Corriere Salute 12.11.17
La solitudine va curata
Diversi studi indicano ormai che il sentirsi soli dovrebbe essere cinsiderato una significativa variaile di salute
La
sensazione di solitudine è come un vero dolore fisico e proprio questo
ci spinge a trovare il modo per difenderci, creando nuove reti di
amicizie o recuperando quelle vecchie. Ogni età della vita ha però le
sue esigenze. C’è anche chi ha bisogno d’aiuto per riattivare le proprie
capacità relazionali
Sentirsi soli fa male Ma abbiamo gli anticorpi
di Danilo di Diodoro
Tante
seccature della vita quotidiana nascono dall’interazione con altre
persone, ma uscire da queste rete di relazioni può portare a un
situazione da tutti temuta: sentirsi soli.
E il sentimento di
solitudine fa stare male e può farci persino ammalare, a dimostrazione
di quanto la nostra natura sia profondamente sociale.
Una ricerca
sugli effetti deleteri che la solitudine può avere sullo stato di salute
è stata pubblicata da psichiatri e cardiologi tedeschi che hanno
studiato oltre quindicimila persone, tra i 35 e i 74 anni, seguendole
per cinque anni, durante i quali è stato tenuto sotto costante controllo
il livello di salute psicofisica associato alla valutazione della
presenza di un sentimento di solitudine. «La solitudine crea
significativi rischi in termini di salute mentale, sia per quanto
riguarda la depressione, sia per quanto concerne il livello di ansia»,
affermano i ricercatori tedeschi, guidati dal professor Manfred Beutel
del Department of Psychosomatic Medicine and Psychotherapy della
Johannes Gutenberg University di Mainz .
«La solitudine aumenta
anche la probabilità di essere fumatori, un classico indicatore di uno
stile di vita sbagliato. La ridotta qualità della salute mentale può poi
essere causa di un maggior numero di visite dal medico, di ricoveri e
di utilizzo di psicofarmaci. Presi nel loro complesso questi risultati
danno un solido supporto alla convinzione che la solitudine dovrebbe
essere considerata di per sé una significativa variabile di salute».
Ma
questo sentimento non è però semplicemente l’equivalente dello stare da
soli, si tratta piuttosto di uno stato emotivo che riflette
l’esperienza spiacevole del soffrire di isolamento sociale.
Viceversa,
se non esiste questo specifico stato emotivo, anche se si hanno pochi
contatti sociali, non si producono effetti negativi sulla salute.
Per
la vera solitudine, insomma, deve esistere una discrepanza tra i nostri
bisogni sociali e la loro possibilità di realizzazione nell’ambiente in
cui ci si trova a vivere.
Fortunatamente quando si percepisce davvero un doloroso senso di abbandono si attiva una spontanea ricerca di contatti sociali.
Secondo
Pamela Qualter, della School of Psychology dell’University of Central
Lancashire, autrice di uno studio su come evolve la solitudine nelle
varie età della vita, proprio l’attivazione di questa spontanea ricerca
di contatti fa sì che la vera e profonda solitudine sia spesso
un’esperienza transitoria.
L’evoluzione ci ha infatti portato a
sviluppare una serie di meccanismi interiori che ci spingono a ricercare
connessioni per vincere la sensazione di isolamento, un processo che è
stato chiamato spinta alla riaffiliazione .
Spiega la
professoressa Qualter in un articolo pubblicato in Perspectives on
Psychological Science : «Proprio come il dolore fisico è un segnale che
si è evoluto per spingere una persona ad avviare azioni per minimizzare
il danno al proprio corpo, così la solitudine motiva la persona a
minimizzare il danno al proprio corpo sociale».
È questa spinta alla riaffiliazione che motiva a rimettersi in gioco, a riallacciare vecchi contatti, a cercarne di nuovi.
Tutte
le età della vita sono soggette al rischio di solitudine, ma le
caratteristiche del rischio sono diverse con il passare degli anni.
Se
nella prima infanzia è la capacità di condividere le attività e i
giochi a determinare la possibilità di stare nel gruppo dei pari, presto
i bambini procedono verso più articolate esigenze dello stare insieme.
«I
piccoli passano dal semplice desiderio di stare fisicamente vicini gli
uni agli altri al bisogno di un’amicizia più intima caratterizzata da
una sensazione di “validazione di sé”, di reciproca comprensione, di
possibilità di aprirsi con l’altro, di sentirsi in empatia», chiarisce
Qualter. «Un’amicizia con maggiori aspettative si sviluppa poi durante
l’adolescenza e fino alla prima gioventù, quando aumenta il bisogno di
intimità. E se la “quantità” di amicizie può essere importante nel
predire un senso di solitudine nell’infanzia, la “qualità” sembra
contare di più nell’adolescenza».
Attorno ai 14-16 anni il bisogno
di stare con gli altri diventa ancora più complesso: c’è bisogno di
amici intimi, ma anche di un intero gruppo di riferimento, finché la
situazione diventa ancora più articolata con la necessità di relazioni
amorose. Sensazioni di solitudine si possono provare per il
malfunzionamento di ciascuno di questi aspetti della vita relazionale.
Poi
nella fase centrale della vita, almeno per chi non è rimasto single, è
la qualità della relazione con il partner a definire soprattutto il
rischio di sentirsi soli.
«Infine negli anziani emergono altri
specifici fattori di rischio per la solitudine — aggiunge la
ricercatrice britannica —. Sono la possibile perdita del partner, il
ridursi delle attività sociali a causa delle disabilità fisiche e della
salute compromessa, l’eventuale condizione di fragilità del partner».
Una
curiosità: nella nostra epoca i social-network sono un antidoto
efficace contro la solitudine? Si sarebbe portati istintivamente a dire
che con tanti amici virtuali siamo meno soli, ma secondo David Sbarra,
psicologo dell’University di Arizona, curatore di un numero della
rivista Psychological Science sulla solitudine, finora non ci sono prove
che l’amicizia virtuale abbia davvero effetti positivi su benessere
psicologico e salute.