascolina, nei casi estremi alla base della mentalità del
“branco” che molesta e stupra le donne.
Che pensa della battaglia della presidente della Camera e di altre donne impegnate in politica sui nomi al femminile?
Onestamente
non mi pare sia un problema primario. Certo, la “prepotenza” del
maschile esiste. L’italiano non ha il genere neutro, e sono millenni che
il maschile comprende il femminile: nel II secolo a.C. il giurista Gaio
spiegava: “Non c’è dubbio che il termine uomo comprenda sia il maschio
sia la femmina”. La cosa è molto significativa e capisco il desiderio di
riequilibrare il rapporto tra i generi anche dal punto di vista
grammaticale. Ma farlo pone non pochi problemi linguistici. A volte la
desinenza femminile porta a risultati opposti a quelli voluti e,
paradossalmente, anche a risultati discriminatori. Prendiamo la vicenda
dei “segretari parlamentari” chiamati “segretario” anche se di sesso
femminile. Quando la presidente Boldrini ha proposto di chiamarle
“segretarie” si sono opposte: il segretario parlamentare ha una funzione
diversa da quella delle segretarie. La desinenza “essa” , poi (dal
greco -issa) a volte ha valore leggermente dispregiativo: il femminile
del francese maître ad esempio, vale a dire maîtresse, indica una donna
dai costumi non esattamente irreprensibili. Il problema insomma è
complesso, e tra l’altro pone degli interrogativi: che fare dei termini
con desinenza in “a”, ad esempio autista o lobbista?
Pubblico ministero è un esempio perfetto.
Certo.
Il problema è ben più complesso di quello che sembra. Per quanto mi
riguarda quel che conta è essere indicate con un termine che indica
chiaramente il ruolo, la funzione, il mestiere che ciascuna di noi
svolge.
Professore o professoressa Cantarella, quindi?
Scelga
lei, per me è lo stesso. Anche se quando mi chiedono “Che mestiere
fa?”, rispondo sempre “professore”… Tra le battaglie da combattere non
mi pare sia questa la più importante.
Favorevole o contraria alle quote rosa?
Quando
sono state introdotte, le quote sono state una grande conquista: penso,
ovviamente, alle quote per i neri negli Stati Uniti. Sulle quote rosa
in Italia e in questo momento ho delle perplessità. Se ne è parlato
molto, ultimamente, a proposito della protesta sullo scarso numero di
donne nei luoghi del potere e in particolare nelle alte cariche della
magistratura. Una protesta giusta e più che fondata. In magistratura.
come in altri ambienti, oggi le pari opportunità sono un problema di
vertice. Nel caso specifico le donne sono il 52% dei magistrati oggi in
servizio, ma la prima eletta al Comitato direttivo centrale dell’Anm,
nel 1980, è stata Elena Paciotti, successivamente prima eletta, nel
1986, al Consiglio superiore della magistratura e nel 1996 prima (e sino
a oggi unica) presidente dell’Associazione nazionale magistrati.
Finora, inoltre, nessuna donna è stata nominata presidente della
Cassazione, ma alla successione dell’attuale presidente concorrono anche
tre donne, e si può sperare che sia la volta buona. Tutto ciò premesso,
peraltro, le quote come mezzo per garantire le pari opportunità ai
massimi vertici delle professioni e degli incarichi mi lasciano
perplessa. Le discriminazioni vanno combattute dai primi anni di vita,
in famiglia e nella scuola. Ai livelli in cui la selezione dovrebbe
basarsi esclusivamente sul merito, le quote potrebbero risolversi in un
errore. So che è considerata cosa non femminista, ma non ho mai
condiviso l’idea che con più donne ai posti di comando, il mondo sarebbe
migliore. A volte si sente dire che ci sarebbero meno guerre, come se
le donne fossero tutte contrarie alle guerre e alla violenza, per
ragioni di sesso.
Che pensa della teoria della differenza?
È
un discorso difficile e complesso, a proposito del quale sono
certamente influenzata dall’aver studiato a lungo la storia della
condizione femminile nell’antichità classica, dove le discriminazioni di
cui erano vittime le donne trovavano il fondamento proprio nell’idea
della loro differenza, regolarmente tradotta in inferiorità sia fisica,
sia morale, sia intellettuale. Certamente, oggi le cose sono diverse,
perché a sostenere la teoria della differenza sono le donne, non gli
uomini, ma il mio timore (e la mia sensazione) è che il femminile venga
ancora identificato più o meno come un tempo: per limitarmi a un esempio
con la presunta maggior propensione alla cura.
Infuria il caso Weinstein. Che impressione le fa?
È
un caso al tempo stesso chiarissimo e molto delicato. Da un canto –
chiarissima – sta la viltà inqualificabile dell’uso maschile del potere,
che in campo sessuale purtroppo non è cambiato nei secoli. Dall’altro
sta la necessità di non fare di ogni erba un fascio, di non dimenticare
che ci sono state e ci sono donne capaci di dire no, e di distinguere
quelle che, vittime di uno squilibrio di potere sociale ed economico,
sono state costrette a cedere perché psicologicamente (anche se non
fisicamente) costrette da quelle che invece hanno accettato lo scambio
per ottenere un risultato, compiendo una libera scelta che ciascuno può
giudicare come crede ma che rientra nella sfera della libertà
individuale.
Per anni la donna oggetto, per esempio nella
pubblicità, è stata messa all’indice. Oggi per molte ragazze la libertà è
mettersi mezze nude sui social: c’è una contraddizione?
C’è una
povertà educativa spaventosa. Quando nasci in condizioni di miseria
culturale e morale puoi credere che il massimo della libertà sia esporre
il corpo. Il ventennio berlusconiano ha invertito la scala di valori e
le donne cresciute in quel clima l’hanno assorbito. Colpisce molto la
reviviscenza della violenza contro le donne, altro frutto della povertà
educativa, che non ha a che fare solo con la scuola. Anche se è
indubbio, purtroppo, l’abbassamento del livello di preparazione degli
studenti. E, ahimé, anche della conoscenza della lingua italiana.
Le due cose sono collegate?
Inevitabilmente.
E a questo proposito trovo semplicemente lunare la sperimentazione del
liceo breve in quattro anni. Per non dire dell’alternanza scuola-lavoro,
che si risolve in tempo sottratto allo studio. La funzione della scuola
è formare cittadini. Ovviamente nella speranza che al termine degli
studi trovino un lavoro: ma sono ben altre le misure da prendere perché
questo possa accadere.