martedì 28 novembre 2017

Corriere 28.1117
Referendum, un anno dopo Il No (con il 61%) ancora più forte
Per il 64% fu un voto su Renzi
di Nando Pagnoncelli

È trascorso un anno dal referendum costituzionale, il cui esito ha determinato le dimissioni del governo Renzi, il calo di popolarità dell’ex premier e il congelamento di qualsiasi tentativo di riforma. Spesso ci si chiede se tra gli elettori prevalga il rimpianto per l’occasione perduta o, al contrario, la convinzione che la bocciatura sia stata la scelta migliore.
Il sondaggio odierno fa registrare uno scenario immutato rispetto al 4 dicembre dello scorso anno: l’affluenza alle urne sarebbe di poco inferiore (65% contro il 68% effettivo), i contrari prevarrebbero nettamente attestandosi a 61% (contro il 59,1% di 12 mesi fa).
Le motivazioni del voto di un anno fa sono molteplici. Invitati ad indicare le due principali, il 73% degli intervistati menziona la propria valutazione personale sui contenuti specifici della riforma. Al secondo posto, tra i motivi del voto, si colloca il giudizio sul governo Renzi, citato da due italiani su tre (64%), soprattutto tra i sostenitori del No (66%); a seguire troviamo il parere dei costituzionalisti (35%), che sono apparsi più convincenti ai contrari alla riforma (39%) rispetto ai favorevoli (30%). Infine, decisamente minore è risultata l’influenza della cerchia ristretta di familiari, amici e conoscenti (9%), come pure il parere dei leader politici più vicini (9%).
Dalle risposte al sondaggio gli elettori sembrerebbero aver scelto in modo ponderato, sulla base del merito delle modifiche proposte. In realtà si tratta di un processo di razionalizzazione della scelta di allora: basti pensare che alla vigilia del referendum solo il 15% dichiarava di conoscere in dettaglio i contenuti della riforma — aspetto del tutto comprensibile in ragione della scarsa familiarità della maggioranza degli italiani con i temi costituzionali — e, analizzando i singoli punti che la caratterizzavano (trasformazione del Senato, riduzione dei senatori, eliminazione del Cnel, delle Province, ecc.), si registrava un largo consenso, sebbene alla domanda sulle intenzioni di voto nei sondaggi dal mese di luglio in poi prevalesse costantemente il No.
Il voto, infatti, ebbe una forte valenza politica, fu in larga misura un referendum pro o contro Renzi, il quale promise di farsi da parte nell’ipotesi di bocciatura: per gran parte dei suoi oppositori si trattò di una promessa molto invitante, accompagnata dall’aspettativa di nuove elezioni e di un cambiamento della maggioranza di governo.
Nonostante le profezie, talora apocalittiche, da parte dei sostenitori dei due schieramenti durante la campagna referendaria, secondo il 60% degli italiani l’esito non ha avuto alcuna influenza e in Italia le cose sono rimaste esattamente come prima. Una minoranza (17%) è del parere che la situazione sia peggiorata e il 7% che sia migliorata. Le opinioni divergono tra coloro che votarono Sì e quelli del No: tra i primi la maggioranza relativa (48%) ha riscontrato un peggioramento della situazione, tra i secondi il 78% ritiene che non sia cambiato nulla.
Quanto al futuro, il 30% degli elettori ritiene che il responso delle urne renderà impossibile per lungo tempo modificare la Costituzione, a causa della difficoltà sia di trovare un ampio accordo in sede parlamentare che di ottenere il sostegno dei cittadini; al contrario la maggioranza (56%) non ritiene che la bocciatura possa rappresentare un impedimento a qualsiasi processo di riforma. Tra i sostenitori del Sì prevalgono i pessimisti (58%), tra quelli del No i possibilisti (64%).
Insomma, a distanza di un anno dalla bocciatura della «madre di tutte le riforme», tra gli elettori non affiora alcun ripensamento: il risultato oggi sarebbe la fotocopia di quello dello scorso 4 dicembre. Al contrario affiorano molti dubbi su chi in futuro potrebbe avere il coraggio di mettere mano a una nuova riforma costituzionale, sfidando la diffusa refrattarietà ai cambiamenti e il tifo da stadio.

La Stampa 28.11.17
L’avvio imbarazzato della campagna dei leader canguro
di Marcello Sorgi

L’avvio della campagna elettorale, con Berlusconi e Renzi schierati in contemporanea al via, rivela un certo imbarazzo dei leader, come se dovessero ancora prendere le misure a una gara che sarà gioco forza proporzionale. E in cui le coalizioni avranno meno peso dei partiti, impegnati a contendersi i voti e non più il governo, che nessuno al momento è in grado di prevedere quale sarà.
Per i due leader del Pd e di Forza Italia, la scelta della stessa domenica per intervenire era legata al tentativo di far finta che la gara sia ancora tra centrosinistra e centrodestra. Peccato che nessuno dei due potesse rappresentare i rispettivi schieramenti, e se Berlusconi poteva contare su una generica disponibilità dei suoi alleati a trovare un’intesa, Renzi era ancora impegnato nella trattativa con i suoi possibili partner, lontana da un approdo positivo, e sapeva già che nei collegi avrebbe trovato come avversari i candidati della sinistra che punta a farlo perdere. Inoltre l’ex-Cavaliere, con uno dei suoi colpi di teatro, ha avanzato la candidatura a premier del generale Gallitelli; ma Salvini, vale a dire il leader di quello che potrebbe diventare nelle urne il primo partito del centrodestra, ha subito replicato: non ne sapevo niente. Obiezione legittima, se tuttora si potesse ragionare, come s’era fatto negli ultimi venticinque anni (quando si diceva che per vincere servivano «un uomo, un programma e una coalizione»), in termini di alleanza. Ma nel nuovo sistema, in cui ognuno avrà il diritto di proporre un proprio candidato alla guida del governo, che diritto avrebbe Salvini di esprimere un parere preventivo sulle scelte del suo alleato-concorrente Berlusconi?
Tramontato lo scontro bipolare, l’unico a cui i leader della Seconda Repubblica fossero allenati - era rimasto in scena anche nel 2013, quando a sorpresa dalle urne il Movimento 5 stelle uscì come primo partito -, non è affatto semplice reinventarsi tutt’insieme un altro modello per catturare l’attenzione degli elettori. Nelle ultime campagne della Prima Repubblica pre-Tangentopoli, il fronte dei partiti governativi, pur rissoso, era facilitato dal fatto che oltre un terzo del Parlamento, comunisti e fascisti, erano tagliati fuori dalla possibilità di andare al governo. Invece, ora che la partita coinvolge tutti, e tutti sono legittimati a governare, la moltiplicazione dei messaggi di propaganda rischia di accrescere la confusione di un elettorato che per metà ha già rinunciato a recarsi alle urne. E almeno finora non ha trovato grandi ragioni per tornarci.
Il cosiddetto «canguro» è una prassi parlamentare anti ostruzionismo che permette di votare emendamenti accorpando quelli simili o di contenuto analogo. Una volta bocciato il primo emendamento, anche tutti gli altri risultano decaduti. Per essere usato deve però essere approvato dal presidente del Senato, come qualsiasi altro emendamento. Il presidente ha dunque il potere di fermarne o meno il cammino. In passato, per esempio, il “canguro” è stato concesso per la legge elettorale Italicum, ma è stato bocciato per la riforma costituzionale. La prima volta che venne usato era il 1996 contro l’ostruzionismo della Lega.

La Stampa 28.11.17
Pechino ordina “Via i poveri dal centro città”
Sfratti, demolizioni e sgomberi
Pechino caccia i migranti e i poveri
Ruspe contro il degrado: così il governo cinese vuole riqualificare la capitale
di Francesco Radicioni

Se lo slogan scelto per le Olimpiadi del 2008 era «Pechino ti accoglie», oggi potrebbe essere «Pechino ti caccia». Questo post - virale su Weibo e sugli altri social cinesi - accompagna un video in cui appare una lunga fila di uomini, donne e bambini. Lavoratori migranti - carichi di sporte, valigie e oggetti impacchettati in fretta -, che mestamente lascia le piccole abitazioni dove ha vissuto per anni. Altre immagini che circolano in queste ore sui social raccontano demolizioni di case, magazzini e negozi.
Sfratti eseguiti senza troppi convenevoli e polizia in assetto anti-sommossa che blocca l’accesso di un villaggio alla periferia di Pechino.
È stata questa la risposta scelta dalle autorità della capitale cinese dopo l’ultima tragedia avvenuta in un polveroso distretto industriale, a pochi chilometri dai luccicanti shopping mall del centro. Qui, in un palazzo di Daxing, nel tardo pomeriggio del 18 novembre, è scoppiato un incendio in cui sono morte 19 persone. Quasi tutte le vittime erano lavoratori migranti, giunti a Pechino dalle province povere e rurali della Repubblica Popolare.
L’esodo dalle campagne
Negli ultimi 30 anni in Cina sono stati in centinaia di milioni a lasciare le campagne per fare gli operai nelle grandi città sulla costa. Quest’esercito di persone - motore della trasformazione dell’economia cinese - in città non ha però trovato diritti: in Cina i servizi essenziali - istruzione e sanità - sono legati all’hukou, il permesso di residenza che vincola i cittadini al proprio luogo di origine.
All’indomani della tragedia, le autorità hanno scelto la linea dura: in migliaia sono stati cacciati - con un preavviso di pochi giorni o di ore - dalle loro sistemazioni informali nella capitale. Cai Qi, il segretario del Partito comunista di Pechino, ha annunciato una task force di ispezioni che durerà 40 giorni sulla sicurezza di edifici e capannoni alla periferia della città. Il problema è reale: i lavoratori migranti vivono spesso in alloggi sovraffollati, in cui non vengono rispettate le minime norme di sicurezza e dove la linea che separa la zona abitativa da quella industriale è labile. Però, davanti ai continui rincari degli affitti, queste squallide stanze - spesso nascoste nei seminterrati dei palazzi - sono per i lavoratori migranti e sottopagati l’unica soluzione possibile. Per poche centinaia di yuan, qui trovano un alloggio soprattutto i lavoratori del tessile e i pony express, la parte più tangibile del settore in forte espansione dell’e-commerce.
Sistemi «brutali»
Davanti a metodi cinici e brutali, un’ondata di sdegno sta percorrendo la rete. Sono già un centinaio tra accademici, artisti e avvocati ad aver firmato una lettera in cui si chiede di interrompere questa campagna «spietata».
Secondo molti, infatti, le preoccupazioni legate alla sicurezza sarebbero solo una scusa per allontanare la gente di fuori Pechino. Non è un mistero, infatti, che il governo si sia posto l’obiettivo di contenere la popolazione della capitale, che nel 2016 ha sfiorato i 22 milioni di residenti. Gli storici abitanti di Pechino lamentano che i circa 8 milioni di nuovi arrivati abbiano contribuito all’aumento dell’inquinamento, del traffico e del consumo delle risorse. Inoltre, nel 2014 il presidente cinese Xi Jinping ha proposto un ambizioso piano che punta a spostare fuori da Pechino le funzioni «non da capitale». Contemporaneamente le autorità cinesi vogliono collegare - attraverso un’imponente rete infrastrutturale - la capitale con la città portuale di Tianjn e lo Hebei, la provincia rurale che circonda Pechino.
La nuova metropoli
Il piano - il cui acronimo è Jing-Jin-Ji - prevede la creazione di un’enorme area metropolitana da quasi 100 milioni di abitanti. Negli ultimi mesi altre zone della capitale sono state oggetto di un processo di riqualificazione urbana e di gentrificazione, molto simile a quello a cui si è assistito nelle città europee e americane. In Cina però tutto è stato più rapido. Dalla scorsa primavera, le strade della capitale si sono riempite di ruspe e operai che hanno demolito - quartiere dopo quartiere - chioschi, ristoranti e locali. La capitale della seconda economia del mondo è stata tirata a lucido. Pechino vuole presentarsi come una città moderna e cosmopolita. Per farlo è disposta a dimenticarsi di quegli angoli che le conferivano una certa dose di autenticità. Tanto che di fronte alla trasformazione della capitale, il blogger Zhang Wumao commentava amaramente, «per i nuovi arrivati Pechino è una città dove non possono stare, per i vecchi residenti è una casa a cui non possono tornare».

Corriere 28.11.17
Crescita senza diritti Ecco la soluzione (vista dalla Cina)
di Guido Santevecchi

La Cina ama la stabilità, al suo interno, alle frontiere del suo impero e possibilmente nel mondo. Perché la stabilità aiuta i commerci. Ora questa linea potrebbe essere utile a risolvere la tragedia dei Rohingya. Nelle ultime settimane Xi Jinping è stato molto attivo: ha spedito il ministro degli Esteri in Bangladesh e in Birmania a proporre un piano in tre fasi che prevede un cessate il fuoco nella regione birmana del Rakhine per fermare l’esodo dei Rohingya; comunicazioni Bangladesh-Birmania per consentire il ritorno dei profughi; una soluzione di lungo periodo alleviando la povertà nei due Paesi. L’economia, secondo Pechino, può curare ogni male e la Birmania per la sua posizione geografica interessa nel grande progetto «Una Cintura Una Strada», le nuove Vie della Seta che, ricoperte di infrastrutture, linee ferroviarie, oleodotti e reti elettriche, dovrebbero collegare la Cina all’Europa attraversando l’Asia. Il corridoio della Birmania, che dà accesso all’Oceano Indiano, presuppone la stabilità. Ecco spiegato l’interesse cinese.
I diritti umani non sono al primo posto in questo ragionamento: Pechino ha sostenuto per decenni le giunte militari birmane, anche quando tenevano agli arresti Aung San Suu Kyi. Ora offre una sponda alla Signora che a causa della repressione orribile dei Rohingya non è più la stella dell’Occidente. Alle Nazioni Unite la Cina ha bloccato una risoluzione che esigeva il ritorno dei profughi ammassati in Bangladesh, facendone passare solo una più blanda e generica. Xi Jinping ha appena ricevuto il comandante delle forze armate birmane, quel generale Min Aung Hlaing che è considerato lo stratega della pulizia etnica contro i Rohingya. Finita la visita di papa Francesco, Aung San Suu Kyi è attesa a Pechino.
Sta di fatto che, pur senza manifestare passioni per la difesa dei diritti umani, forse la via cinese degli incentivi economici è la migliore per fermare la tragedia del popolo senza Stato e senza diritti. E il Papa, con pragmatismo, potrebbe apprezzare l’impegno di Xi Jinping, magari elogiandolo pubblicamente, con l’obiettivo di rafforzare il dialogo tra Santa Sede e Cina.

il manifesto 28.11.17
65 milioni in fuga: è «apocalisse umanitaria»
La ricerca. Rapporti Diritti Globali 2017. Il volume sottolinea la svolta securitaria contro le Ong. Action Aid e Antigone: tolti spazi di agibilità. Il curatore Segio: 16 miliardi per costruire frontiere Durante (Cgil): invertire la rotta
di Nina Valoti

Nel mondo ci sono 65,6 milioni di profughi in fuga da guerre, violenza, soprusi, povertà. Vent’anni fa erano quasi la metà: 33,9 milioni. Ma paradossalmente aumentano le spese in sicurezza per le frontiere: ben 16 miliardi e 700 milioni con un trend di crescita annua stimato nell’8 per cento.
Sono solo due dei dati contenuti nel quindicesimo rapporto “Diritti globali” e spiegano benissimo il titolo scelto quest’anno: «Apocalisse umanitaria».
Se da anni il dramma globale dei migranti ha come epicentro il Mediterraneo, quest’anno sono state le politiche e gli accordi del nostro governo con la Libia a creare un elemento nuovo e ancor più preoccupante: la criminalizzazione delle organizzazioni non governative e la quasi totale negazione dell’asilo politico, definito giustamente «chimera»: solo il 5 per cento delle domande del 2016 sono state accolte a pieno titolo in Italia.
«Una apocalisse umanitaria incombente anche perché le guerre sono proliferate – spiega Sergio Segio, ideatore e curatore del volume con la sua associazione SocietàINformazione – e hanno due caratteristiche inedite: la percentuale delle vittime civili aumenta sempre più fino a toccare il 95 per cento, mentre nella seconda guerra mondiale era del 50 per cento, e i conflitti tendono a non chiudersi mai come dimostrano i casi della Siria, dell’Iraq e dell’Afghanistan per non parlare di Libia e Somalia».
Un quadro che rende ancora più urgente «costruire un mutamento di paradigma che deve partire dal sistema di sviluppo coinvolgendo però il maggior numero di individui – osserva Segio – il tempo per cambiare rotta è adesso, diversamente il futuro rischia di essere un buco nero in cui la governance cieca continuerà a tenere in piedi il castello di carte dominato dalla finanza».
Come da tradizione il Rapporto, sostenuto dalla Cgil e da una galassia di associazioni, si basa «sull’idea di interdipendenza dei diritti nell’epoca della globalizzazione» e mette dunque in rapporto economia, lavoro, diritti umani e ambiente.
I capitoli sui migranti dunque si legano a quelli sulla «crescita economica elusiva» «al tempo degli algoritmi», «il disordine globale», «la dolosa obsolescenza del pianeta» più il nuovo capitolo «In comune» che racconta «reti e pratiche dal basso» per dimostrare che «cambiare è possibile» alternando storie vicine come il Baobab di Roma con altre lontane, come la Coopamare in Brasile, cooperativa di raccoglitori di immondizia.
Il tema dominante però è quello dei migranti e le sue conseguenze, prima fra tutte «l’odio sociale nella società dell’esclusione». «Il tratto caratteristico dell’ultimo periodo è certamente la crisi della cittadinanza – commenta Marco De Ponte, segretario generale di Action Aid Italia – non si discute più, tutto viene deciso in modo opaco e così accade anche per la crisi migratoria. In Italia per gestire questo fenomeno ci sono 12mila microbandi sull’accoglienza senza nemmeno un database nazionale. Noi cerchiamo invece di investire su competenze e dialogo per cambiare le cose».
«Siamo davanti ad un genocidio nell’indifferenza anche da buona parte del mondo progressista perfino davanti alla tortura – sottolinea Patrizio Gonnella, presidente di Antigone – . La questione si lega agli spazi di agibilità delle Ong: non è possibile che proprio dall’Italia sia partita l’idea che chi vuole salvare vite umane sia cacciato della legalità, queste visioni securitarie fanno impallidire quanto successe a noi nel 2002: l’allora ministro Castelli ci fece cacciare dalle carceri perché sosteneva avessimo legami con gli anarco-insurrezionalisti, ma a nostra difesa si mobilitò anche la destra. Ora le Ong sono praticamente sole».
«Ormai il diritto penale è usato per ridurre l’agibilità delle Ong – gli fa eco Francesco Martone, portavoce della rete «In difesa di» – per reagire dobbiamo proteggere tutti coloro che fanno sentire la loro voce nel mondo a partire dagli attivisti a rischio, specie in America latina».
«Condividiamo questa avventura che consideriamo di grande importanza anche per il futuro – ha concluso la presentazione del volume di ieri pomeriggio il padrone di casa Fausto Durante, responsabile delle politiche internazionali della Cgil – . Nel mondo del lavoro in tutto il mondo i diritti calano, noi vogliamo invece che siano in capo alle persone e che siano riconosciuti per legge: per questo in Italia abbiamo presentato la Carta universale dei diritti».

La Stampa 28.11.17
Migranti, Sos Mediterranee: impotenti davanti ai morti
La nave Aquarius della Ong arrivata a Catania con 421 persone a bordo
qui
http://www.lastampa.it/2017/11/27/italia/cronache/migranti-sos-mediterranee-impotenti-davanti-ai-morti-C0LQ4feYwynatzkqi0suXJ/pagina.html

il manifesto 28.11.17
Il fallimento italiano in Africa non insegna nulla

Che cosa è andato a fare in Tunisia il Presidente del Consiglio?
Ecco la risposta sintetica di diversi quotidiani: «Portare aiuti alla Tunisia perché chiuda la rotta ai migranti». Gentiloni visiterà altri paesi africani, ma non andrà in Libia.
Comunque, già che era da quelle parti, si è espresso anche sulle relazioni sulla ex-colonia: dopo aver dichiarato che le condizioni dei migranti sub-sahariani in Libia sono «terrificanti» e «disumane», ha auspicato un miglior coordinamento con le «autorità libiche» per lottare contro «il traffico di essere umani».
Gentiloni è uomo sensibile ai diritti umani e sociali, sembra. E allora perché rilasciare dichiarazioni tanto contraddittorie, al limite dell’insensatezza, per chi lo legge o lo ascolta?
Se le condizioni dei migranti sono così atroci – come riportano i media di tutto il mondo, Ong varie e Nazioni Unite – perché accordarsi con i responsabili delle atrocità, cioè fazioni che non governano nulla, signori della guerra e capi delle milizie che imperversano in Libia?
La risposta è semplice: al governo italiano importa solo che i migranti non partano per l’Italia, quale che sia il loro destino.
E infatti proprio mentre Gentiloni parlava annegavano in mare e pure «dilaniati dagli squali» altri disperati fuggiti dalle coste libiche e i sopravvissuti al naufragi subito sono stati riportati nei centri di detenzione in Libia.
Ecco il senso dei famosi accordi di Minniti, il braccio poliziesco del governo Gentiloni, con il fantomatico governo Serraj e gli altri capi bastone.
Non bisogna stancarsi di ripetere che si tratta di uno scambio orrendo, che copre di vergogna il nostro paese: l’Italia dà aiuti militari ai libici perché ci tengano lontano i migranti, perché insomma se ne occupino loro come preferiscono.
La cosa è talmente ovvia che è stato lanciato dal governo italiano un bando perché le Ong gestiscano i centri di detenzione in Libia. Come dire: sappiamo che quelli li torturano, li derubano e un po’ li uccidono. Andate un po’ a vedere se riuscite a farli torturare e uccidere un po’ meno. Se mai una Ong accetterà, bisognerà denunciarla come connivente del governo italiano e quindi di quei libici che uccidono e torturano.
Il governo italiano ha talmente la coda di paglia in materia che la ministra Pinotti ha dichiarato che il «terrificante» trattamento dei migranti è precedente agli accordi di Minniti con i libici.
E allora, se lo si sapeva – e Minniti, con tutti i servizi segreti che frequenta da anni, non poteva non saperlo -, perché fare accordi con quelli? Non era ovvio, allora come oggi, che l’ossessione per il blocco delle rotte migratorie, nell’Africa sahariana e nel mar Mediterraneo, avrebbe causato una violazione di massa dei diritti umani, e cioè stragi per terra e per mare?
Tra quegli accordi ce n’era uno davvero letale: che sia la guardia costiera libica, dotata di navi italiane, a occuparsi di fermare i barconi in acque internazionali, impedendo i soccorsi alle navi delle Ong umanitarie. Le quali, di fatto, hanno dovuto fermare gli interventi (anche a questo e non altro è servita l’immonda campagna contro i salvataggi promossa dalla destra, da Salvini a Di Maio).
E così si moltiplicano le denunce dell’inazione italiana, come ha fatto ieri Sos Méditerranée e delle aggressioni della guardia costiera libica contro le navi umanitarie. E si moltiplicano nell’indifferenza generale gli annegamenti di uomini, donne e bambini.
Naufragi e sbarchi sono ripresi alla faccia del nostro governo (quanto ad Alfano, il diretto interessato, chi l’ha visto?). Insomma, Minniti ha fallito l’obiettivo che si era posto, e cioè delegare tutta la faccenda agli africani.
Ma il fallimento non insegna nulla. Anzi. Oggi Gentiloni è ad Abidjan al vertice Europa-Africa con un po’ di imprenditori pubblici e privati al seguito.
Ci va, buon ultimo dopo Francia e Germania, per fare un po’ d’affari e soprattutto per generalizzare a tutta l’Africa la lotta contro «il traffico di esseri umani», cioè per bloccare le emigrazioni in partenza.
Visti gli effetti degli accordi con La Libia, nuove stragi si annunciano.

Il Fatto 28.11.17
Il Pd consegna la “verità” ai giganti Usa del web
Con la scusa di una legge che non vedrà mai la luce, i dem vogliono dare le chiavi della censura ai privati Facebook & C.
di Marco Palombi

“Abbiamo una bozza, anche se molto affinata, che conta 8 articoli e ha come riferimento la legge in vigore in Germania. Abbiamo lavorato su quella e poi l’abbiamo adattata all’ordinamento italiano”. Rosanna Filippin, parlamentare Pd dell’area Martina (renziana), è la senatrice che sta mettendo a punto il ddl contro le fake news che i dem presenteranno a giorni.
È pressoché impossibile che questo ddl divenga legge entro la legislatura, ma la sua esistenza è grave lo stesso anche per il messaggio che contiene: i grandi social network, che peraltro in Italia sono solo Facebook e Twitter, sono gentilmente invitati a vigilare sulla “verità” online anche prima che intervengano un’Authority o un magistrato. Una privatizzazione dei limiti del dibattito pubblico assai pericolosa, persino al lordo delle eventuali buone intenzioni.
Cosa prevede, infatti, la proposta del Pd? Sostanzialmente di “responsabilizzare”, via sanzioni, Facebook e Twitter: le due aziende dovranno dotarsi di un sistema di recepimento dei reclami per le fake news, un meccanismo di autoregolamentazione interna simile a quello già imposto in Germania (e che non pare aver fermato i cosiddetti “populisti” alle urne). Spiega Filippin: “Il gestore ha l’obbligo di prendere in carico le segnalazioni di contenuti illeciti e, dopo verifica, se quanto pubblicato è manifestamente illecito, rimuoverlo entro 24 ore. In caso di dubbi inizieranno accertamenti per i quali il gestore ha 7 giorni di tempo prima di procedere”. Se i social non danno seguito alle segnalazioni, ci si può rivolgere al Garante per la privacy per i reati contro la persona, “mentre per i reati contro lo Stato interverrà il sostituto procuratore”. Le sanzioni vanno dai 20 mila euro per la pubblicazione di illeciti contro la persona non rimossi ai 5 milioni di euro in caso di assenza del sistema di autoregolamentazione.
In sostanza, i gestori delle piattaforme vengono incentivati a bloccare subito pressoché tutte le pagine “segnalate” per non incorrere nelle sanzioni: il “bloccato” dovrà poi dimostrare, se ci riesce, che non era il caso. Siamo, mutatis mutandis, alla celebre risposta dell’abate di Cîteaux durante l’assedio di Béziers, città in cui resistevano gli eretici catari: “Uccideteli tutti. Dio riconoscerà i suoi”.
Per una volta dice parole non allineate politicamente il Garante per la privacy, l’ex deputato Pd Antonello Soro: “Quello che bisogna evitare è da una parte attribuire ai gestori delle piattaforme digitali il ruolo di semaforo, lasciando loro una discrezionalità totale nella individuazione di contenuti lesivi. E dall’altra evitare di immaginare di attribuire a un algoritmo (un’idea di Marco Carrai, ndr) il compito di arbitro della verità. Mi sembra davvero in controtendenza non solo rispetto alla storia del diritto, ma anche della cultura democratica e del buon senso”.
Curiosamente la proposta del Pd non fa propria neanche quella avanzata da protagonisti della guerra alle fake news come il giornalista Gianni Riotta: “La strada maestra è la trasparenza – ha scritto su La Stampa -. La riforma dell’editoria obbligò i giornali a render pubblici proprietà e bilanci, ma di troppi siti, a cominciare dal network Casaleggio-Grillo-5Stelle, non conosciamo proprietà, bilanci, introiti pubblicitari, uso dei dati degli utenti”. Legge difficile da scrivere senza “burocratizzare” il web, ma almeno più sensata se si ritiene che ci sia un’ingerenza russa nelle elezioni dei Paesi occidentali (i quali, se è concesso, ingeriscono anche loro). Quanti voti pesi la propaganda russa – e in generale quanti ne spostino le fake news – è però domanda senza risposta. Si rischia, cioè, di manomettere il dibattito pubblico per proteggerlo da un pericolo che forse non esiste.

La Stampa 28.11.17
La vittima del blog pro-Ana: “Troppe umiliazioni a scuola: volevo essere bella subito”
Parla la ragazza di Ivrea che in chat riceveva consigli per diventare anoressica. La mamma: “Era in un periodo difficile: non si è ribellata ai bulli della classe”
di Giampiero Maggio
qui
http://www.lastampa.it/2017/11/28/cronaca/la-vittima-del-blog-proana-troppe-umiliazioni-a-scuola-volevo-essere-bella-subito-2KxWZ3YSbZkxSluhQX5YEP/pagina.html

Il Fatto 28.11.17
Stefano Massini
“I sogni sono la versione non autorizzata di noi”
Dopo il successo di “Qualcosa sui Lehman” lo scrittore torna con un romanzo su Freud
di Silvia Truzzi

C’è quel passo della Tempesta di Shakespeare “Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni” che tutti citano, il più delle volte a vanvera, nemmeno fosse un interludio marzulliano con finale interrogativo (“La vita è il sogno o il sogno è la vita?”). Stefano Massini, drammaturgo e autore del meraviglioso Qualcosa sui Lehman (con cui ha appena vinto il Super Mondello) torna in libreria con un romanzo altrettanto colto e assai sorprendente, L’interpretatore dei sogni, in cui viviseziona il testo più famoso di Sigmund Freud e lo fa rivivere sotto forma di diario. Prima di cominciare l’intervista con lo scrittore, è necessario un avviso: leggendo il romanzo onirico, si sogna tantissimo.
Perché ha scelto di lavorare su L’interpretazione dei sogni?
Poco cose sono simili al teatro come i sogni. Freud stesso dice “è un grande spettacolo”, definendo la costruzione del sogno “rappresentazione onirica”. Io mi sono sempre mosso a cavallo tra teatro e letteratura, non potevo lasciarmi sfuggire questa occasione. Sono sette anni che ci lavoro, il tema mi ha sempre appassionato: dietro i sogni c’è la parte non detta, irrisolta, di noi. Freud lo spiega benissimo: “Se esistesse un essere perfettamente e completamente felice, non sognerebbe”.
Il sogno è davvero “materiale di scarto”?
Pensiamo alla fase storica che viviamo: sui social network scegliamo quale faccia di noi vogliamo che gli altri vedano. Quello che è importante che il mondo sappia di noi: i social sono una grande vetrina dentro cui ci mettiamo in mostra. Oggi più che mai viviamo sulla nostra pelle il tema della “rappresentazione di noi stessi”.
È un Io spesso taroccato, però, basta pensare a quante foto ritoccate si vedono sui social…
È un Io posticcio, certo: proprio per questo trovo irresistibilmente interessante il sogno, dove abita la parte di noi che non vogliamo mostrare. Mi sono molto appassionato a descrivere questa umanità così diversa per cultura, condizione sociale, provenienza. Nel libro Freud racconta i sogni di tutti, dalla moglie alla cameriera, dai colleghi ai pazienti. C’è il caso, incredibile, di un paziente che era schizofrenico e guarisce dalla malattia, ma di notte continua a sognare le cose che faceva quando era malato. Questo porta Freud a dire che il pazzo è un sognatore che crede profondamente in quello in cui sogna, mentre abitualmente questo non avviene. Di solito diciamo “è solo un sogno”. Il sogno è una versione secondaria di noi, ma la cosa più interessante è che è una versione non autorizzata di noi stessi.
Il suo Freud spiega: “Quel ‘non lo farei nemmeno per sogno’ la dice lunga su come questo spazio creativo della nostra mente sia vissuto come un ripostiglio dell’estrema periferia del pensiero e della morale”. È un modo per difendersi?
Sì e, aggiungo, anche il sintomo di una crisi. Credo che il Novecento sia segnato da due libri fondamentali: L’interpretazione dei sogni e Il capitale di Marx, due testi che hanno messo in discussione tutto quello che era stato acquisito fino a quel momento, cioè il concetto di Stato e il concetto d’individuo borghese. Freud con L’interpretazione ci dice “attenti perché l’individuo borghese si regge su una finzione, in realtà ciò che desidera davvero lo vive in un ripostiglio non autorizzato”. La borghesia è un’altra gabbia in cui ci dibattiamo nel tentativo di essere all’altezza. Oggi è ancora più vero: tutti i modelli che abbiamo, dai consumi all’aspetto fisico, sono irraggiungibili. Freud un secolo fa ti diceva: guarda che questo non essere all’altezza davanti al quale la società ti mette, noi lo scoviamo durante i sogni. Marx ha messo in crisi tutto il resto: non c’è lo Stato, ma la gabbia che tiene insieme ciò che insieme non può stare, cioè le classi sociali.
Chi è il medico che scrive questo diario?
A me non interessava scrivere un libro su Freud, come non m’interessava farne uno sulla Banca Lehman. M’interessa sfruttare un tema come pretesto per parlare di cose che riguardano me. Quando si scrive, si parla sempre di se stessi, altro tema di cui si occupa Freud. Questo libro non è un saggio, è un romanzo: mi sono servito di Freud per raccontare cose che sono mie, anche se l’ho fatto dopo un lungo studio dell’Interpretazione. Molti sogni sono i miei. Ce n’erano tanti anche in Qualcosa sui Lehman.
Lei ha detto: la scrittura è un atto politico.
Sì, a me non interessa scrivere della crisi della coppia. Non bisogna cercare compromessi al ribasso, sulla base dell’assunto che il lettore ha gusti mediocri: non è vero.
Ultima: lei crede alla psicanalisi come metodo terapeutico?
Io credo che un essere umano possa aiutare un altro essere umano a venire a capo di ciò che da solo non riesce a capire. Tutta la letteratura è psicanalitica.
Vogliamo le prove.
Facilissimo: il padre della letteratura italiana è Dante, la cui opera somma è la Commedia. Cioè la storia di uno che si perde dentro una selva oscura e per uscirne ha bisogno di un altro, che si chiama prima Virgilio e poi Beatrice, che lo prenda per mano e gli faccia fare un percorso dove lui riesce a mettere a fuoco quel che ha perso di vista.
di Silvia Truzzi | 28 novembre 2017

Il Fatto 28.11.17
Filippo Neri, il santo che per Goethe liberò Dio nel tempo di Lutero
Raccolte in un volumetto le pagine del grande letterato tedesco sul fondatore dell’Oratorio a Roma
di Fabrizio d’Esposito

La Chiesa di Roma e i cattolici non piacevano per nulla al genio di Johann Wolfgang Goethe. Con qualche eccezione: san Filippo Neri, il santo umile e umorista che al cinema e in televisione è stato interpretato da Johnny Dorelli (1983) e Gigi Proietti (2010).
San Filippo Neri visse nel sedicesimo secolo e fu grande nemico della vanità nonché fondatore a Roma dell’Oratorio, con cui avvicinò tanti ragazzi alla fede, anche giocando e cantando in chiesa (per fortuna all’epoca non c’erano ancora i tradizionalisti). Fu amico di papa Clemente VIII e rifiutò persino la porpora cardinalizia. Due secoli dopo Goethe fece il suo leggendario viaggio in Italia, tra il 1786 e il 1788, e rimase folgorato, nonostante l’avversione per il papato, dalla figura del santo. Ne scrisse delle meravigliose pagine che formano un volumetto uscito per Edb (Edizioni Dehoniane Bologna) nella collana “Lampi d’autore”: Il santo spiritoso, breve biografia di Filippo Neri (60 pagine, 8,50 euro).
Il testo goethiano, seguito da una nota del saggista Vito Punzi, è attuale anche per la concomitanza dei cinquecento anni della riforma luterana: “Ancor più significativo è che ciò avveniva al tempo di Lutero e che nello stesso periodo, proprio in Roma, un uomo capace, timorato di Dio, energico, attivo aveva avuto anche lui l’idea di mettere insieme il sacro, anzi il santo con il profano, di introdurre le cose del cielo in quelle del mondo e di preparare anche lui una riforma. Solo e soltanto qui infatti si trova la chiave per aprire le prigioni papali e ridare al mondo così liberato il suo Dio”. Goethe fu affascinato dalla forza fisica e spirituale di Filippo e ignorò del tutto san Francesco durante la sua visita ad Assisi.
Come ricorda Punzi nella nota finale: “Di san Francesco d’Assisi, sebbene santo poeta e innamorato della natura, Goethe non si era accorto, anche visitando Assisi. Ma ora scopre questo ‘santo umorista’ e se ne invaghisce, ne riferisce gli aneddoti, le geniali stravaganze, l’acume psicologico ammantato di paradossi”.
Ai suoi ragazzi, san Filippo Neri ripeteva sempre una frase in romanesco, diventata quasi il suo motto: “State bboni, se potete!”.

La Stampa 28.11.17
Pd pronto a usare il “canguro” per far passare il Biotestamento
Ma lo Ius soli rischia lo stop
Sulla cittadinanza serve la fiducia, un pericolo per il governo
di Carlo Bertini

Tra “fine vita” e “ius soli” potrebbe essere sacrificata la legge sulla cittadinanza, a sentire il tam tam che giunge dagli uffici Pd del Senato. Dove una sola cosa pare certa: nella finestra di dicembre tra la seconda e la terza lettura della manovra, ci sarebbe tempo per varare forse solo una di queste norme. In queste ore, sotto traccia, gli esperti legislativi del Pd stanno infatti studiando attentamente la pratica del biotestamento: l’obiettivo è mettere a punto un escamotage per approvare la legge senza ricorrere alla fiducia. E questo perché a differenza dello ius soli, sul biotestamento una maggioranza sulla carta c’è: insieme a quelli del Pd, ci sono i voti dei 5stelle, di Ala, della sinistra e di Mdp. «Se il “fine vita” andasse in aula, di sicuro ci sarà qualche “canguro”, ci sono migliaia di emendamenti, poi sarà il presidente del Senato a decidere», ammette Luigi Zanda in camera caritatis.
Il modulo di gioco è quello usato per le unioni civili, il cosiddetto «canguro»: un maxi-emendamento formulato apposta per saltare a piè pari migliaia di votazioni. Chi ha la memoria lunga teme che i grillini riservino al “canguro” sul “fine vita” lo stesso trattamento riservato a quello sulle unioni civili: quando dichiararono a sorpresa che non lo avrebbero votato, costringendo il governo a porre la fiducia. Ma ad ora pare non vi siano segnali negativi in tal senso.
Individuata dunque la soluzione di metodo, si tratta di procedere alla decisione più delicata, quella politica: ovvero la scelta di mettere in calendario questa legge piuttosto che lo ius soli della discordia. Norma di civiltà, a detta di molti, che però nei sondaggi risulta sgradita alla maggioranza degli italiani e dunque sconsigliata in campagna elettorale.
Fanno notare al Nazareno che se nel Pd - a partire dal leader - si parla più di biotestamento che non della legge sulla cittadinanza, un motivo c’è: «Lo ius soli passa solo con la fiducia», fa notare uno dei big Pd, «ma i centristi non la voterebbero e non possiamo permetterci il lusso di andare sotto: se il governo si dimette, come facciamo ad approvare la legge di bilancio alla Camera?» Sarebbe un caos, il premier dovrebbe salire al Colle, magari resterebbe in carica con le dimissioni congelate fino al voto sulla manovra, «ma sarebbe tutto il contrario della fine ordinata della legislatura chiesta da Gentiloni». Ergo, i Dem potrebbero a questo punto sacrificare la legge sulla cittadinanza per salvare quella sul “fine vita”. Assai indigesta alla componente cattolica dei senatori di vari gruppi, dai centristi alla Lega, da Forza Italia fino ai cattodem del Pd: ma con un diverso atteggiamento rispetto a quello riservato allo ius soli: non ci sarebbero barricate, è la convinzione in casa Dem. «Almeno una delle due leggi dobbiamo portarla a casa», va ripetendo il segretario ai suoi.
Allo stato però Zanda non ha ancora deciso se martedì prossimo alla riunione dei capigruppo che fisserà l’agenda di dicembre, chiederà di calendarizzare o no entrambe le leggi: stando alle ultime dei renziani in Senato, lo ius soli non verrebbe neppure calendarizzato, per non dare l’idea del dietrofront una volta che fosse deciso di rinunciarvi a favore del “fine vita”. La cui approvazione soddisferebbe comunque una delle richieste di Pisapia per addivenire ad un’alleanza col Pd.
«Lo ius soli passa se e solo se ci si mette la fiducia, non vedo alternative», ammette il presidente del partito, Matteo Orfini. Lasciando intendere che forse si può portare a casa senza rischi per il governo una delle norme che possono dare al Pd una connotazione più di sinistra. «Non escluderei la fiducia sul biotestamento, ma forse ci si può arrivare anche senza».

Corriere 28.11.17
LA SFIDA PER IMPORRE L’AGENDA AGLI AVVERSARI
di Massimo Franco

Il tema della campagna elettorale non sarà l’Europa, o i posti di lavoro, o il taglio delle tasse: non solo. In materia, si nota una rincorsa a chi promette di più, senza andare troppo per il sottile e ignorando la compatibilità con i vincoli di bilancio e i limiti alla spesa pubblica. Nelle schermaglie di queste settimane, la vera sfida si gioca sulla capacità di imporre agli altri la propria agenda; di scegliere l’avversario e di imporgli un’identità di comodo, in modo da ridurne credibilità e margini di manovra. Sotto questo aspetto, la Sicilia ha dato un vantaggio a centrodestra e M5S.
E entrambi cercano di mantenerlo rispetto al Pd. Lo scontro finale nell’isola tra i candidati di Silvio Berlusconi e di Matteo Salvini, e quelli di Beppe Grillo e Luigi Di Maio, permette di accreditare un «voto utile» tra loro, escludendo il partito di Matteo Renzi. E costringe i dem a inseguire per riacquistare un’identità che oggi appare confusa. Per questo, il Pd cerca di recuperare la tradizionale dimensione europea. Puntella il rapporto con l’esecutivo di Paolo Gentiloni, abbracciandolo suo malgrado. E si prepara a indicare non solo l’incompetenza ma l’opacità dei Cinque Stelle.
È un’operazione tesa a riaffermare un protagonismo che riceve un’accoglienza ambivalente. La stessa polemica sulle fake news , le notizie false, con M5S, andrà misurata nel suo reale impatto. Ma il Pd non ha scelta, dopo gli errori seguiti al referendum costituzionale perso il 4 dicembre scorso. Deve contrastare il tentativo di FI di riproporsi come una sorta di «usato sicuro», alternativo alle sinistre e all’incognita grillina; e l’offensiva dei Cinque Stelle che continuano a evocare un governo Berlusconi-Renzi,: anche se ora rifiutano l’etichetta di antipolitica e preferiscono presentarsi come l’«altra politica».

Non importa se i sondaggi ritengono l’ipotesi improbabile, perché non ci sarebbero numeri sufficienti in Parlamento. Oltre tutto, provocherebbe una frattura tra FI e la Lega Nord. Quando Salvini chiede un patto notarile a Berlusconi che escluda «inciuci», gioca d’anticipo. Fa prevalere la propria narrativa. È il motivo per il quale ognuno dà una lettura di comodo del sistema elettorale, sapendo che probabilmente non produrrà maggioranze, e toccherà al Quirinale interpretare i risultati.
Così, il centrodestra accarezza l’idea che l’incarico di formare il governo vada alla coalizione con più seggi. Confida di replicare lo schema siciliano a livello nazionale. Il Pd spera che tocchi al maggior gruppo parlamentare, convinto di tornare sulla cresta dell’onda. E il M5S insiste per l’incarico alla forza che avrà più voti, non più seggi, perché presentandosi solo non tradurrà facilmente i consensi in deputati e senatori. Lo schema di partenza non esclude un prolungamento del governo di Paolo Gentiloni, in attesa di una soluzione.

La Stampa 28.11.17
Fratelli d’Italia l’Italia s’ è spenta
Il politologo italoamericano Bob Leonardi ci ricorda i nostri successi nel Dopoguerra, dall’economia alla politica. E incalza: avete smesso di guardare l’orizzonte, ma non c’è ragione di rassegnarsi al declino
di Marcello Sorgi

Capita spesso che studiosi stranieri, storici, sociologi, scienziati della politica, vengano a studiare l’Italia, se ne innamorino, magari comperino una casa per le vacanze in Toscana o sulla Costiera Amalfitana, ma poi al momento di scriverne si lascino catturare dai pregiudizi e la descrivano anche peggio di quel che è. Così è sorprendente che il professor Bob Leonardi - italoamericano formatosi a Berkeley, uno dei maggiori esperti di politiche di coesione tra gli Usa, la London School of Economics e l’università della Confindustria Luiss - abbia scritto un libro, Government and Politics of Italy, Governo e politica italiana, edito da Palgrave High Education (pp. 248), per ricordarci che, pur avendo perso la guerra, almeno per metà del secolo scorso e nei primi anni di quello attuale siamo stati un grande Paese. E non c’è ragione di rassegnarci al declino attuale.
Leonardi, già autore con Robert Putnam, consigliere degli ultimi tre presidenti democratici americani, Carter, Clinton e Obama, e con Raffaella Nanetti del più citato libro accademico di politologia (Making Democracy Work, Costruire la democrazia), ha semplicemente ripercorso, date e dati alla mano, gli anni dal 1946 a oggi, osservando innanzitutto che l’Italia è stata uno dei principali costruttori dell’Unione Europea. Se solo si riflette che Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, confinati a Ventotene, scrivevano il loro Manifesto nel 1942, mentre i tedeschi stavano quasi per vincere la seconda guerra mondiale, ragiona Leonardi, si capisce quanto anticipatore sia stato il pensiero politico italiano che avrebbe poi portato De Gasperi presidente del Consiglio e Sforza ministro degli Esteri a essere partecipi del processo di fondazione della Comunità nei primi Anni Cinquanta e protagonisti - nel 1955 con Martino e la Conferenza di Messina, e nel 1957 con i Trattati di Roma di cui da poco sono stati celebrati i sessant’anni - del passaggio dagli accordi economici al tentativo, ancora oggi incompiuto, di approdare a un’unione politica e a un governo europeo sovranazionale.
Gli anni del boom
Secondo il professore la ragione di questa visione orientata sul largo orizzonte era che «l’Italia è sempre stata stretta agli italiani» e ha subìto l’influenza della Chiesa cattolica, che «diffondeva un messaggio universale in tutto il mondo». Fin dal secolo del Rinascimento, i Medici prestavano i loro soldi al re inglese Enrico VIII (che peraltro non glieli restituì), avevano loro rappresentanti in Germania e aspiravano a dimensionare i loro affari su scala europea.
Nel libro, il boom economico degli Anni Cinquanta e Sessanta diventa un altro campo su cui misurare la volontà degli italiani di risorgere dopo la distruzione della guerra e le capacità della classe dirigente di corrispondere a queste ambizioni e di orientarle. C’è la fase della ricostruzione delle infrastrutture distrutte dai bombardamenti: strade, porti, ferrovie. E c’è quella successiva dell’industria dei beni e dei consumi, quando la lavatrice, il televisore, i termosifoni e l’automobile entrano a far parte del patrimonio della famiglia media italiana, cambiandone il modo di vivere e creando insieme lavoro e mercato in un sistema economico che cresce al 5-6 per cento per più di dieci anni. E quando lo Stato deve cominciare a ritirarsi dalle imprese pubbliche, ecco - grazie ai distretti industriali costruiti dai governi in Lombardia, Veneto, Emilia, Toscana, Marche - la moltiplicazione di imprese private piccole, medie e grandi, che esportano, danno lavoro e producono ricchezza.
La sconfitta del terrorismo
Leonardi sorvola sui disastri della Cassa del Mezzogiorno e della mancata piena unificazione del Sud con il Nord. Ma analizza con grande attenzione la fase - determinata anche dagli scompensi nella distribuzione della ricchezza sul territorio nazionale - che si apre negli Anni Settanta, con l’esplosione quasi simultanea di una criminalità organizzata - mafia, camorra e ’ndrangheta - strutturata a livello nazionale, unica per grandezza a livello europeo, e del terrorismo armato. È un altro titolo di merito dell’Italia, annota lo studioso, essere riuscita sostanzialmente a sconfiggere entrambi i fenomeni senza ricorrere a stravolgimenti dei principi costituzionali e senza aprire guerre civili, come è diversamente avvenuto quasi nello stesso periodo in Germania o in Irlanda.
Prigionieri della crisi
Il prof ricorda l’affermazione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: «L’Italia può sopravvivere alla scomparsa di Moro, ma non potrebbe sopravvivere all’introduzione della tortura». E sottolinea come il Paese sia riuscito a superare anche gli assassinii di personaggi centrali del sistema, come Piersanti Mattarella (1980) e Pio La Torre (1983) costruendo una rete di collaborazioni internazionali negli apparati di sicurezza che alla lunga sono servite a distruggere i vertici delle cosche e a individuare i responsabili della fase più sanguinosa dello scontro, le stragi mafiose del 1992 e ’93.
Inoltre, alla crisi del sistema politico maturata negli stessi anni, l’Italia è riuscita a reagire con una sorta di autoriforma che, seppure imperfetta, ha funzionato, introducendo il bipolarismo e la piena legittimazione di tutte le forze politiche al governo, facendo sparire dalla scena o trasformando partiti superati dalla storia come i comunisti e i fascisti, e spingendo anche forze collocate su versanti opposti del Parlamento a collaborare nei momenti di difficoltà.
Perché allora adesso l’Italia guarda a sé stessa come se fosse incapace di superare la nuova crisi, e rischiasse davvero di finire sottomessa all’ondata populista che minaccia tutta l’Europa? Semplicemente, spiega l’autore con tipico distacco anglosassone, «perché ha smesso di guardare l’orizzonte e cominciato a guardarsi l’ombelico. Invece di pensare ad allargare la torta per tutti, come faceva nel dopoguerra, cerca di mantenere la fetta assai più piccola che le è rimasta. Invece di risolvere i nuovi conflitti interni, ne rimane prigioniera. Invece di usare bene i fondi europei, li adopera per pagare gli interessi del debito pubblico. Un debito troppo grande, che presto le presenterà il conto».