lunedì 27 novembre 2017

il Fatto 27.11.17
La libertà di Sartori, antidoto all’Italia ostaggio di B. e Renzi
Il politologo di Firenze ci ha lasciato un monito sempre più attuale in questo lungo inizio di campagna elettorale: diffidare di ogni corte, di ogni servilismo, difendere la complessità del pensiero come garanzia di autonomia
di Maurizio Viroli

Giovanni Sartori ha messo al servizio della sua passione civile una scienza politica, ma forse il termine più giusto sarebbe una saggezza politica, che si avvaleva di diversi stili di pensiero: comparativo, analitico, interpretativo, storico. Grazie al suo metodo, Sartori è stato in grado di capire bene le vicende italiane.
Che Sartori non sia stato uno scienziato politico distaccato dai problemi del suo tempo, lo dimostra la prefazione a Mala tempora (2004), che raccoglie articoli scritti fra l’aprile del 1994 e il settembre del 2003: “Dio, può darsi che le mie battaglie non valgano granché. Ma anche ammesso, in ipotesi, che siano invece ben combattute, mi sa che le perderei lo stesso. Le perdo, oltretutto, perché non son imbrancato. E in un paese senza anticorpi il ‘fuori branco’ resta solo: una voce fuori coro e senza coro, senza sostegno. Ma sono oramai troppo vecchio per cambiare. A perdere sono abituato. A sottomettermi, a piegare la schiena, non mi abituerò mai. Più i tempi vanno male e più voglio stare dritto”. Tenere la schiena dritta è la lezione più necessaria di coscienza civile perché rivolta a curare il conformismo e lo spirito servile, mali secolari dell’Italia.
Fra i suoi attrezzi di lavoro aveva un posto d’onore il metodo comparativo seguito dai grandi scienziati politici moderni, primo fra tutti Alexis de Tocqueville. Quando Sartori volle capire il sistema di potere di Silvio Berlusconi, lo paragonò, accogliendo il suggerimento del suo (e mio) editore Giuseppe Laterza, al “sultanato”: un potere personale che domina come un padrone sui servi. “[Berlusconi] si è così dato a costruire, all’interno di Palazzo Chigi, e della sua personale sfera di potere, un sultanato. Mi sono divertito a battezzarlo così perché il termine (islamico) è evocativo, insieme, di fasto e di potere dispotico […] Il Cavaliere sultaneggia su un partito cartaceo davvero prostrato ai suoi piedi. Nomina ministri e ministre chi vuole. Caccia chi vuole, come se fosse personale di servizio. […] Non manca, nel suo governo, nemmeno un gradevole harem di belle donne. Il sultanato era un po’ così” (Il sultanato, 2009)
Devo confessare che la scelta del termine ‘sultanato’ non mi convince: troppo esotico. Preferisco ‘corte’ e ‘sistema di corte’, perché più adatto a descrivere il potere berlusconiano e meglio radicato nella storia italiana dove è nata tanto la corte, quanto la teoria della corte. Si pensi al libro Del Cortegiano di Messere Baldassar Castiglione (1528). ‘Sultanato’, tuttavia, funziona per spiegare lo spirito servile che il sistema berlusconiano ha rafforzato e diffuso, come un cancro, in Italia: “Le cose che mi spaventano sono ormai parecchie; ma il livello di soggezione e di degrado intellettuale manifestato in questa occasione [l’approvazione del lodo Alfano che garantiva la sospensione del processo penale alle alte cariche dello Stato] da una maggioranza dei nostri ‘onorevoli’ (sic) mi spaventa di più di tutto”.
Uno dei termini che gli oppositori usavano per denunciare il regime di Berlusconi era ‘dittatura’, anche per l’assonanza con il concetto di ‘dittatura fascista’. Ma, ammoniva Sartori, “dittatura non deve essere usato a vanvera”. Le dittature contemporanee, precisava, sono Stati caratterizzati da “Costituzioni incostituzionali”. Stati la cui forma (Costituzione) consente e autorizza un esercizio concentrato e incontrollato del potere politico. Nessuno si dichiara più dittatore”. Costituzioni incostituzionali sono per Sartori le costituzioni che i governanti privano delle strutture garantistiche che proteggono i cittadini dagli abusi di potere e danno loro la possibilità di affermare la propria libertà.
Se dittatura è questo, si chiede Sartori, Berlusconi è un dittatore? No, non viola la Costituzione. Ma sarebbe potuto diventarlo se fosse riuscito a realizzare la riforma costituzionale che aveva proposto e che mirava a “depotenziare e fagocitare i contro-poteri che lo intralciano”. Nel 2006 abbiamo respinto con il referendum la riforma di Berlusconi e fermato la sua ascesa verso un regime autoritario. Un anno fa abbiamo sconfitto, ancora con un referendum, il progetto di riforma costituzionale voluto da Renzi. Come nel 2006, Sartori è stato dalla parte del “No” perché considerava la riforma caotica e pericolosa.
La cattiva cultura alimenta la cattiva politica, e viceversa. Anche per questo, Sartori guardava con preoccupazione al degrado intellettuale che la televisione ha contribuito a diffondere. Lo preoccupava, in particolare, l’ormai diffusa inettitudine a pensare per concetti. “Tutta la nostra capacità di gestire la realtà politica, sociale ed economica nella quale viviamo, e ancor più di sottomettere la natura all’uomo, si impernia esclusivamente su un pensare per concetti che sono – per l’occhio nudo – entità invisibili e inesistenti”. Mentre l’homo sapiens sa pensare anche senza vedere, l’homo videns creato dalla televisione sa vedere ma non sa pensare. E chi vede senza pensare può essere facile vittima dei demagoghi.
Machiavelli, cinquecento anni fa, ammoniva a non giudicare i prîncipi “agli occhi”, ovvero dalle apparenze, ma a cercare di intendere il significato delle loro azioni. Sartori, fiorentino come Machiavelli, ci ha lasciato una lezione simile di saggezza che ci può aiutare a capire i nostri tempi e a difendere la nostra libertà.