domenica 12 novembre 2017

Corriere Salute 12.11.17
Impariamo a pensare positivo degli altri
D.d.D.

Diversi interventi consentono di aumentare il numero di contatti di un individuo, ma non sempre ne deriva una reale diminuzione del sentimento di solitudine, che dipende più dalla qualità delle relazioni che dalla loro quantità. Però ci sono anche interventi destinati a migliorare le abilità sociali di chi è solo. «Per chi non ha tali abilità, questi sistemi possono avere una certa efficacia, ma la realtà è che le persone si ritrovano da sole per molti e diversi motivi oltre a quello di non avere sufficienti abilità sociali», puntualizza Stephanie Cacioppo del Center for Cognitive and Social Neuroscience dell’Università di Chicago, autrice di diversi studi sull’argomento.
Quindi c’è bisogno anche d’altro, e recenti metanalisi di studi clinici hanno mostrato come i migliori risultati si ottengano con la psicoterapia individuale cognitivo comportamentale. Dice ancora la professoressa Cacioppo: «La chiave di questa forma di trattamento sta dell’educare le persone a identificare i pensieri negativi automatici che hanno nei confronti degli altri e più in generale rispetto alle interazioni sociali, e nel considerare questi pensieri negativi come possibili ipotesi false che necessitano di essere verificate piuttosto che come fatti sui quali basare il proprio comportamento».
Quando poi l’individuo solo è un bambino o un adolescente, la questione diventa ancora più delicata. «Lo sguardo attento di un genitore o di un educatore può individuare situazioni in cui i bambini e gli adolescenti rimangono spesso da soli, seppure inseriti in contesti di gruppo, e distinguere le situazioni da osservare con preoccupazione da quelle da valorizzare come risorse evolutive», puntualizza Paola Corsano dell’Università di Parma, autrice di molte pubblicazioni sulla solitudine in età infantile e adolescenziale. «Criteri di valutazione quantitativi e qualitativi possono essere utili: la frequenza dei comportamenti solitari, il gioco o l’attività a essi associati, la tonalità emotiva manifestata, sono tutti indicatori del significato della condizione solitaria e soprattutto del sentimento di solitudine provato. «Partendo da questo primo sguardo — prosegue la professoressa Corsano — si può passare, e meglio sarebbe se lo facessero dei professionisti, all’utilizzo di strumenti che consentono di individuare una vera e propria condizione di solitudine, distinguendo anche gli ambiti in cui è vissuta, ad esempio rispetto ai pari, ai genitori, alla scuola».
Gli interventi oggi messi in atto dagli specialisti sono strettamente legati all’origine del sentimento di solitudine. «Se deriva dalla difficoltà a inserirsi nel contesto relazionale, o dal rifiuto da parte dei pari, sono fondamentali interventi di potenziamento delle abilità sociali — dice ancora Corsano — come interventi di rafforzamento dell’autostima e la creazione di “nicchie di opportunità sociale”, situazioni sociali semplici e protette, ad esempio piccoli gruppi, in cui è più facile inserirsi e dove acquisire sicurezza sulle proprie capacità relazionali. Questi interventi possono essere attuati in collaborazione con insegnanti e genitori con la supervisione di uno psicologo. La loro efficacia è maggiore quanto più l’intero contesto, gruppo, classe, famiglia, viene coinvolto.
«Oggi poi, soprattutto tra gli adolescenti — conclude Corsano — il sentimento di solitudine può essere originato dalla difficoltà a tollerare di non essere “connessi”. In ambito familiare, ma anche nel contesto scolastico e a livello culturale e sociale, sarebbe importante far acquisire la capacità di stare soli, di accettare che gli inevitabili momenti di solitudine possano diventare una risorsa personale»