Il Fatto 30.11.17
I bonus bebè, la beffa in un paese senza più figli
di Elisabetta Ambrosi
Se
sono una lavoratrice autonoma con due figli di tre e cinque anni, tutto
ciò a cui ho diritto oggi, pur avendo messo al mondo due bambini, sono
unicamente i miseri sgravi fiscali di sempre, che coprono a malapena le
spese per il latte. Niente bonus mamma domani, niente bonus asilo nido o
bonus bebè (quest’ultimo solo per i nati dal 2015), niente assegni
familiari, cui hanno incredibilmente diritto solo i lavoratori
dipendenti. Allo stesso modo, anche se ho un bambino nato nel 2015, ma
un reddito Isee di 26.000 euro, non avrò diritto ad altro che i soliti
sgravi: niente bonus bebè (tetto di 25.000 euro) e niente bonus asilo
nido (solo per i nati dal 2016).
Se invece sono così fortunata da
avere un figlio dopo il 2016 e un reddito basso, allora potrò usufruire
di mille euro di bonus nido – non cumulabile però con il voucher per
nidi e baby sitter, molto più conveniente – sufficienti più o meno per
un paio di mesi di retta, visti i costi attuali degli asili. Poi sì,
potrò avere anche il bonus bebè di 80 euro al mese (riecco i magici 80
euro), in pratica soldi che non coprono neanche la spesa dei pannolini.
Ma attenzione, se deciderò di fare un altro figlio, il suo bonus bebé
sarà diverso da quello del fratello. Il secondo potrà infatti godere di
soli 40 euro – ma d’altro canto allora le elezioni saranno passate – e
soltanto per un anno invece che tre, come se le necessità di un bambino
cessassero dopo dodici mesi.
A spiegare quanto sia inutile e
persino offensiva questa ragnatela di misure – definita erroneamente “a
favore delle famiglie”, quando invece è destinata solo ad alcune
famiglie e in modo insufficiente – non servono parole: bastano
direttamente i dati arrivati dall’Istat: 100.000 bambini in meno
dall’inizio della crisi economica a oggi, con un media di figli per
donna che precipita a 1,34. Un calo che coinvolge anche le straniere, a
dimostrazione di quanto la decisione di non fare figli sia sempre meno
culturale e sempre più legata all’angosciosa mancanza di lavoro e di
soldi.
Da anni i sociologi, inascoltati, continuano a dire che le
politiche sociali non si fanno con i bonus, che ci vogliono misure
universalistiche, cioè assegni svincolati da criteri assurdi e
soprattutto versati fino alla maggiore età del figlio, perché un
adolescente incide sul bilancio familiare – basti pensare a quanto
mangia! – anche più di un bebè. Ma nulla: si continua con l’ipocrita e
ideologica politica delle mance e degli slogan, quelli di ieri –
ricordate i mille asili in mille giorni? – e quelli di oggi, come la
recente promessa di Renzi alla Leopolda di estendere gli 80 euro alle
famiglie con figli. Puro marketing elettorale.
Perché chi volesse
veramente proteggere le famiglie dovrebbe, oltre ad introdurre assegni
veri, proteggere il lavoro, non renderlo strutturalmente precarizzato
con il Jobs Act salvo poi varare inutili sgravi fiscali una tantum per
chi assume. Oppure introdurre un reddito minimo sostanzioso, non come il
tanto sbandierato Rei, pubblicizzato citando la cifra di 485 euro al
mese: vera, certo, peccato che destinata a famiglie di 5 o più persone e
con un reddito Isee non superiore a 6.000 euro (e solo per 18 mesi!).
La
realtà è un’altra: quella di giovani uomini e donne (più vicini ormai
ai loro nonni che ai loro genitori, ma senza l’allegria di una famiglia
numerosa), che lavorano, quando lavorano, con contratti ormai in
maggioranza a termine e importi ridicoli. E che per questo spesso
rinunciano – con una sofferenza che nessuno racconta – a fare figli, o
ne fanno uno solo, col rischio concreto di perdere il lavoro e privando
un bambino della gioia incommensurabile di avere fratelli. Siamo un
Paese sempre più vecchio, esposto a squilibri demografici ormai certi. E
soprattutto con una classe dirigente incapace di capire che sui bambini
si fonda tanto la nostra felicità quanto la nostra futura sussistenza.