Il Fatto 2.11.17
Da Cuffaro alla Tigre Arkan: una vita di scoop e di Rai
Milena
Gabanelli - La clamorosa rinuncia dell’azienda alla fuoriclasse del
giornalismo televisivo, dai reportage senza troupe al boom di Report
di Gianluca Roselli
Non
sappiamo se per indifferenza, ignoranza o supposta furbizia. Sta di
fatto che ai piani alti di Viale Mazzini probabilmente non ci si rende
conto di cosa voglia dire essersi lasciati scappare Milena Gabanelli. La
sensazione che arriva è che, con le sue dimissioni, in Rai si siano
tolti un problema, mentre invece lo si è creato. Perché lo spazio
lasciato vuoto è enorme.
Basti pensare che la sua creatura
televisiva, Report, è diventato un marchio di giornalismo investigativo a
livello mondiale. Un brand che Gabanelli, al contrario di altri, ha
lasciato come patrimonio all’azienda. Una trasmissione che va bene anche
senza di lei, segno che la squadra che si era scelta è di alto livello,
a partire dal suo braccio destro, Sigfrido Ranucci, che ha preso in
mano il programma dal novembre 2016 dopo l’annuncio di Milena di
lasciare dopo 20 anni. Chissà quanto Gabanelli avrebbe ancora potuto
dare al servizio pubblico, è la questione che dovrebbero porsi a Viale
Mazzini. Ed è proprio alla redazione di Report che la giornalista ha
fatto visita, sfogandosi, martedì pomeriggio. Un incontro quasi più
emozionante di quando, a quella stessa redazione, annunciò la sua
intenzione di abbandonare la sua creatura, perché dopo tutto quel tempo
riteneva esaurito il compito.
Due giorni fa la tristezza ha
lasciato spazio a delusione e amarezza. Con la consapevolezza, però, di
essere nel giusto. “Lunedì prossimo dirò in video cosa penso di questa
vicenda”, fa sapere Ranucci che, come gli altri della squadra,
considerano l’aver lasciato andar via Milena una bestemmia in chiesa.
“Gabanelli è l’ultima giornalista a fare inchieste vere, in un momento
in cui su tutti i giornali sono state abbandonate”, disse di lei Giorgio
Bocca.
I suoi primi passi, però, sono da inviata di guerra. Nel
1987, infatti, inizia a lavorare con Giovanni Minoli a Mixer, per cui
confeziona servizi da ex Jugoslavia, Cambogia, Mozambico, Vietnam, un
servizio sui venditori di reni in India, un altro sulla Yakuza
giapponese. E poi Birmania, Sudafrica, Somalia, Cecenia. Qui, mentre sta
riguardando il girato, una pallottola le passa a pochi centimetri dalla
testa.
È l’unica giornalista italiana ad aver messo piede, nel
1990, a Pitcairn, l’isola dove ancora vivono i discendenti degli
ammutinati del Bounty del 1790. E proprio in uno di quei viaggi, per
puro caso, le capita di confezionare un servizio con il metodo del
videogiornalismo. “Ero a Belgrado e la troupe che doveva seguirmi non è
mai arrivata. Mi sono arrangiata con una piccola telecamera che mi
avevano prestato e ho portato a casa il pezzo”, ha raccontato lei
stessa.
Da lì inizia la passione per questo modo di fare
giornalismo in voga nel mondo anglosassone ma che da noi non si era mai
visto: il cronista che, con una cinepresa portatile, diventa anche
cameraman. Una tecnica che nel 1994 può sperimentare per due stagioni a
Professione Reporter, l’embrione di Report, che parte invece nel 1997
nella Rai3 diretta da Minoli. Che in Milena aveva visto una marcia in
più. “Me la segnalò Alberto La Volpe, direttore socialista del Tg2. Fece
reportage strepitosi. In Jugoslavia salì sul carro armato della tigre
Arkan”, ha raccontato il giornalista in una recentissima intervista. Ed è
con Report che arrivano le inchieste più importanti. Come quella su
H3G, con una richiesta di risarcimento di 137 milioni di euro da parte
dell’azienda telefonica.
O su Totò Cuffaro, nel 2005, quando era
governatore siculo (La mafia che non spara). Sulle truffe effettuate con
i derivati finanziari e sulle piume usate nei giubbotti Moncler. Dopo
una puntata sulle retribuzioni d’oro dei manager e gli affari con la
Russia del 2003, l’Eni le chiese un risarcimento di 25 milioni di euro.
Un’altra sul malfunzionamento dei treni causò la richiesta di 60
miliardi di vecchie lire da parte di Ferrovie.
Inchieste su
piccoli e grandi settori, dall’economia alla politica, dalle aziende
private a quelle pubbliche, che hanno scoperchiato vasi e messo le dita
negli occhi al potere. Tante denunce e querele, ma in tribunale nessuna
causa persa, nessun risarcimento pagato. E censure? “Della Rai si può
dire tutto, ma in tanti anni non ne ho mai subita una, nemmeno quando ci
siamo occupati dei grandi inserzionisti”, racconta Gabanelli. Anche se a
volte la minaccia da Viale Mazzini di togliere la tutela legale al
programma arrivava.
Un momento di forte attrito ci fu con l’ex dg
Flavio Cattaneo: Giulio Tremonti, allora potente ministro dell’Economia,
chiese la modifica di un servizio. “Discutemmo qualche ora ma
l’inchiesta andò in onda così com’era”, ha ricordato Gabanelli
nell’intervista dell’ottobre 2016 dove spiegò il suo addio a Report.
“Cosa
farà ora?”, le fu chiesto. “Sono affascinata dalle novità narrative,
come il data journalism. In Rai esiste un piccolo gruppo di lavoro che
potrebbe diventare un’agenzia interna a disposizione del nuovo sito di
informazione che sta costruendo Carlo Verdelli. Non mi dispiacerebbe
lavorarci sopra”. Ecco, appunto. È passato solo un anno e sembra un’era
geologica.