venerdì 24 novembre 2017

Corriere 24.11.17
Orlandi, nuova denuncia

Una nuova denuncia sulla scomparsa di Emanuela Orlandi è stata presentata dalla famiglia alla Gendarmeria Vaticana. L’avvocato Laura Sgrò che rappresenta Pietro Orlandi sollecita verifiche sulla presunta «trattativa» con lo Stato italiano per la restituzione della salma.

Repubblica 24.11.17
Grazie ancora dottor Freud
di Massimo Recalcati

L’interpretazione dei sogni fu terminata da Freud nel 1899, ma la certezza dell’autore che si trattasse di un’opera destinata a fare epoca lo spinse a chiedere al suo editore di pubblicarla solo all’inizio del nuovo secolo, nel 1900. In essa si compie infatti una sovversione senza precedenti. La tesi non è solo quella che i sogni possiedono un senso che si tratta di saper decifrare, ma è innanzitutto quella che la vita della coscienza non può in nessun modo esaurire la vita psichica. In primo piano è l’esistenza, sino allora inaudita, di un soggetto inconscio, il quale però non ha più le caratteristiche irrazionali che la cultura romantica gli aveva attribuito. Il passo sovversivo di Freud consiste nel pensare l’inconscio non tanto come un calderone di istinti ribollenti – come il luogo di passioni contrastanti con l’impalcatura razionale dell’Io – ma come il luogo di un’altra specie di ragione. Il passo davvero unico e inaudito di Freud in quest’opera straordinaria consiste nel mostrare che il soggetto dell’inconscio è un soggetto colto, capace di costruire architetture complesse, mosso da intenzioni narrative. Il contrario, insomma, del bestiale, dell’irrazionale, dello schizofrenico. Stefano Massini in questo suo intenso libro, intitolato L’interpretatore dei sogni che ha come protagonista il padre della psicoanalisi, lo definirebbe, probabilmente, come un soggetto “drammaturgico”. Nella scoperta freudiana del sogno come luogo di trame narrative intricate, di retoriche raffinate, di atti linguistici sottili si manifesta infatti l’essenza stessa del teatro.
Non solo parole, storie, narrazioni, ma anche immagini plastiche, rappresentazioni, forme che si intrecciano e si susseguono. È questa la dimensione drammaturgica del sogno che interessa a Massini, la cui opera non a caso oscilla con particolare sensibilità tra la letteratura e il teatro. Ne L’interpretatore dei sogni si racconta il colpo di genio di Freud che lentamente si avvicina alla dimensione misteriosa del sogno rivelandone il senso. Lo si racconta implicando, in una finzione narrativa, la vita stessa di Freud.
L’identificazione teatrale al personaggio Sigmund sembra, infatti, reggere tutta la struttura del testo, coerentemente con la Traumdeuteung che, ricordiamolo, per buona parte è costituita dai sogni di Freud stesso. Esempio di come la scrittura si riveli sempre al suo fondo autobiografica. È con gli occhi stessi di Freud e non attraverso le categorie teoriche della psicoanalisi che Massini si accosta all’enigma del sogno.
Passo passo immagina di ricalcare le orme di Sigmund verso quel territorio straniero. Percorso che rompe l’idea del soggetto come una identità definita una volta per tutte, solida, autocosciente: «Esplorare i sogni – significa infatti – esplorare l’io che non sappiamo di essere, l’essere che non sappiamo di avere. L’altro da me, l’io che sono senza volerlo, l’io che respingo e non comprendo».
Si tratta di un movimento che ha una forte implicazione non solo estetica ma anche etica. Se il senso comune pensa la vita diurna separata da quella notturna, la vita dell’Ego distinta da quella dell’Es, come fossero due stanze non comunicanti, l’esperienza del sogno ci invita a dialettizzare questi confini rigidi. I cassetti che esso apre sono quelli «meno aperti di giorno dai nostri pensieri». La fierezza della veglia – ci ricorda il Freud di Massini – non deve semplicemente portare al macero le immagini notturne del sogno ma accoglierle come parole nuove, come luogo di una verità scomoda, scabrosa o vitale e giocosa che ci riguarda. La soluzione narrativa del sogno non è infatti solo un fatto estetico ma è anche un invito a non separare la vita dalla “carne” e dalla “voce” del desiderio che ci abita e che tendenzialmente respingiamo o non vogliamo conoscere perché incompatibile con l’immagine che l’Io ha di se stesso. In un movimento spiazzante Freud offre dignità alle piccole e apparentemente insignificanti esperienze della nostra vita. Il sogno non sorge dal narcisismo della ragione ma da detriti della nostra vita infantile e diurna, fatto di stimoli casuali che provengono dalla realtà esterna, residui diurni, resti, materiali di scarto. Fatto di cose infime e povere il sogno è, nella sua essenza, profondamente eretico. Freud ci porta a frequentare un’altra scena rispetto a quella frequentata dal logos filosofico classico. Il volto della verità non è quello teoretico dell’universale ma quello particolare dei propri sogni e di quelli che Freud incontra attraverso i suoi pazienti. È la verità eretica che abita i sogni di un soldato, di un commerciante di stoffe, di una cameriera.
È l’umanità felliniana di cui racconta il libro di Massini e che si discosta dalla retorica umanistica che celebra le virtù dell’Uomo con la u maiuscola. È questo uno dei grandi meriti della psicoanalisi: riportare l’esperienza della verità alle sue radici esistenziali e particolari. Per questa ragione il Freud di Massini assomiglia un po’ ad un chirurgo che trascrive, seziona i “tessuti interni” del sogno e un po’ ad un detective che insegue, attraverso labili tracce, la composizione definitiva di una trama compiuta. In un tempo, com’è il nostro, dominato dal feticismo dei numeri e delle quantificazioni scientiste, dal falso rigore della riduzione macchinica della vita, il libro di Massini di ricorda, con Freud, il “respiro” del sogno e della narrazione come fossero sangue senza il quale la vita è vita morta.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Stefano Massini dedica un romanzo al padre della psicoanalisi E offre più di uno spunto di riflessione sull’attualità di un pensiero che ha aperto una strada alla conoscenza dell’uomo tutt’altro che superata
La sua rivoluzione sta nel considerare il nostro inconscio come il luogo di una specie diversa di ragione
Con gli occhi stessi di Sigmund, l’autore si avvicina all’enigma del sogno che ci fa esplorare un altro io

Il Fatto 24.11.17
Il preside fa togliere le statuette di Madonne e pontefici Insorgono insegnanti e genitori

Via le statue della Madonna e di Gesù e le foto dei papi Bergoglio e Wojtyla dalla scuola. Accade a Palermo, dove il dirigente della Ragusa Moleti, Nicolò La Rocca, ha diramato ieri mattina una circolare “iconoclasta”. Nella nota si fa divieto agli insegnanti di far pregare i bimbi prima della merenda e delle attività didattiche. Nella circolare il preside fa riferimento al parere dell’Avvocatura dello Stato dell’8 gennaio del 2009 allegato alla nota del gabinetto del ministero dell’Istruzione del 29 gennaio 2009. Così il dirigente ricordando proprio quel pronunciamento spiega che “è da escludere la celebrazione di atti di culto, riti o celebrazioni religiose nella scuola durante l’orario scolastico o durante l’ora di religione cattolica, atteso il carattere culturale di tale insegnamentò”.
“Le miei opinioni personali contano poco – ha spiegato il preside La Rocca –, sono un pubblico ufficiale e ho rispettato un parere dell’Avvocatura dello Stato. Certo, non mi aspettavo si sollevasse un simile polverone”. Il preside, che è alla guida della Ragusa Moleti dallo scorso settembre, spiega che “nessun genitore è venuto da me a lamentarsi per la presenza di quelle statue ingombranti. Qualcuno, invece, ha preferito rivolgersi a ilfattoquotidiano.it, raccontando della ‘tradizione’ delle preghiere prima della merenda e delle lezioni. Se fossero venuti da me avrei provveduto immediatamente”. Così ieri presa carta e penna il preside ha diramato la circolare e tolto dall’atrio dell’istituto le statue e dagli uffici le foto di santi e del Papa. “Quella di Bergoglio era nel mio ufficio…”, spiega. Una decisione che ha lasciato di stucco genitori e insegnanti, anche se assicura il dirigente “nessuno è venuto a lamentarsi. Qualche docente mi ha riferito di un po’ di nervosismo tra gli insegnanti, ma nel mio ufficio non è arrivato nessuno a protestare per la circolare”.

La Stampa 24.11.17
La scuola vieta le preghiere
I genitori contro il preside
Palermo, la circolare del dirigente delle elementari: via anche la foto del Papa
di Riccardo Arena

Si è preso insulti da tutta Italia, oscurantista è il più gentile, imbecille il meno cortese: è accusato di furia iconoclasta, il dirigente scolastico che, a Palermo, ha fatto togliere la statua della Madonna, le immagini dei santi e di Papa Francesco dai corridoi del suo istituto elementare. Vietati anche gli atti di culto durante le ore di lezione, la preghiera del mattino e forse pure il segno della croce prima di fare merenda.
Laicismo, insomma, in un contesto, come quello siciliano, che è molto confessionale. Nicolò La Rocca, preside della scuola Ragusa Moleti, quartiere Cuba-Calatafimi, ambiente medio-borghese, non lontano dal centro storico, crea un putiferio ma sostiene che la circolare che ha sorpreso i bambini e creato un coro unanime di dissenso nei suoi confronti si basa su una protesta di segno contrario da parte di alcuni genitori e su un parere dell’Avvocatura dello Stato del 2009, che a sua volta interpreta le leggi. E dunque dura lex, sed lex, anche se gli effetti di sopprimere con la forza del diritto abitudini consolidate un po’ disorienta i circa 800 bambini di età compresa fra tre e dieci anni, che frequentano i tre plessi dell’istituto. Effetto non voluto, la rivolta dei genitori, uniti dalle chat contro il preside, siciliano ma per anni in servizio in Lombardia e rientrato in settembre nell’Isola. Ecco dunque la raccolta di firme, le insegnanti che non sanno che fare e appaiono pure loro indecise, ma sono costrette a vietare ai bambini tutto ciò che pare fare riferimento alla religione.
Un papà è tra i più decisi nell’avversare l’imposizione del dirigente: «Così - dice Domenico Calò - si destabilizzano la mente e le abitudini dei nostri figli, è un atto di autoritarismo non concordato con gli organi collegiali». Una mamma, Daniela Mirabella: «Siamo allibite. Parlo a nome di tutte le mamme cattoliche: esigiamo che le immagini sacre tornino al loro posto, che i nostri bambini tornino a recitare la preghiera». Padri e madri si affidano al parroco della vicina chiesa del Cuore eucaristico di Gesù, ma la loro raccolta di firme vogliono mandarla pure all’arcivescovo.
Nicolò La Rocca non si scompone: è tranquillo, ma si dice, pure lui, come i suoi alunni, sorpreso dalle reazioni politiche in tutta Italia, con cattolici dell’Udc, leghisti e forzisti scatenati e pronti a chiedere la sua testa alla ministra Valeria Fedeli. La sua circolare proibizionista scaturisce però dalla presa di posizione di segno contrario da parte di un genitore, pronto a rivolgersi al sito di un quotidiano nazionale per lamentare la presenza di un paio di statue della Madonna ritenute ingombranti, nei corridoi, sorta di altarini completati da immagini di Giovanni Paolo II e Francesco, affisse alle pareti. Da qui il documento generalista del preside La Rocca: «Ci sarebbe nella nostra scuola l’usanza, da parte di alcuni docenti, di far pregare i bambini prima dell’inizio delle lezioni e di far intonare canzoncine benedicenti prima della consumazione della merenda». Parole proibite quanto di uso assolutamente comune, del tipo «Signore benedici il cibo che stiamo per prendere e fa’ che lo abbiano tutti i bambini del mondo». C’è però, scrive La Rocca nella circolare, un «parere dell’Avvocatura dello Stato dell’8 gennaio del 2009, allegato alla nota del gabinetto del Miur del 29 gennaio 2009, in base al quale è da escludere “la celebrazione di atti di culto, riti o celebrazioni religiose nella scuola durante l’orario scolastico o durante l’ora di religione cattolica, atteso il carattere culturale di tale insegnamento”». E dunque via le immagini sacre, mentre il dirigente spiega di essersi limitato «a ricordare che i riti e gli atti di culto possono essere fatti solo nelle attività extracurriculari. Le statue della Madonna erano enormi. Le avrei fatte togliere anche se fossero appartenute ad altre religioni». Ma lui, il preside, è credente? «È assolutamente ininfluente», risponde. Però tiene un crocifisso nel suo ufficio e lo consente in altre aule: «La sua presenza è regolata dalla legge, certo che lo lascio, ci mancherebbe».

Il Fatto 24.11.17
Caccia alle fonti dei cronisti. Libertà di stampa in pericolo
La carica delle Procure - Redazioni e case private perquisite, l’ultimo caso è Nicola Borzi del Sole24Ore: autore di un’inchiesta sui soldi dei Servizi segreti
di Giorgio Meletti

Una serie di decisioni illegittime di diverse procure della Repubblica stanno di fatto abrogando il segreto professionale dei giornalisti. Basta il semplice sospetto di una minima violazione di segreto d’ufficio e scatta la perquisizione per scoprire le fonti del giornalista. È una pratica più volte censurata dalla Cassazione e ancor più energicamente condannata da norme e sentenze europee. Eppure accade sempre più spesso.
Il fenomeno si traduce, al di là della buona fede dei singoli magistrati, in una pressione per tutti i giornalisti. Il messaggio è chiaro: se scrivi una parola di troppo puoi trovarti gente in divisa che fruga tra i giocattoli dei tuoi bambini o che si prende il tuo telefonino e cartografa comodamente tutte le tue relazioni e tutte le tue fonti. Anche chi si affida al segreto professionale del giornalista, imposto dalla legge e tutelato anche dal codice di procedura penale, è avvertito: se vai a raccontare qualcosa anche senza commettere niente di illecito, sappi che prima o poi potrebbe esserci un carabiniere, un poliziotto o un magistrato che potrà ricostruire tutti i tuoi contatti con il giornalista.
L’ultimo caso risale alla sera di venerdì 17 novembre. Gli uomini della Guardia di Finanza, su ordine del procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, si sono presentati nella redazione del Sole 24 Ore a Milano, con un decreto di acquisizione di documenti per il giornalista Nicola Borzi. Quella mattina il giornale aveva pubblicato il secondo di due articoli di Borzi sui movimenti dei conti correnti dei Servizi segreti presso la Banca Popolare di Vicenza. Secondo Pignatone chi ha fornito i documenti al giornalista (che non è indagato ma solo testimone) ha violato il segreto di Stato, un grave reato che può costare fino a dieci anni di carcere. Borzi ha consegnato i documenti richiesti in una chiavetta, ma i finanzieri per maggior sicurezza hanno smontato il disco rigido del suo computer sequestrandogli tutto il suo archivio, le sue email, insomma tutti gli strumenti di lavoro.
La stessa sera del 17 novembre, a Roma, trattamento simile ha ricevuto Francesco Bonazzi, giornalista de La Verità, che aveva scritto sullo stesso argomento il giorno prima di Borzi. Bonazzi però se l’è cavata consegnando una chiavetta con i documenti richiesti e sottoponendosi a un lungo interrogatorio da testimone non indagato. Per entrambi i giornalisti il solito trattamento, la richiesta in nome della Legge di violare la legge che vieta di rivelare le fonti.
Colpisce il silenzio che ha circondato anche l’ultimo di una lunga serie di episodi. Neppure il direttore del Sole 24 Ore Guido Gentili ha fatto alcun commento. Borzi è una delle principali fonti d’accusa nell’inchiesta sul falso in bilancio del Sole 24 Ore, per la quale ha presentato numerosi esposti.
Eppure, l’Ordine nazionale dei giornalisti non ha speso una parola, limitandosi a riprendere sul suo sito la protesta dell’Ordine della Lombardia, come se fosse una vicenda di interesse regionale. Salvo poi indicare come focus di principale interesse nazionale la libertà di Stampa a Ostia. Il racconto confezionato da giornali e telegiornali considera il lavoro giornalistico messo a repentaglio più che altro dalla testata al giornalista precario della Rai Daniele Piervincenzi, dalle minacce mafiose a Paolo Borrometi dell’Agenzia Italia o dal disprezzo di Beppe Grillo per i “giornalisti da 10 euro al pezzo”. Fatti gravissimi. Tuttavia essi non sono causa ma effetto di un fatto molto più grave: se la libertà di stampa è messa in discussione dalla magistratura a chi potremo rivolgerci per difenderla?
Purtroppo una politica capace di evocare a vanvera la “emergenza democratica” si gira dall’altra parte. Purtroppo molti credono che la libertà di Stampa, il cui principale baluardo è la segretezza delle fonti, sia un privilegio dei giornalisti e non una garanzia per tutti.
Peggio ancora, molti giornalisti, quando viene perquisita una redazione concorrente, pensano che la cosa non li riguardi. E ci sono quelli che non reagiscono neppure quando viene perquisita la scrivania accanto alla loro. Così, quando il 30 giugno scorso la Procura di Napoli ha ordinato illegittimamente la perquisizione a tappeto di tutta la famiglia del vicedirettore del Fatto Marco Lillo, molti, soprattutto i garantisti a 24 carati, hanno pensato che gli stava bene. Blande reazioni anche il 21 luglio, quando la Guardia di Finanza si è presentata a casa di Gianluca Paolucci de La Stampa.
Il suo racconto: “Restano in casa per due ore frugando dappertutto, tra i giocattoli dei bambini, nella culla, negli effetti personali della mia compagna (…) Sequestrano cd, chiavette Usb, vecchi telefonini in disuso”. Due settimane dopo, il procuratore capo di Torino Armando Spataro scrive una lettera di scuse a La Stampa: la denuncia dell’Unipol da cui era scaturito il blitz era sbagliata, le intercettazioni erano state rese pubbliche non da un reato del giornalista ma dall’errore di un magistrato.
Anche le intercettazioni tra Matteo Renzi e il generale della Gdf Michele Adinolfi, due anni fa, costarono a Vincenzo Iurillo del Fatto l’acquisizione da parte degli inquirenti di tutto il contenuto del suo computer, salvo poi scoprire che l’unico atto illegittimo era stato l’attacco alla memoria informatica del giornalista.

Corriere 24.11.17
Intervista a D’Alema
«Basta appelli all’unità»
«Negoziato surreale, intesa dannosa Il voto utile alla fine schiaccia il Pd»
L’ex premier: basta appelli all’unità, ma cerchiamo di rispettarci in campagna elettorale
intervista di Aldo Cazzullo

Impossibile l’alleanza con il Pd di Renzi. Ma non passiamo la campagna elettorale a farci la guerra» dice Massimo D’Alema al Corriere . «Con la nuova legge elettorale si sono infilati nella trappola che avevano preparato per noi».

D’Alema, è proprio impossibile l’alleanza con il Pd?
«Sarebbe stata necessaria una svolta radicale di grande impatto sull’opinione pubblica. Non modeste misure di aggiustamento, che ci hanno proposto a parole mentre ce le negavano nei fatti in Parlamento. Un negoziato surreale».
Affidato a Fassino, che lei conosce da una vita.
«Mi stupisco che una persona seria come Piero si sia prestata a un’operazione priva di senso. Non è con questi pannicelli caldi che si ricostruisce l’unità del centrosinistra. Ci vuole una temperatura, come per saldare metalli spezzati».
Ma così vi presentate divisi contro il centrodestra unito e contro Grillo.
«Questa è una sciocchezza fatta scrivere ad arte ai giornali. Non è vero che il centrosinistra perde perché è diviso. Il Pd si è separato da una parte del suo popolo, e non c’è nessuna coalizione che possa porvi rimedio. Il centrosinistra unito ha perso ovunque. Io stesso sono stato a Genova a fare campagna per il candidato del Pd. Mi rispondevano: “È un bravo compagno, ma non possiamo votarlo; perché così voteremmo per Renzi”».
Ecco il vero problema: Renzi.
«No. Sono le scelte politiche del Pd a guida renziana. Questa storia del rancore personale è un’altra sciocchezza. Io ho lavorato fianco a fianco con persone che mi stavano antipatiche. Non si può dividere la sinistra per questioni personali. Se noi abbiamo deciso di dar vita a una nuova esperienza politica, ci sono ragioni profonde. Abbiamo un’idea del tutto diversa del Paese, del partito, della democrazia».
E se dopo le elezioni Renzi si facesse da parte, il dialogo potrebbe ricominciare?
«Non dipende solo dal leader, per quanto il Pd si stia caratterizzando come partito personale; dipende dalle politiche. Evitiamo che la campagna elettorale sia dominata da una polemica tra di noi. Finiamola con questo tormentone, questo assillo dell’appello unitario; perché così si creano le premesse per le recriminazioni successive. Se noi avremo dei voti, non saranno tolti al Pd, ma recuperati all’astensionismo. Smettiamola con queste sciocchezze che fanno soltanto del male, e cerchiamo di rispettarci. Non siamo dei matti, vogliamo riaprire una prospettiva di governo del Paese, ricostruire un centrosinistra autentico. Se avremo una forza consistente, costringeremo il Pd a dialogare con noi. E daremo maggior forza a quelli che dentro quel partito dicono che bisogna cambiare strada. Ce ne sono tanti».
Non è possibile neppure una desistenza nei collegi uninominali, come tra Ulivo e Rifondazione nel 1996?
«Noi avevamo fatto una proposta di buon senso: introdurre il voto disgiunto. Un conto è votare una persona nei collegi, un altro è votare una lista nel proporzionale. Ci hanno chiuso la porta in faccia. Hanno risposto di no con arroganza e cecità politica, ponendo la fiducia sulla nuova legge elettorale».
Di cui lei è grande estimatore.
«È una legge mostruosa, pasticciata, confusa. Il Pd l’ha voluta pensando che il voto utile ci avrebbe schiacciato; poi in Sicilia hanno visto che il voto utile schiaccia loro. Sono rimasti imprigionati nella trappola che avevano preparato per noi. Mi chiedo che gruppo dirigente sia questo: dovrebbero essere gli eredi, oltre che di nobili tradizioni, di una certa professionalità politica. Ma se il bipolarismo diventa tra 5 Stelle e centrodestra, la cui riunificazione è stata favorita da questa legge scritta dal Pd sotto dettatura di Forza Italia, allora chi non vuole Berlusconi voterà Grillo, e chi non vuole Grillo voterà Berlusconi».
Lei chi sceglierebbe?
«Io voterò per la nostra lista. Non partecipo a questo gioco di società. È inutile fingere che le prossime elezioni siano una sfida finale per il governo: tutti sanno che non ci sarà una maggioranza in grado di governare da sola».
A maggior ragione avrebbe senso riunire il centrosinistra, per dargli maggior forza.
«Perché dobbiamo entrare in una dinamica suicida? I nostri elettori reali e potenziali non ci seguirebbero. Non è che, se ci alleiamo con il Pd, quelli che votano per noi votano per il Pd; chi lo pensa vive sulla luna; quelli che votano per noi sono in forte dissenso con il Pd. Quando un partito piccolo si allea con un partito grande, agli occhi degli elettori ne condivide l’ispirazione e ne accetta la leadership. Se una coalizione di questo genere dovesse vincere le elezioni, cosa altamente improbabile, sarebbe naturale che il capo dello Stato desse l’incarico al leader del partito principale. Da cui però ci divide tutto: la politica economica, estera, istituzionale. Anche il populismo».
Renzi è populista?
«A intermittenza, come ha scritto Stefano Folli. Promettere meno tasse per tutti e nel contempo più investimenti: questo è il populismo».
Vede che il problema è lui?
«Prima della scissione disse che gli dispiaceva, ma sul piano elettorale eravamo irrilevanti. Se siamo irrilevanti, non vedo perché dobbiamo essere tormentati in questo modo, come se dipendesse da noi il futuro dell’umanità».
Con Fassino almeno vi siete parlati?
«I giornali hanno scritto di una telefonata di 47 minuti. È durata 4 minuti e mezzo. Ho detto a Piero la verità: non decido io, parla con Speranza. Capisco che scrivere la verità sarebbe stato deludente. Occorreva evocare la presenza del cattivo».
Lei non sarà cattivo, ma Mdp dà l’idea di un’operazione di ceto politico.
«Fassino e Martina da dove vengono? E Renzi? Questa nostra fase costituente è caratterizzata da un’enorme partecipazione della società civile, del cattolicesimo popolare. Le nostre liste saranno le più aperte. La fondazione Italianieuropei ha collaborato all’organizzazione di due convegni con l’Associazione Elpis e la Romana di Studi e Solidarietà, vicine al mondo dei gesuiti e a quello dell’Opus Dei, per parlare di disuguaglianze e migranti. Questi sono gli interlocutori, questi i temi».
E il leader chi sarà?
«Lo decideremo al momento opportuno».
Lei chi vorrebbe? Grasso?
«Attendo disciplinatamente. Se il presidente del Senato decidesse di impegnarsi, sarebbe un valore aggiunto straordinario. È una delle personalità più stimate del Paese».
E Pisapia cosa farà?
«Non lo so. Mi pare un uomo tormentato, incerto. Nelle dichiarazioni è stato molto più radicale di me, ha chiesto al Pd netta discontinuità di programmi e di leadership. Ora leggo che Campo progressista sta negoziando con il Pd. Mi aspetto siano coerenti. Discontinuità è una parola forte, non un elenchino di promesse per la prossima legislatura».
Pisapia si batte per l’unità a sinistra.
«Capisco il suo afflato, ma questo progetto unitario non ha nessuna consistenza politica né programmatica. Sarebbe stato un segnale esaminare seriamente il provvedimento sull’articolo 18 che avevamo proposto; c’è una certa schizofrenia tra il dire e il fare».
L’abolizione dell’articolo 18 l’avete votata anche voi.
«Io non sono in Parlamento. Molti sono usciti proprio per non votarla. Altri l’hanno votata per una logica di disciplina di partito, cui non intendiamo tornare. Quella controriforma ha contribuito a umiliare il mondo del lavoro. Se togli la tutela contro i licenziamenti ingiusti, cambi il rapporto di forza: la conseguenza infatti è il dilagare della precarietà. Il mio amico Padoan dice che la priorità sono i giovani...».
Invece?
«Invece abbiamo il record europeo di disoccupazione giovanile. E il record di stagisti che lavorano 12 ore al giorno e guadagnano 300 euro al mese. Il governo ha fatto affluire un fiume di soldi verso imprese e banche, e ora non trova 300 milioni per i pensionati. Ho provato una stretta al cuore nel vedere Renzi alla corte di Macron, mentre la Francia colonizza il nostro sistema economico, scala Telecom, fa incetta di marchi; e appena noi tentiamo una mossa in casa sua, nazionalizza i cantieri navali. Io sono un federalista europeo convinto, come Ciampi, Prodi e la Bonino. Renzi ha una visione dell’Europa intergovernativa, rivendicativa, da pugni sul tavolo. È all’opposto».
Per il dopo-voto lei ha parlato al «Corriere» di un possibile governo del presidente. Mdp ci sarebbe?
«Quello che stiamo costruendo non sarà più Mdp, sarà qualcosa di significativamente più ampio. La prospettiva per il dopo-voto è di una forte centralità del Parlamento. E noi ci saremo».

Corriere 24.11.17
Il futuro della sinistra. Durante le elezioni siciliane ha molto coplito il fatto che non si sia sollevato un solo dibattito su una proposte, su un programma di governo
Basta con i calcoli politici serve un progetto per l’italia
di Massimo Bray

Caro Direttore, alcuni mesi fa ho potuto esprimere alcune opinioni e dichiarare alcune aspettative sulla politica del nostro Paese e, in particolare su quella della sinistra. Mi auguravo che, alla vigilia del voto in Sicilia, si facesse uno sforzo da parte di tutti per costruire una nuova identità riformista, convinto come sono che se la sinistra vorrà ritrovare un legame col suo elettorato dovrà essere capace di elaborare e condividere un progetto e un’agenda politica fortemente discontinui rispetto a ciò che è accaduto in questi anni.
Una scelta coraggiosa, necessaria per superare quel sentimento di diffidenza diffusa che c’è nell’elettorato. Mi è difficile dimenticare i dati emersi nei giorni successivi al referendum sulle riforme costituzionali: la quasi totalità dei giovani e un numero impressionante degli altri elettori hanno votato contro le proposte del partito democratico.Allo stesso modo credo colpisca tutti il dato di astensionismo delle recenti elezioni siciliane. Da parte mia lo leggo, da una parte come una forma estrema di scoramento e, dall’altra, come l’ennesima dimostrazione di richiesta di cambiamento che i cittadini rivolgono, con «pazienza democratica», alla politica e ad una sinistra che appare più interessata ad una ricostruzione basata su alchimie elettorali e non su scelte sociali e culturali.
Un progetto che allontani il dubbio (o, peggio ancora la certezza) che la sinistra rappresenti ormai solo i «poteri forti» e sia incapace di condurre battaglie per l’eguaglianza, i diritti sociali, il superamento di ogni forma di discriminazione.Una sinistra che non lasci alla destra il compito di difendere le parti più svantaggiate della società e di dare risposte alle «paure» che i cittadini vivono quotidianamente.Una sinistra che non abbia bisogno di «copiare» la sua agenda politica, né di inseguire facili consensi di breve durata, ma abbia la forza di pensarla e confrontarla con i cittadini.
Ma per far questo dovrà essere capace di riconoscere con sincerità e umiltà gli errori fatti in questi anni — anche questo sarebbe un segno di forza e di vero cambiamento — e affermare con chiarezza da che parte stare di fronte ad un sistema iniquo che in questi quarant’anni ha favorito l’accumulo di enormi ricchezze nelle mani di pochi e l’accentuarsi di forme di diseguaglianza e precarietà non più sopportabili. Gli ultimi quarant’anni, ha scritto Tony Judt, sono «stati consumati da locuste» e sono stati gli anni in cui la destra, di Reagan e della Thatcher, come molta sinistra europea, hanno governato il mondo e inventato il modello politico dell’appalto dello Stato. Ma sono stati lunghi anni in cui la sinistra ha commesso un secondo grave errore: l’illusione di poter governare la globalizzazione, accettando l’idea di superare le identità nazionali.
Abbiamo bisogno di una sinistra che esca da questa storia, una sinistra che sappia affrontare le sfide del XXI secolo, capace di domandarsi se le strutture istituzionali del Novecento siano ancora in grado di confrontarsi con le sfide della contemporaneità. Abbiamo bisogno di uno Stato che garantisca i diritti dei cittadini, mostrando di voler superare il cancro della corruzione attraverso un progetto di reale efficienza e trasparenza, che non vuol dire pubblicare gli stipendi e l’agenda dei ministri sui siti ma definire le politiche pubbliche attraverso processi partecipati in cui le scelte finali vengano compiute solo quando il decisore politico compia un bilanciamento tra gli interessi opposti e abbia la ragionevole certezza che le azioni che intende compiere siano idonee al raggiungimento del bene comune.
Una politica che elabori una differente economia di mercato che metta al centro delle scelte la volontà di investire in servizi pubblici di qualità, a partire dalla sanità, dalla scuola e dall’università, che vari un coraggioso e innovativo progetto per contrastare l’inquinamento atmosferico, per essere competivi nell’innovazione tecnologica, per tutelare i beni culturali e il paesaggio - solo in questo modo si svilupperà un turismo sostenibile, un progetto che investa nella riqualificazione delle nostre città, nella capacità di pensare il loro futuro, nell’impatto delle tecnologie sull’occupazione e nella necessità di un profondo rinnovamento delle politiche del lavoro.
Una sinistra capace di mostrare il volto dell’ottimismo, di un ottimismo basato sulla consapevolezza che nel Paese esistono le energie e le forze per scrivere pagine di storia fatte di speranze e di opportunità, di idee e contenuti. Passioni, intelligenze che possiamo rintracciare osservando l’energia che si «respira» nei centri di ricerca, nei coworking, nelle startup, nelle biblioteche, nelle scuole, nei festival culturali, nelle innumerevoli associazioni che difendono il patrimonio culturale, nelle donne e negli uomini che dedicano molto del loro tempo al volontariato. Una sinistra, scrivevo, capace di abbandonare quei personalismi, che hanno accentuato il suo essere «divisiva» e non inclusiva.
Credo non abbia colpito solo me, ma moltissimi cittadini il fatto che durante le elezioni siciliane non si sia sollevato un solo dibattito su una proposta, su un programma di governo.La nostra memoria difficilmente potrebbe ricordare i punti caratterizzanti di un’agenda politica per una delle realtà più complesse e significative del Mezzogiorno. Al contrario ricordiamo le interminabili discussioni sulla scelta del candidato, noiose non meno di quelle sulla scelta del candidato premier.Ci piacerebbe, al contrario ascoltare e capire a cosa serva questa leadership, quale posizione abbia, ad esempio, rispetto alle questioni sociali o a quelle ecologiche.
Ecco perché sono convinto che non si possa più perdere tempo dietro la ricerca di strategie basate esclusivamente sul «calcolo» politico, ma sia necessario e urgente confrontarsi, nel modo più aperto possibile, su un progetto e un’idea di Paese.La buona politica ha bisogno di empatia, di idee, di pragmatismo e, soprattutto, di visione.

Corriere 24.11.17
Piccoli, piccolissimi e già divisi Sigle (e crepe) nel fronte filo Renzi
di Tommaso Labate

Verdi, Idv, Radicali e socialisti dialogano ma alcuni non condividono e vanno via
ROMA « Quando ho letto che Renzi aveva scritto che il Pd era il più grande partito ambientalista d’Italia pensavo di trovarmi di fronte a un giornale satirico». Infatti, tra «condoni e cemento», il governo di Renzi «è stata un’imitazione di quanto voleva fare Berlusconi, compresa la sparata del Ponte sullo Stretto». All’inizio di settembre, col caldo agostano ormai alle spalle, Angelo Bonelli affida a un’intervista al Fatto la sua netta presa di distanza dal Pd e dal suo segretario. È in vigore una legge elettorale proporzionale che rinnega le coalizioni e Bonelli, erede di Alfonso Pecoraro Scanio alla guida del partito del Sole che ride, ad arrivare in pole position ai voti degli ambientalisti ci tiene proprio: ha combattuto contro l’Ilva candidandosi a sindaco di Taranto, ha sfidato le trivelle difese dal governo Renzi al referendum del 2015, perché farsi scippare dal Pd anche quei voti?
Nemmeno tre mesi dopo, complice una legge elettorale che le coalizioni le prevede eccome, Bonelli evidentemente cambia idea. Vede Piero Fassino e scopre che sì, «l’incontro è stato positivo, abbiamo discusso della possibile configurazione di un’alleanza di centrosinistra». Neanche il tempo di metabolizzare la folgorazione sulla via del Nazareno ed ecco che, sulla scelta di allearsi col Pd, i Verdi subiscono una mini scissione. Nadia Spallitta, front woman del Sole che ride a Palermo e già candidata a sindaco del capoluogo siciliano, straccia la tessera e si avvicina a Mdp. «Non era mai stata iscritta», dicono i Verdi. Ma la scissione, nei fatti, c’è.
Vivere il trauma del divorzio in vista dell’accordo con Renzi non è lo scherzo che il destino ha riservato ai soli Verdi, perché anche gli altri piccoli partiti aggregati da Fassino al locomotore del Pd perdono pezzi. Succede ai socialisti oggi guidati da Riccardo Nencini, rispetto ai quali altri socialisti come Bobo Craxi dicono arrivederci e grazie per trovare riparo sotto il tetto di Mpd. Anche se il percorso è stato diverso, con ruggini che risalgono all’epoca in cui Marco Pannella era ancora vivo, pure i Radicali si presenteranno all’alleanza col Pd diversamente aggregati rispetto alla composizione storica. Alleati col centrosinistra Bonino, Della Vedova e Riccardo Magi; per i fatti loro Maurizio Turco e altri pannelliani di stretta osservanza.
Neanche il progetto di Campo progressista è immune dal virus delle divisioni interne. Non sarà una scissione ma anche tra i parlamentari legati a Pisapia, all’indomani del riavvicinamento all’orbita del Pd, ci sono delle scosse di assestamento. E non solo perché Bruno Tabacci, braccio destro dell’ex sindaco di Milano, rivendica per l’ala cattolico-popolare un ruolo che conta nel centrosinistra che verrà. Ma anche perché un pezzo degli eletti in Parlamento rimane ancorato, non solo formalmente, al sogno di stare lontani da Renzi. Non a caso Stefano Quaranta e Lara Ricciatti, vicinissima a Laura Boldrini, sono intervenuti all’assemblea di Mdp.
Finita qui? Nemmeno per sogno. Anche quel che resta dell’Italia dei valori porterà in dote al centrosinistra renziano solo una parte del suo serbatoio di dirigenti e consensi. È bastato che il leader Ignazio Messina incontrasse l’ambasciatore del Pd Fassino e anche tra quel che resta dei vecchi dipietristi s’è consumata una scissione. «Quando in un partito vengono meno l’impianto valoriale e i principi fondativi, allora non ha più senso rimanerci», ha scritto in un documento l’ormai ex responsabile organizzazione Luciano Pisanello, che insieme ad altri dirigenti e amministratori sta spostando armi e bagagli nel partito di Bersani. E chissà se ci sono i tormenti della sua ex «creatura» dietro la scelta di Antonio Di Pietro di annunciare al periodico italo-brasiliano Comunità italiana che «sia il Pd che Mdp si sono dichiarati disponibili a candidarmi al maggioritario in Molise». Un modo come un altro per scindersi. Ma, stavolta, rimanendo se stessi.

il manifesto 24.11.17
Camusso: «Non ci fermiamo: pensioni più eque per tutti»
Verso il 2 dicembre. Susanna Camusso rilancia la mobilitazione: la Cgil in piazza perché il governo ha dimenticato i giovani e le donne, tradendo gli impegni già presi. Basta con i tagli sempre ai più deboli: le risorse si reperiscano rendendo il fisco realmente progressivo Alle cinque manifestazioni previste ha aderito tutta la sinistra, da Campo progressista a Mdp-Si-Possibile
di Antonio Sciotto

Sulle pensioni il governo va avanti deciso e ieri ha presentato l’emendamento alla manovra che recepisce l’ultima proposta fatta al tavolo, rigettata dalla Cgil e accettata invece da Cisl e Uil: solo 14 mila esentati dall’aumento a 67 anni nel 2019, i dati dell’esecutivo confermano che la platea è molto ristretta, come aveva denunciato la stessa segretaria Cgil Susanna Camusso.
Che dal manifesto rilancia la mobilitazione del 2 dicembre e spiega che «il tema non è affatto chiuso». Cinque cortei – a Roma, Torino, Bari, Cagliari e Palermo – «per permettere la massima partecipazione e ribadire che è solo l’inizio, perché continueremo a mobilitarci».
Intanto avete avviato i colloqui con tutti i gruppi parlamentari. Confidate che sia possibile ottenere qualcosa nel dibattito sulla manovra?
Chiediamo che si faccia un passo avanti rispetto alla attuale situazione e che non si consideri chiusa la vertenza, sia nel dibattito parlamentare sulla legge di Bilancio ma poi anche successivamente.
Il ministro Padoan dichiara che lo schema approntato dal governo è «una scelta di sinistra» e che garantire la sostenibilità finanziaria è un modo di preoccuparsi dei giovani.
Al contrario, ritengo che quanto proposto dal governo sia un modo per non pensare ai giovani. Si sta dicendo loro che l’unico modo per garantire la sostenibilità finanziaria è non modificare il sistema attuale, in cui o fai parte di una élite che ha una carriera continuativa e ben retribuita o sei condannato a una pensione insufficiente per vivere dignitosamente. Noi chiediamo di ridefinire le regole per garantire un assegno sostenibile ai giovani e alle donne, temi che peraltro facevano parte del verbale sulla Fase 2 che avevamo redatto nel 2016. Per dare risposte ai giovani bisogna intervenire ora, venti o trenta anni prima. Credo si sia persa una grande occasione di cambiamento.
In effetti il tavolo sulla previdenza è durato due anni. Cosa vi ha fatto alzare alla fine?
Un clima che si è creato rispetto alle rappresentanze dei lavoratori. In qualsiasi azienda, quando non si ottempera agli impegni presi, il sindacato reagisce. Se nel settembre 2016 il governo si impegna a intervenire per costruire una pensione di garanzia per i giovani e valorizzare il lavoro di cura, a favore soprattutto delle donne, perché poi queste questioni scompaiono del tutto nel novembre 2017 e addirittura non si possono più neanche nominare? Guardavo i titoli dei giornali del 30 e 31 agosto scorsi: «Arriva la pensione di garanzia per i giovani», l’esecutivo aveva avanzato una proposta e si discuteva anche di abbassare la soglia dell’1,5 per potere accedere alla pensione di vecchiaia. Temi oggi spariti dal tavolo. Un sindacato a queste condizioni non può dire «sono contento», visto che si è registrata una retromarcia netta del governo rispetto agli impegni assunti.
Lo stesso avete lamentato per l’aumento a 67 anni.
Quando l’anno scorso si convenne sull’Ape social, lo facemmo perché nell’accordo era prevista una Fase 2 che uscisse dalla logica emergenziale e mettesse in ordine l’intero sistema con regole eque e universali. Invece siamo tornati alla logica delle deroghe per platee ristrette. E se nel contempo passa il messaggio che il meccanismo dell’adeguamento all’aspettativa di vita vale anche per le pensioni anticipate, vuol dire che progressivamente si vuole cancellare pure quelle. Intanto i pochi che si vedono applicare la deroga devono però passare da 20 a 30 anni di contributi: si sommano mille contraddizioni senza creare un sistema coerente, universale e davvero equo per tutti.
Anche l’Europa insiste sulla sostenibilità dei nostri conti, e mette i risparmi sulle pensioni tra gli elementi fondamentali per garantirla.
La pressione di Bruxelles su lavoro e previdenza fa parte di quella logica che individua solo nel campo dei diritti sociali il luogo dove reperire risorse, attraverso tagli continui. Vorrei vedere piuttosto riforme strutturali sul fisco, sulla corruzione, sull’evasione. In dicembre la Ue discuterà sul Fiscal compact, sarebbe già un’occasione per cambiare registro: ma perché in Italia non se ne parla? Gli altri paesi europei prevedono una tassazione sui grandi patrimoni finanziari e immobiliari, mentre in Italia scriviamo nel Def che si deve livellare la spesa sanitaria. Si tratta insomma di fare delle scelte: cominciamo dal riequilibrio della progressività e dell’equità fiscale, torniamo a garantire un welfare universale e che copra i più deboli.
Intanto si è riaperto il dibattito sull’articolo 18, un vostro cavallo di battaglia che oggi scava il solco tra il Pd e la sinistra. Per Matteo Renzi non si devono fare «abiure» sul passato, ma basta programmare un futuro diverso: tornare a far aumentare le quote dei tempi indeterminati sul totale dei nuovi contratti, precipitate dopo la fine degli incentivi. Può bastare secondo la Cgil?
Abbiamo presentato la Carta dei diritti universali del lavoro e quello rimane il nostro punto di riferimento. Per questo avevamo guardato con favore al fatto che si fosse riaperto il dibattito in Parlamento con proposte sull’articolo 18. Aver rimandato quei testi in Commissione è un chiaro modo per non farli arrivare più al dibattito. C’è certamente un problema di prevalenza dei rapporti a termine – inclusi gli stage, i tirocini – nonostante le forti risorse investite nella decontribuzione. Ma vorrei ricordare al Pd che la liberalizzazione dei contratti a termine l’hanno varata proprio loro, con la prima fase del Jobs Act: il decreto Poletti ha rimosso le causali e permesso la ripetibilità praticamente all’infinito.
Insomma, per la Cgil l’articolo 18 rimane importante.
Sì, perché la necessità di essere adeguatamente protetti rispetto al licenziamento senza giusta causa non è risolvibile mettendo semplicemente più incentivi ai contratti a tempo indeterminato. L’assenza di una tutela fondamentale come l’articolo 18 crea un clima pesante nei luoghi di lavoro, dove è più difficile esercitare le libertà sindacali. Lo stesso Pd ammette che i licenziamenti disciplinari sono aumentati a dismisura, e non dimentichiamo che proprio all’avvio del Jobs Act si verificarono numerosi licenziamenti di delegati sindacali. Peraltro l’abrogazione non ha creato l’affollamento di multinazionali alle porte dell’Italia pronte ad assumere. Mi pare al contrario, viste le numerose crisi aperte, che tante aziende stiano piuttosto andando via. Per tutti questi motivi puntiamo a reintrodurre una tutela.

Repubblica 24.11.17
Intervista a Susanna Camusso
“Caro Padoan non è di sinistra questa iniqua legge pensionistica”
di Roberto Mania

ROMA «L’obiettivo di una sinistra di governo dovrebbe essere quello di rimuovere le ineguaglianze, non di difendere un sistema previdenziale iniquo piegato alla logica della sostenibilità finanziaria, la stessa che ha prodotto danni sociali immani».
Susanna Camusso, segretaria generale della Cgil, parla davvero un linguaggio diverso da quello del ministro Pier Carlo Padoan che a Repubblica ha spiegato come le scelte fatte sulle pensioni appartengono alla cultura di governo della sinistra per garantire ai giovani il benessere attraverso la stabilità dei conti pubblici. «E poi — insiste Camusso — questa contrapposizione giovani-anziani s incomprensibile: ai giovani dobbiamo dare una pensione dignitosa dopo averli condannati per anni alla precarietà. Da vent’anni sono precari e non l’hanno scelto loro».
Resta il fatto che la Cgil ha deciso di mobilitarsi per le pensioni, non per il lavoro ai giovani. Di questo ha parlato il ministro Padoan.
«Guardi, questa trattativa con il governo non riguardava le pensioni in essere. Anzi i pensionati si lamentano perché dicono che ci occupiamo troppo poco delle loro condizioni. Con il governo abbiamo aperto una vertenza che riguarda il sistema pensionistico, e sono interessati i lavoratori attuali e i giovani che ancora cercano lavoro.
È questa la nostra prospettiva».
Bene, e allora perché dire no alla proposta del governo di escludere 15 categorie dall’aumento dell’età pensionabile a 67 anni nel 2019?
Non è stato un risultato anche dei sindacati?
«Veramente il governo si era impegnato a correggere le iniquità del sistema previdenziale disegnato dalla legge Fornero. Quell’impegno s rimasto scritto sulla sabbia.
Permangono iniquità profonde in particolare per le donne e per i giovani, che un meccanismo derogatorio non corregge per nulla, per quanto migliori le condizioni di qualche migliaia di lavoratori. Non si può mantenere un sistema che continua a inseguire la crescita dell’aspettativa di vita e che progressivamente riduce anche l’importo delle pensioni. Non ce l’ha nessun altro Paese al mondo. Si va avanti senza fine, un inseguimento perenne. Non si può pensare di andare in pensione a 70 e poi magari a 80 anni. Oppure con 45 anni di versamenti contributivi. Per paradosso solo la morte può teoricamente bloccare questo meccanismo».
Il meccanismo è stato attenuato e una commissione studierà quali categorie di lavoratori potranno essere esentate dall’aumento dell’età.
Non è un passo avanti?
«L’emendamento presentato dal governo ha le stesse tabelle sull’aumento dell’età di pensionamento che si avevano in precedenza. Le persone non ce la fanno, si invecchia comunque anche se si vive più a lungo».
Il 2 dicembre la Cgil scenderà in piazza per questo. Ma realisticamente cosa pensa di ottenere da un Parlamento a fine legislatura, con una maggioranza risicata al Senato, che dovrebbe modificare un testo del governo condiviso dagli altri sindacati, Cisl e Uil? Mi dica un obiettivo concreto.
«Il nostro messaggio s assolutamente chiaro: non consideriamo chiusa la vertenza sul sistema previdenziale.
Spiegheremo a tutti i gruppi parlamentari perché quella soluzione non ci piace. Cercheremo di convincere il maggior numero di parlamentari possibile e continueremo la nostra battaglia».
Puntate al rinvio dell’aumento dell’età pensionabile?
«È un’ipotesi emersa anche in
Parlamento».
In questo contesto la vostra battaglia appare un po’ velleitaria. Non crede?
«Se tutte le cose difficili fossero considerate impossibili ritorneremmo all’800. Tutte le conquiste che hanno migliorato le condizioni dei lavoratori, dalle otto ore in poi, sono state ritenute prima inattuabili, poi le cose sono cambiate. Non chiediamo che alle persone venga data una pensione alla nascita, ma la possibilità di un lavoro dignitoso e poi di un periodo ragionevole di pensionamento».
Ma non è che il vero obiettivo della Cgil era quello di portare in piazza la sinistra-sinistra?
«Assolutamente no. È stucchevole questa volontà di piegare tutto al contingente politico. Se fosse questa la logica non avremmo dovuto firmare l’accordo con Renzi sui contratti pubblici alla vigilia del referendum costituzionale. Invece l’abbiamo fatto perché c’erano le ragioni sindacali. Allo stesso modo non penso che le scelte di Cisl e Uil sulle pensioni siano state dettate da una presunta vicinanza al Pd: hanno detto, seppure con giudizi diversi tra loro, che erano d’accordo in base a motivazioni sindacali».
Eppure è un fatto che tutta la sinistra che darà vita alla cosiddetta Cosa rossa sarà in piazza con la Cgil.
«Non sapevo neppure che si chiamasse Cosa rossa. Guardi che la Cgil non prende ordini da nessuno.
Successe già nel 1956 quando Di Vittorio strappò con il Partito comunista sull’invasione in Ungheria. Da sempre la Cgil s troppo grande per stare in un partito. La nostra, ripeto, s una vertenza sindacale. Noi saremo in piazza con i lavoratori e le lavoratrici, con i giovani e con i pensionati. Come sempre s stato la nostra piazza s aperta a chiunque voglia venire».
Ma perché non una manifestazione per il lavoro dei giovani?
«È la Cgil ad aver presentato il Piano straordinario per l’occupazione giovanile. È la Cgil ad aver elaborato la Carta dei diritti anche per contrastare una precarietà in continuo aumento negli ultimi quattro anni. È la Cgil che ha imposto al tavolo della trattativa di cercare soluzioni previdenziali per i giovani, perché la previdenza s sempre più una questione che li riguarda. La nostra mobilitazione non si ferma, la moduleremo in base alle risposte che verranno dal Parlamento, visto che fino a prova contraria la nostra s ancora una Repubblica parlamentare. Avremo occasioni di discussione anche con i giovani, non derubricheremo il tema. Ormai si contano le volte che la Cgil pronuncia la parola giovani, forse se la politica fosse più attenta al lavoro, i giovani non prenderebbero la valigia per andarsene».

il manifesto 24.11.17
La crescita produce precariato: record nei primi 9 mesi del 2017
Osservatorio sul precariato dell'Inps. Dall’avvio del Jobs Act nel marzo 2015 la sostituzione del lavoro a tempo indeterminato con il lavoro precario a vita procede a passo di carica
Studente, a Torino
di Roberto Ciccarelli

Finiti i soldi dell’assistenzialismo statale alle imprese, crollano i nuovi contratti a «tempo indeterminato» (10 mila in meno), mentre quelli a termine macinano record su record e, dopo l’abolizione dei voucher, il lavoro a chiamata ha registrato un boom del 133% nei primi nove mesi del 2017.
L’OSSERVATORIO sul precariato dell’Inps ieri ha confermato un risvolto della «crescita» tanto celebrata. L’unico modo per creare nuova occupazione – più dell’80% precaria e a termine – è pagare con i soldi pubblici o quelli europei le imprese. Anche così si spiega l’aumento delle assunzioni con il programma «Garanzia giovani» (42.500) e con il bonus assunzionale per i giovani del Sud (86.412). Il guaio è che i fondi necessari per assicurare una rendita al capitale sono finiti. Dopo i 18 miliardi per assumere con il «Jobs Act», l’occupazione che cresce non è quella prevista a tempo indeterminato, ma quella a breve e brevissimo termine, grazie alla «riforma» Poletti dei contratti a termine. La cancellazione della «causale» ha portato a questa situazione: nei primi nove mesi del 2017 sono stati stipulati 909.362 nuovi rapporti di lavoro. Le trasformazioni dei contratti «precari» in tempo indeterminato sono state 214.819, di cui 56.772 sono gli apprendisti. Questo significa che almeno 695 mila contratti sono «atipici». Dall’avvio del Jobs Act nel marzo 2015 la sostituzione del lavoro a tempo indeterminato con il lavoro precario a vita procede a passo di carica.
IL JOBS ACT ha creato un altro problema. Nel pieno della crisi ha inasprito le regole della cassa integrazione (Cig), provocando un crollo dei sussidi: -39,8% rispetto in dieci mesi. Questo non avviene per un’aumento dell’occupazione, ma perché i lavoratori non possono ottenere la Cig. Così si tutelano ancora le imprese, non i diritti delle persone.

Repubblica 24.11.17
Il Paese a crescita zero
L’Italia senza culle che può salvarsi grazie ai migranti
Bisogna intervenire subito sull’asse portante della nostra economia: la fascia di età 35-49 anni
Se non ci fossero stati immigrati le generazioni si sarebbero dimezzate
In futuro il peso rischia di diventare insostenibile per pensioni e debito pubblico
di Alessandro Rosina

L’immigrazione non è troppa se si guarda alla componente regolare (quella nettamente prevalente) e alle necessità di crescita (non solo demografica) del nostro Paese.
Anzi, è meno di quanto avremmo teoricamente bisogno per compensare gli squilibri autoprodotti dall’accentuata denatalità.
Possiamo anche decidere che non vogliamo immigrati e loro discendenti sul nostro territorio, ma è bene aver presente le implicazioni che ne derivano. Un modo per acquisire consapevolezza è quello di vedere come sarebbe oggi la nostra popolazione se non ci fossero stati flussi con l’estero. Per costruire tale scenario ipotetico facciamo coincidere i nati 50 anni fa con i cinquantenni di oggi, i nati 49 anni con i 49enni di oggi, e così via. Nel secolo scorso le nascite straniere erano una quota molto esigua sulle nascite totali, quindi i dati forniti da tale scenario — limitandoci alla fascia 15-50 anni — restituiscono un ritratto sostanzialmente fedele della popolazione italiana attuale se, appunto, le frontiere fossero rimaste chiuse dalla seconda metà degli anni Sessanta ad oggi. I valori ottenuti ci dicono che i 50enni sarebbero ora quasi un milione, i 40enni meno di 800 mila, i 30enni poco più di 550 mila, e ferme attorno a tale livello anche le classi ancor più giovani. Si tratta, di fatto, di un dimezzamento generazionale in 20 anni.
Qual è stato l’impatto dell’immigrazione? Se prendiamo la popolazione realmente residente oggi in Italia e la confrontiamo con lo scenario teorico precedente vediamo che la popolazione dei 40enni si alza su valori abbastanza vicini al dato dei 50enni. Il crollo, invece, delle nascite nei decenni successivi, in particolare dalla seconda metà degli anni Settanta, risulta molto maggiore rispetto all’azione di compensazione fornita dall’immigrazione. Nello specifico, i 35enni, circa 620 mila senza immigrazione, sono invece oggi 735 mila grazie ai flussi di entrata dall’estero.
Quest’ultimo valore risulta, però, non solo ben sotto agli attuali 40-50enni, ma anche inferiore rispetto al dato dei 60enni. I 30enni salgono, con il contributo degli stranieri residenti, attorno a 650 mila.
Nonostante ciò la perdita risulta pari a uno su tre rispetto ai cinquantenni, e rimangono inoltre sotto anche agli attuali 70enni. Ancor peggiore la situazione degli under 30.
Se guardiamo alle dinamiche ancor più recenti, ovvero all’andamento della natalità negli ultimi anni, si nota come i figli dei residenti stranieri abbiano consentito di contenere la caduta delle nascite italiane ma è altresì vero che il loro apporto risulta sempre più insufficiente.
Nonostante tale contributo il 2016 è stato, del resto, l’anno con il record negativo di nati in Italia dall’Unità ad oggi.
Questi dati, nel complesso, mostrano come con frontiere chiuse gli squilibri demografici risulterebbero oggi molto più accentuati, ma evidenziano anche come l’immigrazione sia rimasta largamente al di sotto rispetto a quanto teoricamente servirebbe per riequilibrare la composizione per età della popolazione italiana.
Questo deficit demografico, prodotto dalla denatalità e solo parzialmente compensato dai flussi migratori netti, rischia di pesare negativamente sul nostro futuro più del debito pubblico. Oggi non ne abbiamo chiara percezione, per l’effetto della crisi economica che ha ridotto i posti di lavoro, ma ancor più perché l’asse centrale del mondo produttivo è ancora composto dalle generazioni quantitativamente molto consistenti dei 40-50enni. Nel corso dei prossimi due decenni, però, i copiosi 50enni diverranno pensionati 70enni, mentre i demograficamente scarsi 30enni (e ancor meno 20enni) andranno via via ad occupare le posizioni centrali del mercato del lavoro. Chi vuole chiudere le frontiere deve dire come gestirà questo tracollo della popolazione attiva e il consistente aumento di anziani inattivi (che assorbiranno risorse per pensioni, assistenza privata e sanità pubblica). Nel contempo bisognerà far tornare a crescere le nascite e l’occupazione femminile, investendo ancor più di quanto fatto sinora sugli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia. Ma gli effetti del rialzo delle nascite sul rinforzo delle età lavorative li vedremo tra vent’anni. Se non vogliamo scivolare in condizioni ancora peggiori è fondamentale agire subito, ma nel frattempo serve anche altro. Non si può prescindere dall’aumentare occupazione giovanile ed età al pensionamento, ma il punto centrale sarà l’indebolimento progressivo dell’asse portante della nostra economia, quello costituito dalla popolazione tra i 35 e i 49 anni. Tale fascia è attualmente quella con più alta occupazione e più alta produttività. Difficile pensare di potenziarla senza attrarre nuova immigrazione. La demografia si ferma qui.
“Quale” immigrazione e “come” includerla efficacemente nel nostro modello sociale ed economico è questione che riguarda la politica.

Repubblica 24.11.17
Il futuro delle pensioni
Giovani o anziani il dilemma che divide l’Europa
Le scadenze elettorali in tutto il continente impongono scelte su chi salvaguardare
di Marco Ruffolo

ROMA Aiutiamo i giovani a trovare lavoro. Ma aiutiamo anche gli attuali pensionati. E diamo una mano a chi, a due passi dalla pensione, vede slittare la propria uscita dal lavoro di 5 mesi. Lo spettro di rivendicazioni che la Cgil porterà in piazza il 2 dicembre si è via via ampliato. E le ragioni dei pensionandi hanno finito per rappresentare il nodo più delicato. Quello cruciale. Lo stesso è accaduto ai programmi delle forze politiche a sinistra del Pd, a cominciare da Mdp: nelle loro proposte, le esigenze dei giovani disoccupati o precari si legano indistricabilmente a quelle dei pensionandi, in un anelito rappresentativo che si fa sempre più ampio. Lo stesso Pd, prima di adeguarsi alla linea di rigore del governo, si era schierato a favore di un blocco dell’adeguamento dell’età pensionabile, che nel 2019 salirà a 67 anni.
Giovani e anziani. Si vorrebbero accogliere tutte le loro rivendicazioni, spesso senza preoccuparsi se smontare la riforma pensionistica non comporti un costo insopportabile proprio per quei ragazzi disoccupati, precari e non garantiti che si vorrebbero aiutare. Eppure era stata proprio la “causa giovanile” a fare nascere, non solo in Italia, una nuova sinistra, in conflitto con la socialdemocrazia e con il blairismo, ossia con le correnti meno attente all’universo dei non garantiti, impigrite nella difesa degli stipendiati e dei pensionati, spesso succubi del neo-liberismo dominante.
Così sono nati personaggi come Corbyn in Inghilterra, Mélenchon in Francia, Sanders in America. Così sono cresciute formazioni come Syriza in Grecia o come Podemos in Spagna. Uomini e partiti molti diversi tra loro, ma che avevano e hanno nelle rivendicazioni del mondo giovanile la loro principale ragion d’essere. Quel mondo, chi più chi meno, hanno saputo conquistarlo in nome di un nuovo welfare inclusivo. E’ la stessa battaglia che in Italia vuole combattere la sinistra radicale.
E tuttavia, man mano che queste formazioni politiche si avvicinano agli appuntamenti elettorali, o nel momento in cui mettono nero su bianco i loro programmi, quell’impronta originaria comincia a stemperarsi, lo spettro della rappresentanza sociale si allarga, e insieme ad essa i miliardi necessari per accontentare tutti. Ecco allora Corbyn che promette incentivi ai giovani ma anche adeguamenti delle pensioni, con un forte aumento della spesa sociale. Ecco la sinistra francese scagliarsi contro l’aumento dell’imposta sulle pensioni dal 6,6 all’8,3% deciso da Macron per aiutare le assunzioni di giovani. La stessa Spd di Schulz in Germania cerca di salvare capre e cavoli proponendo misure a tutela dei precari ma avvertendo il governo che non tollererà un aumento dell’età pensionabile.
In Italia sta succedendo qualcosa di simile. Almeno inizialmente, una delle principali battaglie della sinistra radicale e della stessa Cgil era quella di dare una pensione minima di garanzia ai giovani con carriere lavorative piene di buchi. Ora invece in testa alle loro rivendicazioni c’è la richiesta di bloccare l’aumento dell’età pensionabile legato alla speranza di vita. E non ritengono sufficiente la controproposta del governo di limitare il blocco a 15 categorie di lavori gravosi. Poco importa che Inps e Ragioneria stimino che senza l’adeguamento dell’età, il sistema pensionistico dei prossimi decenni andrebbe in rosso per 140 miliardi. Con questo debito sulla testa, è evidente che neppure un euro potrebbe essere destinato alle future pensioni dei giovani.
Capire i motivi di questo interesse a non penalizzare le classi demografiche di età più avanzata, non è difficile. «Più le nostre società invecchiano – commenta Massimo Cacciari – più le forze politiche sono attente alle esigenze dei pensionati o pensionandi.
Intendiamoci, è doveroso intervenire su pensioni che per tre quarti sono da fame o quasi nel nostro Paese, e in questo caso non c’è nessun ragionamento strumentale. Ma per altri versi è anche una questione di voti. I giovani, invece – continua Cacciari – restano massacrati, e questo è il segno più evidente della decadenza in cui siamo precipitati. L’unica cosa da fare è una grande redistribuzione dei redditi. Ma allora le forze della sinistra, invece di promettere tutto a tutti, ci dicano chi vogliono rappresentare e contro chi vogliono andare. Non solo con slogan generici ma con programmi operativi».
Investire sui giovani, dunque.
«Un investimento che oggi manca – dice l’economista Enrico Giovannini – sul piano della formazione e dell’educazione. Ecco perché parlare di età pensionabile da bloccare equivale oggi a discutere di problemi tutt’altro che centrali. Anche il ragionamento secondo cui un pensionamento anticipato aprirebbe la strada all’assunzione dei giovani, è falso. Basta vedere come sono finiti i tentativi di attuare la staffetta intergenerazionale.
Mettiamoci in testa una cosa: con le previsioni di bassa crescita per i paesi industrializzati delle principali organizzazioni internazionali, il sistema che ha regolato la vita di chi oggi è vicino alla pensione dovrà essere completamente ripensato».

La Stampa 24.11.17
Alta tensione fra Pd e Campo progressista
E Bonino dice no a una lista con Pisapia
Tabacci insiste su Prodi garante della coalizione, Renzi freddo
di Carlo Bertini

Se con Mdp non c’è più partita, per il Pd non è che le cose vadano a perfezione con Pisapia e la Bonino. Anzi. Il termometro dello stato dei rapporti segna «brutto», almeno a sentire i report dei vari incontri di ieri. Campo progressista non si fida di Renzi e fa sapere che sarà in piazza con la Cgil il 2 dicembre per presidiare il terreno della sinistra. Mentre i suoi delegati, Tabacci, Manconi e Ferrara ne cantano quattro a Fassino e Martina sull’atteggiamento del loro segretario.
La riunione comincia male, Ferrara sventola a Fassino il retroscena de La Stampa su Renzi che si lamenta di aver perso sei punti parlando di coalizioni. «Se Renzi non ci crede, come si fa a fare un’alleanza?», si inalbera Tabacci. E quando poi i tre si accorgono che i due diplomatici renziani glissano sul «garante» della coalizione, il clima peggiora e si sfiora l’incidente. Poi ricomposto con le rassicurazioni di Fassino che si tradurranno in un investimento pubblico sulle alleanze che verrà fatto da Renzi domenica alla Leopolda. Anche se il segretario, con i sondaggi che fotografano un Pd al 24% ai minimi storici, non nasconde il fastidio per tutto questo tempo dedicato parlare di alleanze invece che di «cose concrete» che interessano i cittadini.
«Avrei avuto tante ragioni di risentimento personale per non impegnarmi nella ricerca di una alleanza di centro sinistra, ma prima del risentimento personale uno statista guarda al suo Paese», dice dalla Gruber. Pure se ritiene possibile un risultato dal 30 al 40%, si vede che non gradisce questa fase di sforzi profusi per convincere recalcitranti possibili alleati. I quali non gli fanno sconti e non sono disposti a mollare la presa tanto facilmente. Solo per dirne una, la Bonino risponde un «no» secco, quando le si chiede se stia per fare un accordo con Pisapia. Il che significa che non ci sarà un unico rassemblement e che la lista «Più Europa» lanciata ieri dalla leader radicale con Riccardo Magi e Benedetto Della Vedova dovrà raccogliere le firme per correre da sola: operazione «impossibile» a detta di un’esperta come la Bonino, che confida in un intervento del governo.
Pisapia per parte sua non si presenta all’incontro con Fassino e lascia gestire la partita ai suoi: che chiedono «pari dignità», impegni su Ius soli, fine vita e pensioni e fatti concreti sul superticket in manovra. Ma non solo: Tabacci insiste sulla figura di garante, che vorrebbe fosse Prodi, «deve guidare il percorso delle liste e della campagna elettorale della coalizione» Un ruolo che, al di là del nome del Professore, a Renzi non va giù. «Un preside pronto a bacchettare questo o quello per ogni uscita in campagna elettorale che senso ha?», obiettano i renziani dopo che Delrio aveva avvisato che Renzi non è tipo da farsi commissariare.
Ad accrescere la tensione c’è poi lo Ius soli. La legge sulla cittadinanza alla riunione dei capigruppo di martedì 28, sarà infilata dal Pd nel calendario di dicembre. Malgrado alcuni tra i dem la pensino diversamente, nel quartier generale renziano nutrono molti dubbi che su quella legge vi sia una maggioranza. Il governo dunque potrebbe cadere sulla fiducia. Gentiloni salirebbe al Colle, ma fino al voto finale della manovra il 22 dicembre nel Pd sono convinti che non succederà nulla.
Il governo sarebbe battuto con la legge di bilancio ancora aperta e si dimetterebbe dopo il suo varo. E ciò - è uno dei vantaggi nell’ottica di Renzi - chiuderebbe qualunque ragionamento sul voto posticipato a maggio. E verrebbe rispettato l’impegno assunto con Pisapia e compagni di provare ad approvare lo Ius soli.

Repubblica 24.11.
Il commento
L’inganno sul mio voto a Berlusconi
di Eugenio Scalfari

Cari Lettori, non cadete nell’inganno di chi sfrutta una domanda paradossale («Chi voterebbe tra Di Maio e Berlusconi?») per sostenere che avrei cambiato posizione su Berlusconi: non l’ho mai votato e ovviamente non lo voterò mai. Martedì scorso ho partecipato alla trasmissione televisiva guidata da Giovanni Floris, dove tornerò martedì prossimo. Rispondendo a una domanda sul tema dell’ingovernabilità, ho detto che in caso di estrema necessità per superare una situazione paralizzante per il Paese il Pd (per il quale io ho sempre votato dai tempi di Berlinguer, dell’Ulivo prodiano e infine di quello costruito da Walter Veltroni) potrebbe essere costretto, come già successo in passato, a un’intesa non di natura politica con Forza Italia, sempreché si separasse da Salvini.
Ipotesi a me sgradita, che è emersa parlando del rischio di ingovernabilità del Paese, tema approfondito ieri sul nostro giornale con molta lucidità da Gustavo Zagrebelsky. Ho poi detto che ai miei occhi sia Di Maio che Berlusconi sono populisti, ma che il populismo del secondo ha perlomeno una sua sostanza.
Ma veniamo allo stato attuale dei satti e dei sondaggi, i partiti in corsa sono soprattutto tre: il Pd, i Cinquestelle, la destra di Berlusconi e della Lega di Salvini.
Nelle recenti elezioni siciliane la destra ha largamente vinto, seguita dai grillini e a buona distanza dal Pd, con la sinistra dissidente che aveva presentato una propria lista con risultati lillipuziani. Questa situazione si ripeterà probabilmente nelle prossime elezioni di sine Legislatura che avverranno a marzo o aprile del 2018? Probabilmente sì. Il Pd si rassorzerebbe se la sinistra dissidente e Pisapia e Bonino consluissero sin d’ora nel partito: una sinistra unita probabilmente recupererebbe anche una parte degli astenuti che hanno sentimenti di sinistra lacerati dall’attuale dissidenza. Fassino, incaricato da Renzi, ha tentato in tutti i modi di recuperare la dissidenza, ma non è riuscito. Forse Pisapia, ma è ancora molto incerto.
Il tema dell’ingovernabilità è dunque ancora dominante, se nessuno dei tre maggiori partiti assronterà le elezioni della prossima primavera nella situazione attuale, il Paese non avrà un governo legittimato dal voto. Il Centro si orienterà verso la destra ma anche in quel caso un governo Berlusconi- Salvini non avrà la maggioranza, durerà qualche mese dopodiché le elezioni dovranno ripetersi. Ci troviamo purtroppo nella stessa situazione della Germania di Angela Merkel.
Ma c’è un’altra evidenza da sottolineare: così come sta accadendo per la Germania, anche un’Italia sballottata dall’ingovernabilità non conterebbe più nulla in Europa con tutte le conseguenze del caso. La mia risposta nella trasmissione televisiva a Floris era chiaramente motivata da quanto sta accadendo: se l’ingovernabilità prosegue così come le previsioni e i sondaggi attuali consermano, la maggioranza relativa sarà certamente del centrodestra, Salvini compreso ed anzi preponderante.
Ovviamente io non voterò mai Berlusconi, ma con quel tanto di esperienza che gli anni hanno largamente ampliato, la situazione è quella che ho qui esposto.
Come c’era da aspettarsi sono stato ricoperto di insulti dai grillini rappresentati nel Fatto quotidiano diretto da Marco Travaglio, ma considero quegli insulti come una sorta di Legion d’onore. Quanto alla sinistra dissidente, ci pensi bene prima di risiutare le aperture di Renzi nei suoi consronti. Da parte loro è un litigio di comari, come si diceva un tempo. La politica è la prima delle attività dello spirito. Lo dimostrarono Platone e soprattutto Aristotele. Sarebbe opportuno leggerli. L’ho consigliato a Renzi e spero l’abbia satto. A Berlusconi è inutile suggerirlo, la lettura non sa parte della sua attività. Gli consiglio soltanto di piantare Salvini: meglio soli che in pessima compagnia.

Repubblica 24.11.17
Il reportage
Le nuove destre
L’autunno di Praga e il cuore nero nell’Europa dell’Est
Ritorno nella città di Havel e Kundera, sperando che oggi non sia solo quella di Babis Come a Varsavia e Budapest la stanchezza non è per la nuova realtà ma per chi la governa
di Bernardo Valli

PRAGA La nebbia avvolge il castello di Hradcany, nasconde persino la Moldava sotto il Ponte Carlo. È una sera in cui la città ha un fascino particolare.
Mostra i contorni preziosi di palazzi, chiese e monumenti, grazie a un’illuminazione intelligente, e lascia nel buio le brutte botteghe, in cui si cambia il denaro e si vendono pizze alla massa di turisti a basso costo.
Occulta anche i luoghi dove risiede il potere. Sembra una metafora dello stato d’animo nel paese, ventotto anni dopo la “rivoluzione di velluto”, che ha riportato la democrazia. I decenni cupi o sofferti, più di mezzo secolo tra occupazione tedesca e comunismo importato (ma all’inizio con profonde radici indigene), sono come annidati e invisibili nella foschia spessa posata sul panorama urbano.
Sotto la coltre intrisa di pioggia riposano sia il passato di cui sopravvivono inconsce e indelebili tracce sia il presente che delude.
La società appare stanca non della nuova realtà ma di chi la governa. I sogni postcomunisti si sono appannati. La tarmata memoria collettiva fatica a riallacciare la Repubblica ceca alla democrazia cecoslovacca degli anni Venti e Trenta, esemplare in Europa fino all’apocalisse nazista. Il paese, amputato della Slovacchia, è per alcuni aspetti anche adesso esemplare: l’economia è in gagliarda, invidiabile crescita, la disoccupazione praticamente non esiste. I partiti politici sono tanti e si esprimono liberamente, ma quel che molti esprimono sono più proteste che idee. Lo spleen è dovuto alla minaccia che peserebbe sull’identità nazionale.
La si pensa in pericolo. Ed è come se a insidiarla fosse l’Unione europea. «Invadente come un tempo il Cremlino», azzarda un deputato tutt’ altro che populista, un socialdemocratico, che subito chiede che non gli venga attribuito quel giudizio. Gli è scappato. Si scusa. Ma l’ha detto ad alta voce, esagerando, quel che forse risente, come tanti altri connazionali. Non c’è stato chi ha descritto la situazione della piccola Repubblica ceca nell’Unione europea mostrando una pastiglia d’ aspirina che si scioglie in un bicchiere d’ acqua?
Che scompare, privata di una vera indipendenza. È accaduto altre volte e i fantasmi della Storia riemergono.
Le critiche all’Unione europea sono numerose e non tanto sfumate. Nella maggioranza dei casi non auspicano tuttavia rotture tipo Brexit. Non si vuole sentir parlare di federalismo. Si respinge l’idea di un processo di più intensa integrazione.
L’Europa di Bruxelles è già troppo cosi com’è. Ma non significa che si voglia un’uscita all’inglese. Questi umori tracciano una linea geopolitica che segue il corso dell’Elba, come un muro in cui si sono aperte tuttavia larghe brecce. Quegli umori straripano come le acque di un fiume di cui cresce il livello normale. Il populismo non dilaga soltanto a Est, dove governa. Anche a Ovest, da noi, ve ne sono vistose macchie che si allargano, in Austria, nella stessa Germania, dove l’estrema destra è entrata per la prina volta nel Bundestag federale, in Olanda, in Francia Emmanuel Macron le ha arginate ma non cancellate. Si estendono fin sulle rive mediterranee. È l’epidemia politica del nostro tempo.
Qui, in una terra che per essere e restare europea ha lottato con l’intelligenza, arma dei paesi piccoli soffocati dalle grandi potenze, si rimprovera adesso al club di Bruxelles, di cui infine fa parte, l’invadenza burocratica che lascia poco spazio, gli si rimprovera di non avere fatto da diga, anzi di avere spalancato le porte, all’ondata di migranti abbattutasi sul continente, e che Praga rifiuta di accogliere. Si ha l’impressione che l’identità nazionale appena recuperata, dopo il rullo compressore comunista, rischi di essere travolta. Il trauma non si è ancora spento. La Repubblica ceca ha accolto dodici migranti. Non uno di più. Ne avesse almeno accettati cinquanta gli avremmo riconosciuto una certa generosità, commenta sarcastico il diplomatico di un paese occidentale che ne ha ospitato centinaia di migliaia. Come gli altri componenti del gruppo di Visegrad la Repubblica ceca respinge la ripartizione dei profughi decisa da Bruxelles. La presenza massiccia dell’Islam equivarrebbe a una violenza culturale. È quel che lascia capire, con garbo, Ji?ì Pel_nil, grande italianista ceco. Gli islamofobi più accesi vedono una svolta multiculturale come un terremoto che polverizzerebbe il gotico fiammeggiante e il barocco sulle sponde della Moldava.
Quando parlo di nazionalismo mi viene spesso replicato che in Polonia e in Ungheria è molto più forte. Praga sarebbe più cosmopolita di Varsavia e di Budapest. Nella Repubblica ceca vive un milione di stranieri. Molti ucraini e russi. E anche piccole comunità orientali. Il nazionalismo è stato del resto un’arma efficace nelle società comuniste quando ci si è dovuti difendere dall’egemonia sovietica. La Polonia di Lech Walesa è citata come un esempio.
Il caso di Milan Kundera lascia intravedere la fragilità del cosmopolitismo praghese. Ci si guarda bene dal definire un traditore il grande romanziere nato e cresciuto a Brno perché ha preso la nazionalità francese e adesso scrive in francese i suoi libri. Ma affiora un certo risentimento. Se ricordo che anche il praghese Franz Kafka scriveva in un’altra lingua, il tedesco, si replica che allora, quando viveva Kafka, la Boemia era parte dell’Impero austro-ungarico. La Cecoslovacchia è nata negli ultimi anni della sua vita. La critica a Kundera si sposta su un altro terreno. Si ricorda che in gioventù è stato l’autore di testi stalinisti.
Niente di grave, si aggiunge, vista l’età, ma adesso, si insinua, non elenca quei testi nella sua bibliografia. Il nazionalismo ferito si vendica come può. Nel 1989, quando si festeggiò senza violenza la ritornata democrazia, sull’altura di Hradcany, dove risiede il potere, c’era un poeta, un drammaturgo, Vaclav Havel, poi presidente per lungo tempo, che ha ridato a Praga un’impronta nobile. La cultura domina raramente la politica. Havel fu un’eccezione. Continuando con la metafora si direbbe che la nebbia che copre Hradcany, da dove governano i successori, occulti per pudore un presente meno nobile.
Allo stesso modo, senza cancellare lo splendore di Praga, la bruma relega nell’oscurità il basso commercio non certo all’altezza dell’antica cornice urbana. Questa mia prima lettura di Praga, influenzata dal ricordo della sdrucita eleganza di un tempo, tende a lasciare nell’ombra, servendosi dei capricci del tempo, versione meteorologica, quel che non mi è gradito, e a salvare invece gli immutabili tesori di una delle più belle città del mondo.
Tutti i paesi hanno mediocrità e virtù. Nello scrigno praghese i contrasti oggi saltano agli occhi.
Ho lasciato anni fa la Praga di Havel e ritrovo oggi la Praga di Andrej Babis, il vincitore delle ultime elezioni con un partito che già rivela nel nome la sua idea principale: Azione dei cittadini scontenti (ANO). Traccio subito il ritratto del nuovo leader in cui gli aspetti meno edificanti stonano nella democrazia inaugurata da un poeta. Babis è il primo o il secondo cittadino della Repubblica ceca per la richezza.
L’Agrofert, una società finanziaria da cui si diramano almeno duecento imprese (dall’agroalimentare alla petrolchimica ai giornali alle radio) ha il maggior numero di dipendenti nel paese. Andrej Babis è entrato in politica nel 2011, creando il partito ANO, che ha raccolto sempre più voti a ogni elezione, fino a che il fondatore è diventato ministro delle Finanze nel governo dominato dal partito socieldemocratico (CSSD), assolvendo brillantemente il compito, fino a quando è stato raggiunto da accuse di frode fiscale. La crescita dei consensi non ne ha risentito. Non si è fermata neppure con l’incriminazione per avere dirottato illegalmente su una sua proprietà una sovvenzione europea di due milioni di euro; e neppure quando, sempre durante la campagna elettorale, è stata rivelata la sua collaborazione con i servizi segreti nella Cecoslovacchia comunista.
Vecchi compagni o collaboratori di quell’epoca sarebbero adesso al suo servizio. Fondate o meno queste accuse non hanno impedito la vittoria elettorale di Babis con il trenta per cento dei voti. L’onestà disinvolta non ha nociuto al candidato. Non capita soltanto nel post comunismo dove c’è scarso rispetto per la politica troppo spesso violentata nel passato. Il miliardario ceco viene chiamato il “piccolo Trump”. A molti ricorda Silvio Berlusconi.
Quando il comunismo è crollato quattro paesi dell’Europa centro-orientale (la Repubblica Ceca, la Slovacchia, l’ Ungheria e la Polonia) hanno formato il Gruppo di Visegrad con l’obbiettivo di allacciare stretti rapporti con l’Unione europea.
Della quale sono diventati membri insieme nel 2004. L’abbraccio fra il mondo post comunista e il mondo occidentale in pochi anni si è allentato. Si è trasformato in un rapporto litigioso. Quasi un fallimento. Nel senso che l’atteggiamento del Gruppo di Visegrad è un freno a un’eventuale ripresa del processo di integrazione e un peso anche nella stagnante situazione attuale. L’inevitabile, dovuto allargamento all’Europa post comunista non è stato e non è un successo. Le responsabilità possono essere suddivise. Alcune ricadono sui paesi occidentali che hanno trattato quelli centro-orientali come partner di seconda categoria, sia escludendoli dalle decisioni importanti sia limitando, ad esempio, l’accesso dei loro cittadini ai mercati occidentali del lavoro. Varsavia e Budapest hanno accusato Bruxelles di respingere o trascurare le loro proposte, e hanno eretto una barriera di diffidenza, col tempo di scetticismo al limite del rifiuto. Le
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Lo spleen è dovuto alla minaccia che peserebbe sull’identità nazionale. La si pensa in pericolo.
Ed è come se a insidiarla fosse l’Unione europea.
«Invadente come un tempo il Cremlino», azzarda un deputato

La Stampa 24.11.17
“I No vax responsabili morali della morte di diversi bambini”
L’offensiva dell’Ue: “Giuste le vaccinazioni obbligatorie”
di Paolo Russo

Un j’accuse che non ammette repliche contro «i movimenti No Vax che hanno la responsabilità morale per la morte di diversi bambini». Ma anche una promozione da almeno sei in pagella per la sanità italiana, che ha ampliato l’offerta di prestazioni, anche se discrimina ancora le fasce economicamente più deboli della popolazione.
È la fotografia del nostro sistema Salute fornita dal Rapporto della Commissione Ue sullo stato sanitario dell’Unione, illustrato dal commissario per la Sanità Vytenis Andriukaitis, che è andato giù duro con chi fa opposizione sui vaccini. «Le famiglie che seguono le raccomandazioni dei No Vax facciano un giro per i cimiteri europei dove ci sono ancora tombe di persone morte all’inizio del diciannovesimo secolo perché non c’erano i vaccini». «Questi movimenti – ha chiosato - ci riportano decenni indietro, agli anni dell’oscurantismo, all’età della pietra». Per questo nessuno scandalo per il commissario Ue se gli Stati si sostituiscono ai genitori imponendo la vaccinazione obbligatoria. «I bambini non possono scegliere, noi sì», è stata la conclusione con la quale l’Europa dà la benedizione definitiva alla legge Lorenzin, che proprio mercoledì ha avuto il placet della nostra Consulta.
Posizioni che non smuoveranno chi ha una pregiudiziale ideologica contro i vaccini ma che faranno breccia sugli ultimi indecisi, che per ora si sono limitati a portare a scuola le autocertificazioni per i propri figli, ma che a marzo dovranno dimostrare di averli immunizzati sul serio. In verità i titubanti e gli oppositori sordi a ogni ragione scientifica sono sempre meno. I dati che via via stanno affluendo dalle regioni dicono che l’esavalente, contro tetano, polio, emofilo, pertosse, difterite ed epatite B, si avvia a raggiungere la soglia del 95% dei vaccinati, sopra la quale scatta l’effetto gregge, che impedisce ai virus di diffondersi tra i non immunizzati. Magari perché affetti da malattie che impediscono di farli i vaccini, come capita al 5% di bambini e ragazzi della scuola dell’obbligo. Un po’ al di sotto si arriverà probabilmente per la quadrivalente contro morbillo, parotite, varicella e rosolia, che partiva da livelli di copertura più bassi.
Superato l’esame vaccini per il resto la nostra sanità conquista la sufficienza da parte della Commissione Ue. La speranza di vita alla nascita era di 79,9 anni nel 2000 e nel 2015 ha raggiunto gli 82,7 anni. Meglio di noi in Europa sta solo la Spagna.
Con un 20% di fedeli alle bionde siamo al di sotto della media europea dei fumatori. Stesso discorso vale per il consumo di alcolici.
Che il nostro sistema sanitario pubblico funzioni lo dicono anche la mortalità evitabile, che è tra le più basse dell’Unione e la copertura sanitaria, estesa non solo a tutti i cittadini italiani ma anche agli stranieri. Nonostante i blocchi delle assunzioni il rapporto di 3,8 medici ogni mille abitanti è sopra la media Ue di 3,6.
I voti iniziano ad abbassarsi quando parliamo di parità di accesso alle cure. «In varie regioni sono state riscontrate carenze di fondi e servizi, dovute principalmente a scarse capacità gestionali e a una produttività insufficiente».
Ma a fare la differenza è anche il fattore reddito. Nella fascia bassa una percentuale di oltre il 15% degli assistiti segnala bisogni insoddisfatti, per natura economica (leggi ticket), geografica (distanze eccessive dei luoghi di cura) o di attesa. La media europea degli «insoddisfatti» tra le classi più povere è appena del 5%.

Il Fatto 24.11.17
“No Vax? Così farete morire i bimbi”. L’accusa della Ue
Il commissario Andriukaitias: “Come nell’età della pietra”. Il riferimento è ai 35 casi in Europa dal 2016 a oggi. Replica M5s: “Non è un attacco a noi”
di vds

Imovimenti contrari ai vaccini “ci riportano a periodi in cui non c’era alcuna conoscenza scientifica, ci riportano all’età della pietra”. Così il commissario europeo alla Salute e alla Sicurezza Alimentare Vytenis Andriukaitis ieri ha risposto in conferenza stampa a Bruxelles alla domanda se sia preoccupato per il diffondersi in Italia dei movimenti contrari alla vaccinazione “tra i quali – recitano agenzie e articoli – alcune componenti del Movimento 5 Stelle”.
Una dichiarazione che arriva il giorno dopo la bocciatura da parte della Consulta del ricorso del Veneto contro l’obbligo imposto dalla legge Lorenzin che ha reso inevitabili le iniezioni per l’iscrizione alla scuola dell’obbligo. “Uno degli strumenti più efficaci nelle politiche della salute per la pre venzione della morte da malattie infettive, da pandemie ed epidemie – ha detto Andriukaitis – è la vaccinazione, nessuno ne dubita. Nessuno che abbia una minima conoscenza scientifica, che abbia una minima conoscenza della storia. Vorrei attrarre l’attenzione sul fatto che tutti questi movimenti, che usano vari argomenti, non capiscono quello che fanno. Sarebbe una vergogna se le famiglie che appartengono a questo movimento dovessero seppellire i loro figli, come è successo quest’anno negli Stati membri in cui dei bambini sono morti di morbillo”.
Il riferimento è ai 35 casi letali in Europa segnalati dall’Oms tra il 2016 e il 2017, tra cui tre bambini in Italia nel 2017: una bambina di 16 mesi che aveva patologie pregresse, un bimbo leucemico e una con cromosomopatia.
Immediata la risposta dei 5Stelle: “In Italia è in atto una vergognosa campagna di stampa contro il Movimento 5 Stelle. Adesso aspettiamo le scuse dei giornalisti. Basta strumentalizzazioni su un tema così importante e sensibile per i cittadini – ha detto Piernicola Pedicini, eurodeputato pentastellato –. L’ufficio del commissario Andriukaitis mi ha mandato una lettera in cui smentisce le ricostruzioni fantasiose di una sua dichiarazione riportate da alcuni giornali e agenzie di stampa italiani in merito a legami tra M5S e No Vax”.
Il commissario, che rispondeva alla domanda di un giornalista italiano sulle campagne anti-vax, non avrebbe fatto riferimento o accennato nella sua risposta ad alcun movimento politico in Italia o in altri Stati membri. “Ogni possibile connessione fatta dai media è interamente a loro carico” continua Pedicini. Il punto di confusione è nella complessità della platea di chi protesta per i vaccini. C’è chi è contrario ai vaccini in generale e chi invece si oppone all’obbligatorietà e all’assenza di una informazione e una sensibilizzazione approfondite sull’importanza e la sicurezza dei vaccini, che ritiene figli del fallimento politico.

Corriere 24.11.17
Giudice non ferma il suicidio assistito in Svizzera
Suicidio assistito, pm a Milano: «Fermiamolo». La giudice: non posso.
di Luigi Ferrarella

Milano Ha titolo lo Stato, attraverso i suoi magistrati, per provare a fermare chi, affetto da una malattia psichiatrica cronica che gli rende intollerabile sofferenza la vita, stia per attivare una procedura di suicidio assistito in Svizzera con lucida e accertata consapevolezza? A Milano questa estate, senza che si sia mai saputo, la Procura ci ha provato.
L’ha fatto nel caso di un 32enne in cura psichiatrica già da metà della sua vita, autoisolatosi dal mondo per l’insopportabile tortura interiore arrecatagli dall’assoluta incapacità di avere qualunque relazione con le persone. E una volta verificata l’assenza dei presupposti giuridici per farlo interdire, alla ricerca di una protezione giuridica comunque limitativa della capacità dell’uomo l’ufficio «affari civili» della Procura è arrivato a chiedere al giudice tutelare del Tribunale civile di nominargli un «amministratore di sostegno», che potesse affiancarlo nella cura della persona e in percorsi terapeutici capaci di raffreddare l’idea di suicidio assistito in Svizzera: idea che si era rafforzata da quando la sorella, pure affetta da patologia psichiatrica, si era lanciata dalla finestra, ma, senza riuscire a morire, era rimasta tetraplegica.
Ma dopo aver ascoltato l’uomo e gli psichiatri, la giudice tutelare Paola Corbetta ha respinto la richiesta del pm Luisa Baima Bollone, ritenendo non ci fossero né condizioni né utilità di nominargli un «amministratore di sostegno»: sia per la piena capacità di intendere e volere attestata dagli psichiatri, sia per l’assenza di futuri miglioramenti producibili dalle terapie già accettate e in corso. Dunque non la generale affermazione di un diritto al suicidio, e tantomeno un’autorizzazione del Tribunale, ma — in un singolo e specifico caso — la presa d’atto di una autodeterminazione in mancanza delle condizioni giuridiche per comprimerla.
Esaurita questa imprevista procedura che lo aveva molto irritato — perché da lui vissuta prima quasi come un «tradimento» del proprio medico (che in un dilaniante dilemma di coscienza aveva ritenuto di segnalare in Procura i sentori della trasferta elvetica anticipatigli da un familiare), e poi come una prepotente ingerenza della magistratura nell’intimo della propria scelta —, a cavallo dell’estate il giovane si è davvero recato in una clinica Svizzera. E lì ha completato il proprio suicidio assistito.
Evocato all’Università Statale dal pm in un confronto scientifico con il giurista Luciano Eusebi e i medici Alfredo Anzani e Mario Riccio su «La morte sfida il diritto», l’uomo arrivava da 15 anni di cura nel centro psicosociale di un ospedale lombardo, che qui non si indicherà (come altri dati) per impedire l’identificazione dei familiari. L’invalidità civile del 100%, tra le conseguenze della diagnosi di «grave disturbo schizoaffettivo in una struttura di personalità con tratti borderline e antisociali», era il meno: il vero macigno della malattia, da cui si sentiva schiacciato, era una «condizione psicopatologica di alienazione e grave ritiro sociale». L’assoluta incapacità di avere relazioni con il mondo e, a causa di essa, «la profonda sofferenza» che ne martoriava l’intimo in ogni attimo nel quale «gli impediva di compiere anche gli atti quotidiani» e rendeva «necessaria una assistenza continua».

Corriere 24.11.17
Il gesto dolce di un barelliere e quell’ultimo sguardo al mare
di Giangiacomo Schiavi

Ci sono gesti che fermano il tempo e ci fanno pensare a quanto bene si può dare a una persona che soffre esaudendo un desiderio, forse l’ultimo. La foto postata su Facebook da una società australiana di ambulanze, e diventata virale sulla Rete, non mostra soltanto il barelliere Graeme Cooper e la paziente terminale Helen Donaldson, immobili davanti al blu dell’oceano: trasforma la pietas, l’umanità nei confronti di un malato, in condivisione da web. E addolcisce per un istante la rabbia che quotidianamente si scarica online, lasciando in chi la guarda la sensazione di una pace ritrovata. «Prima di morire voglio vedere il mare», aveva chiesto la donna a chi la stava accompagnando all’ospedale. E così è avvenuto. Un po’ come nei film, dove la vita dell’eroe si spegne con l’ultimo bacio o nelle vecchie ballate militari, dove il capitano ferito lancia uno sguardo alla bandiera. Il temporaneo sollievo difficilmente cambia il corso delle cose: la malattia quando è carogna non reagisce più alle terapie. Ma c’è qualcosa d’altro che dà valore alla cura: la comprensione del dolore. Nessuno obbligava l’autista di un’ambulanza a fermarsi o l’infermiere a portare una barella sulla riva del mare: il loro compito era quello di trasportare il paziente a destinazione, possibilmente alla svelta e senza intoppi. La scelta di uscire dal protocollo assegnato e di entrare nella sofferenza di una persona trasforma un gesto apparentemente banale in qualcosa di nobile, umano. Ce ne sono molti altri di gesti così, anche più importanti. Sono storie di altruismo, generosità, attenzione verso chi soffre. Spesso non finiscono su Facebook, restano nella memoria di chi li fa, sono un ricordo riempito di gratitudine. Lì, sulla scogliere australiana, la voglia di guardare il mare lascia immaginare un viaggio verso l’infinito. A noi fa venire in mente che quando si dice che non c’è niente da fare, c’è tantissimo da fare. Fermarsi e ascoltare, per esempio. Anche l’ultimo desiderio.

La Stampa 24.11.17
Resa dei conti fra magistrati e impresentabili
di Marcello Sorgi

A meno di tre settimane dalle regionali siciliane che hanno sancito la vittoria del centrodestra, ha tutta l’aria di una resa dei conti la serie di manette, domiciliari e avvisi di garanzia che stanno colpendo i cosiddetti «impresentabili».
Ultimo, ieri, quel Luigi Genovese, neo-eletto di Forza Italia, accusato di riciclaggio del patrimonio in parte illecito del padre Francantonio, già deputato Pd, condannato a undici anni. È come se la magistratura siciliana, sfidata dall’atteggiamento impunito di questi candidati, che avevano scelto di scendere in lizza malgrado il carico di attività illegali di cui si sapevano responsabili, abbia aspettato la chiusura delle urne per far calare la ghigliottina. E al contempo, per mettere la disgraziata nascitura amministrazione del «fascista per bene» Musumeci, un uomo che aveva fatto della sua onorabilità e dell’assoluta verginità giudiziaria in quasi cinquant’anni di vita politica il suo distintivo, di fronte a una difficile alternativa: dar vita al governo lasciando che della risicata maggioranza (36 contro 34) facciano parte anche gli eletti (molto votati, va detto) che devono regolare conti pesanti con la giustizia, o rassegnarsi, malgrado la vittoria elettorale, a restare in minoranza, a dover negoziare volta per volta con chi ci sta, come faceva Crocetta, l’approvazione dei provvedimenti.
La scelta, insomma, è tra la padella e la brace. Dove la padella, per il povero Musumeci, vuol dire presentarsi il prossimo 11 dicembre, giorno fissato per l’insediamento della nuova Assemblea, guardando negli occhi gli inquisiti, che hanno reagito in modo chiassoso e volgare alle accuse nei loro riguardi, senza aver il diritto di dire nulla, dovendogli chiedere i voti per la fiducia. Immaginiamoci la scena: nella Sala d’Ercole del Palazzo dei Normanni agghindata come nelle grandi occasioni, seduti in prima fila, o in seconda o terza, non importa, ci saranno: il suddetto Luigi Genovese, campione di preferenze a Messina con oltre diciassettemila voti, che come si diceva deve rispondere di riciclaggio; l’Udc Cateno De Luca (il nome di battesimo non è una coincidenza del destino con gli arresti domiciliari da cui è appena stato scarcerato, ma un segno di devozione alla Madonna della Catena), accusato di associazione a delinquere finalizzata all’evasione fiscale; Riccardo Savona, Forza Italia, indagato per truffa insieme con la moglie (avrebbero messo su un traffico di case promesse in vendita a prezzi di fallimento e in realtà mai acquistate). Il quarto, Edy Tamaio, non appartiene alla maggioranza, ma potrebbe in futuro essere chiamato a farne parte, dato che è stato il primo degli eletti a Palermo, con quasi quattordicimila voti, risultati poi in parte comperati e venduti al prezzo di venticinque euro l’uno, per il partito personale di centrosinistra dell’ex ministro Totò Cardinale, collocatosi al centro e aperto alla collaborazione con Musumeci in casi di necessità.
Naturalmente, per rispetto della sua storia personale e per com’è fatto, il «fascista per bene» Musumeci dovrebbe scegliere la brace della rottura con «impresentabili» e inquisiti, anche al prezzo del restare in minoranza, piuttosto che la padella della convivenza. La quale, specie se accompagnata alla solita indifferenza siciliana, o peggio ancora alla difesa aprioristica degli accusati, trasformerebbe la vittoria del 5 novembre in sconfitta, non solo personale del governatore, ma politica del centrodestra rinato nelle urne.
Non va dimenticato infatti che a tallonare i vincitori in Sicilia, con un risultato clamoroso che ha raddoppiato i voti ottenuti nel 2012 e ha sfiorato la conquista della Regione, è stato il Movimento 5 stelle. Che pur avendo anch’esso avuto un candidato con problemi giudiziari, non potrà non avvantaggiarsi, nelle elezioni politiche della prossima primavera, del volto compromesso, grazie agli inquisiti, del centrodestra siciliano. Salvini non a caso ha subito chiesto a Berlusconi un patto sulla pulizia delle prossime liste nazionali sottoscritto davanti al notaio. Reazione tempestiva e indiscutibile. Ma forse il leader leghista avrebbe fatto meglio a riflettere prima di parlare: a quanto si vocifera a Palermo, infatti, il prossimo «impresentabile» a cadere nelle mani dei magistrati sarà proprio un eletto delle sue liste.

Corriere 24.11.17
Il colloquio Erik Prince
«Un solo piano per la Libia Va privatizzata la guerra»
È il «signore dei contractor» Usa. «Voi spendete troppo per i migranti»
Crede che alla fine Trump lo ascolterà
dalla nostra inviata a Reston (Virginia) Viviana Mazza

«Vuole parlare di Afghanistan o di migranti?», chiede Erik Prince ingoiando deviled eggs (uova indiavolate) in un ristorante di Reston, periferia residenziale di Washington. Il 48enne Prince è il carismatico e controverso fondatore di Blackwater, agenzia di contractor che dal 1997 al 2010 ha ricevuto due miliardi di dollari dalle amministrazioni Usa per la sicurezza in Iraq, Afghanistan e altrove. L’ex Navy Seal si ispirò al lavoro del padre, industriale dell’auto: «Sono stato il primo a integrare su scala industriale il processo di reclutare, equipaggiare, addestrare e schierare soldati privati». Nel 2007 i suoi dipendenti uccisero 17 civili a Bagdad: uno dei momenti più bui in quella guerra, una macchia nella reputazione dell’America. Ma Prince non mostra rimorso. «Avete visto cosa è successo appena sono uscito dal dipartimento di Stato: un nostro ambasciatore ucciso in Libia, una cosa simile non succedeva da 40 anni».
Prince è uno che cade sempre in piedi. Venduta Blackwater nel 2010, ha fondato un’altra agenzia, Frontier, e si è trasferito negli Emirati come consulente per la sicurezza. Ora ha un piano per la Libia: mandare i contractor a bloccare i migranti «a una frazione di quello che l’Europa spende per intercettarli nel Mediterraneo. È la soluzione alla crisi dei rifugiati che sta minacciando la stessa Ue», ha promesso in un editoriale sul Financial Times . «Il traffico di esseri umani dal Sudan, dal Ciad, dal Niger è un processo industriale — ci dice —. Per fermarlo, devi creare una polizia libica di frontiera lungo il confine meridionale. Gheddafi adorava le piste di atterraggio, ce ne sono dappertutto laggiù: basta costruirvi tre basi di polizia e mandare 250 addestratori stranieri in ciascuna al fianco dei libici, proprio come Blackwater fece con la polizia di frontiera afghana. Forniranno leadership, intelligence, supporto per le comunicazioni, aerei di sorveglianza, un paio di elicotteri: i trafficanti devono guidare per vaste distanze, quindi è semplice individuare i loro camion carichi di migranti, intercettarli, arrestare l’autista». Prince cavalca le polemiche sul trattamento dei migranti, ridotti in schiavitù. «Noi li porteremmo in campi profughi nelle basi, riceveranno cibo e assistenza medica e saranno rimpatriati senza mai arrivare alla costa. Immagino che l’Europa voglia bloccare il flusso di migranti nel modo più umano e professionale possibile. Non penso che pagare milizie sia una soluzione nel lungo periodo».
Per ora i suoi piani hanno trovato forte resistenza, anche in America, nonostante Prince sia stato un generoso sostenitore dell’elezione di Trump (non è l’unico in famiglia: sua sorella, Betsy DeVos, è ministra dell’Istruzione). Aveva proposto di privatizzare la guerra in Afghanistan, inviando 5.500 contractor come «mentori» al fianco della polizia locale. «Ho scritto un editoriale sul Wall Street Journal sperando che una sola persona lo leggesse, e ha funzionato», ride. «Il presidente ha cerchiato l’articolo e l’ha mostrato al suo Consigliere per la sicurezza nazionale. Ma McMaster è un generale molto convenzionale. Il suo predecessore, Michael Flynn adorava il mio piano, e anche Steve Bannon era un sostenitore…». Ma il Pentagono si è opposto e, ad agosto, Trump ha annunciato l’invio di 3.000 rinforzi regolari. «Non servirà a niente — insiste Prince — l’approccio è sempre quello degli ultimi 16 anni, i soldati vanno per periodi di 6-9 mesi, e la conoscenza che sviluppano va perduta. La Casa Bianca tornerà da me entro sei mesi o un anno: è inevitabile».
Prince giura d’essere «solo» un esperto militare. «Non un lobbista o uno che fa politica». Il Washington Post ha scritto che a gennaio è stato alle Seychelles come inviato informale di Trump, per stabilire contatti con i russi: avrebbe incontrato un confidente di Putin con l’aiuto degli Emirati. Lui nega: «Ero là per affari con gli emiratini. Sì, ho incontrato un russo: abbiamo preso una birra ma niente a che fare con Trump». Ora gira voce che, appoggiato da Bannon, si candiderà alle primarie repubblicane per il Senato in Wyoming. Un principe dei mercenari nella guerra all’establishment.

Repubblica 24.11.17
Intervista
Alexis Tsipras
“Non può decidere tutto Berlino meglio puntare su Macron”
di Alexia Kefalas

PARIGI Alexis Tsipras, due anni e mezzo fa la Grecia ha rischiato di uscire dall’eurozona. Il suo paese è da sette anni sotto la supervisione finanziaria dell’Ue e del Fondo monetario internazionale. Pensa che, come previsto, la Grecia sarà in grado di fare a meno di questo programma di aiuti finanziari dalla prossima estate?
«La Grecia ha pagato un tributo molto pesante per la crisi europea e il popolo greco ha fatto grossi sacrifici negli ultimi sette anni. Ci sono stati errori sia da parte greca sia da parte europea. Li abbiamo pagati a caro prezzo. Alcuni pensavano che i greci dovessero essere puniti. Ma siamo riusciti a evitare il peggio e avevano torto coloro che avevano preparato questo scenario. Oggi, due anni dopo, torna la crescita: al 2% nel 2017 e per il 2018 le previsioni sono al 2,5%. Abbiamo ridotto le ingiustizie sociali. E stiamo lavorando con i partner europei e le forze più vivaci della Grecia per far sì che questa “avventura” si chiuda nell’agosto 2018. Per la prima volta, penso non sia più un sogno».
I creditori hanno promesso di fare un passo per alleggerire il debito, abissale, al 180% del Pil.
Si aspetta un sostegno speciale da Parigi su questo punto?
«L’Unione europea e il Fondo monetario internazionale non sono sempre d’accordo, ma riteniamo che prevarrà la buona volontà. Vogliamo una ristrutturazione del debito, dobbiamo ridare fiducia agli investitori e ai mercati».
Emmanuel Macron ha scelto Atene per pronunciare un discorso importante sull’Europa, il 7 settembre scorso. Su che cosa siete in disaccordo? Quel giorno, lei ha citato Marx.
«Emmanuel Macron e io abbiamo punti di partenza politici e ideologici diversi, ma condividiamo la stessa visione.
L’Europa deve diventare più attraente per i giovani e proporre loro dei progetti. Le istituzioni europee devono diventare più democratiche. Non possiamo più prendere tutte le decisioni a porte chiuse. L’Europa non può essere un forum per le discussioni di tecnocrati o leader politici dove, alla fine, il più potente e convincente impone la sua decisione, vale a dire, non ci nascondiamo, la Germania.
Abbiamo anche la visione comune che l’Europa non può andare avanti con lo sciovinismo e il nazionalismo. Dobbiamo al tempo stesso proteggere e condividere le nostre sovranità.
Emmanuel Macron è un europeista convinto, siamo tutti europeisti convinti».
Lei invita le imprese europee a investire in Grecia, ma nel frattempo si insediano i cinesi, come il gruppo Cosco, che controlla il porto del Pireo e guarda ai cantieri navali. A Parigi si parla di “fallimento europeo” e di un “problema di sovranità” su questo. Che cosa risponde?
«La natura ha orrore del vuoto. Mi spiego: negli ultimi anni, l’Europa ha avuto come priorità quella di imporre ai greci una punizione, con l’austerità. Ogni investimento era escluso. Per altri, la Grecia era molto attraente e i cinesi hanno colto questa opportunità per investire. Come sappiamo, chi si assume dei rischi può avere successo. Dopo sette anni di crisi, gli investitori europei devono cogliere l’occasione di tornare in Grecia. Le prospettive sono molto positive, abbiamo avviato alcune riforme molto importanti in un tempo estremamente ridotto.
Nessun altro paese nel continente ha fatto altrettanto. Sono convinto che gli investimenti stranieri continueranno a tornare. Sono cresciuti del 160% nel 2016 e del 170% nel primo semestre del 2017. Stiamo facendo tutto questo per sradicare quel male che è la disoccupazione, il mio primo nemico da battere».
Il numero di migranti che arrivano in Grecia dalla Turchia è di nuovo in aumento.
«Le nostre isole hanno portato un fardello per tutta l’Europa. Questa crisi dei rifugiati è stata la più grande dalla Seconda guerra mondiale. L’accordo tra l’Unione europea e la Turchia è difficile ma necessario, ha permesso di fermare l’orrore di queste morti quotidiane nel Mar Egeo. Oggi, accogliamo più di 60mila rifugiati nella Grecia continentale, che vivono in buone condizioni, con accesso all’assistenza sanitaria e alla scuola. Ne sono fiero. La situazione nelle isole rimane difficile. Ci sono troppi migranti e rifugiati e le procedure per le domande d’asilo sono lunghe. Il problema dei rifugiati e dei migranti è un problema che non possiamo risolvere da soli».
Traduzione di Luis Moriones

Repubblica 24.11.17
La tecnologia
Algoritmi da maestro
“Datemi un tratto e riconoscerò Picasso”
I ricercatori hanno creato un “critico d’arte” con una rete neurale Sa distinguere in un attimo le opere originali dalle imitazioni
di Giuliano Aluffi

ROMA Datemi una sola linea e vi riconoscerò un Picasso» dice Ahmed Elgammal, e ad essere curiosa non è solo l’affermazione ma il fatto che Elgammal non è un critico d’arte. Tutt’altro: è il direttore del laboratorio d’intelligenza artificiale alla Rutgers University, nel New Jersey.
Così, a identificare i grandi artisti da un solo tratto di pennello, matita o carboncino non è Elgammal in prima persona, ma un software da lui sviluppato e che promette di non lasciarsi sviare dai trucchi che fino a oggi l’hanno fatta passare liscia a grandi falsari come Eric Hebborn.
«Da quando ho realizzato la prima versione del programma per riconoscere lo stile dei grandi pittori, due anni fa, mi sono arrivate molte richieste da musei e gallerie per un software che potesse riconoscere i falsi.
Quel software non ne era ancora in grado: un falsario che avesse dipinto un quadro con lo stile di Van Gogh l’avrebbe ingannato» spiega Elgammal.
«Così ho coinvolto nel nuovo progetto Milko Den Leeuw, esperto autenticatore dell’Atelier for Restoration of Paintings dell’Aja. Lui ha suggerito di usare il metodo della pictologia, una sorta di grafologia dell’immagine, ideato negli anni Trenta da Maurits van Dantzig. Per Dantzig i singoli tratti di matita, pennello o carboncino che un pittore lascia sul foglio o sulla tela, la loro lunghezza, i loro angoli sono come una vera e propria firma che contraddistingue l’autore anche quando, nel corso degli anni, cambia stile o soggetti e scene da ritrarre».
Una firma molto difficile da falsificare, perché inconscia, non mediata dalla ragione e legata soprattutto alla naturalezza del gesto: quello che per Picasso è stato un movimento del braccio naturale quanto il respirare, per un falsario che cerca di imitarlo diventa un calvario di continue esitazioni e artifici che lasciano sulla tela tracce troppo piccole per l’occhio umano. Ma non per il software, che ha memorizzato le forme di decine e centinaia di migliaia di tratti per ogni pittore.
«Questo è il motivo per cui la pictologia non ha realmente mai attecchito presso gli esperti. È arduo per l’occhio umano caratterizzare i singoli tratti di un artista: un dipinto può averne migliaia. E poi l’esperto dovrebbe prima aver fatto la stessa minuziosa analisi per centinaia di opere note di ogni pittore: cosa improponibile. Invece per un computer è facile e immediato analizzare queste grandi quantità di dati minuscoli e sfuggenti» spiega Elgammal. «Il nostro software scompone l’opera da valutare in tutti i suoi tratti, e li analizza uno per uno.
Assegnando una probabilità vero/falso a ogni tratto e poi giudicando il disegno nel suo insieme».
La precisione è notevole: gli originali vengono riconosciuti come tali in più dell’80 per cento dei casi, mentre i falsi d’autore – Elgammal ha commissionato la loro realizzazione a quattro artisti – sono stati smascherati nel 100 per cento dei casi.
«Oggi per distinguere tra falsi e originali si usano soprattutto tecniche come l’analisi chimica della superficie del dipinto o della tela, con spettroscopie o datazione tramite gli isotopi» spiega Elgammal. «Ma non sono sistemi a prova di truffatore».
Basta pensare a come il grande falsario Eric Hebborn – che, mai smascherato da altri, per assurgere alla fama dovette autodenunciarsi pubblicando nel 1997 un Manuale del falsario – riuscì a prendersi gioco del mondo. Hebborn usava a suo vantaggio la logica: fingeva di trovare schizzi preparatori delle opere dei grandi maestri.
Disegni che nessuno aveva mai visto, ma che si sapeva per certo fossero stati realizzati: l’esistenza delle opere finali lo provava.
Alla sua straordinaria maestria nel disegno, Hebborn univa sapienza chimica: se voleva realizzare un falso schizzo di Rembrandt, usava come supporto una pagina bianca strappata da un libro del Seicento. E così anche il microscopio era gabbato.
Il software di Elgammal invece – indifferente all’estetica, alla logica e alla chimica ma brutalmente efficiente – non gli avrebbe lasciato scampo.

Repubblica 24.11.17
Il biotestamento è una scelta di libertà
di Corrado Augias

Gentile Augias, nel 1981 andai in Canada per partecipare a uno dei primi congressi sulle cure palliative. Mi colpì, visitando una struttura per malati terminali nel Queen Elizabeth Hospital della McGill University di Montreal, il motto all’ingresso: « To care when there is no cure » . Sono un sostenitore dell’italiano, ma dovetti notare quanto i termini “ care” e “ cure” fossero pregnanti nella rispettiva accezione di “ prendersi cura” e “ guarire”. Per entrare nel dibattito ravvivato dalle parole del Santo Padre sulla possibilità e/ o dovere in certe circostanze d’interrompere le cure, mi sembra importante che si chiarisca il significato di “ cura”, che in italiano fa riferimento pure alla possibilità di “ curare per guarire”, inesistente per un malato “ inguaribile”. Da ciò, la necessità di specificare che, in caso di patologie non guaribili, non sono le cure che potrebbero essere sospese, ma eventuali terapie sproporzionate o futili. Così si aderirebbe a uno dei più antichi doveri del medico, che, come viene ricordato dallo storico della medicina Giorgio Cosmacini, « deve saper palliare ove il guarir non ha luogo » .
— Giorgio Di Mola — Milano
Tra dibattere a freddo, cioè con razionalità e in teoria, su quale trattamento sia preferibile per un malato terminale e dover invece fronteggiare in concreto la stessa situazione per una persona cara o per sé, corre un divario quasi incolmabile. Non cambiano solo le misure o la prospettiva, cambia la qualità profonda delle reazioni e dei gesti, dei sentimenti e delle decisioni. Su argomenti di tale delicatezza le leggi devono essere “leggere”, toccare il meno possibile la sostanza, soprattutto evitare di essere ispirate da un’ideologia. Credo che molti ricordino che cosa fu l’orrore della legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita. Prevedeva una tale serie di divieti da rasentare la disumanità. Era una legge oscurantista, nata nel periodo del berlusconismo trionfante, che per fortuna i tribunali hanno via via smantellato. Conviene riportarla alla memoria davanti all’apparente bonarietà del Berlusconi di oggi, della quale diffido.
Il riferimento alla legge 40 non era una divagazione. La legge detta del testamento biologico in discussione non ripete gli stessi errori. Già approvata dalla Camera, attende da mesi l’approvazione del Senato. Non dà prescrizioni e non impone divieti, concede solo una facoltà della quale qualsiasi maggiorenne può avvalersi se, e solo se, vuole. Si dichiara ora per allora (come dicono gli avvocati) di voler rinunciare ad alcune terapie in caso di malattia inguaribile. Tra le terapie, questo è il punto cruciale, sono comprese nutrizione e idratazione artificiali che alcuni considerano invece non terapia ma sostegno vitale. Migliaia di emendamenti ostacolano la legge. Per lo più sono pretesti, ostacoli strumentali segnati dalla diffidenza nei confronti della facoltà degli individui di decidere sulla propria vita. Compresa la possibilità di cambiare idea e di scegliere nonostante tutto di continuare a vivere. Liberamente però.

Repubblica 24.11.17
La famiglia dimenticata
di Chiara Saraceno

Nel campo delle politiche di sostegno alle samiglie si continua a procedere per srammenti dispersi e inessicienti. I servizi per la prima insanzia continuano a essere insussicienti, anche per incapacità, quando non esplicito ostruzionismo, delle amministrazioni locali, specie nel Mezzogiorno. Le scuole a tempo pieno vanno riducendosi di anno in anno. L’estate continua a estendersi come tempo vuoto di servizi accessibili a tutti i bambini e ragazzi a prescindere dalle risorse dei genitori. I servizi di cura domiciliare per le persone non autosussicienti sono un’araba senice. Le misure di sostegno al costo dei sigli sono un puzzle complesso di cui qualcuno riesce, almeno per un certo periodo, ad avere tutti i pezzi, mentre altri, spesso i più poveri, rimangono a bocca asciutta.
È comprensibile che, a sronte di questa situazione e di un dibattito pubblico tutto concentrato sulle pensioni, qualcuno si sia arrabbiato quando nel progetto di legge di stabilità il governo ha pensato bene di ssilare uno di quei srammenti: il bonus bebè. Ciò sacendo, insatti, il governo ha segnalato esplicitamente come l’elettorato dei potenziali genitori conti meno di quello dei pensionandi e pensionati, per non parlare dei diritti dei bambini. Nulla di nuovo, ahimè, nella storia del welfare State italiano, in cui le politiche di sostegno alle responsabilità samigliari, insieme a quelle di contrasto alla povertà, sono state sempre la cenerentola delle politiche sociali, insieme residuali e casuali. Ma anche la richiesta di reintrodurre il bonus e di alzare la soglia di reddito al di sotto della quale un siglio ( anche maggiorenne) è considerato dipendente, e quindi dà luogo a una detrazione siscale, mi sembra seguire la stessa logica.
Invece di procedere a una riorganizzazione complessiva del sostegno alle samiglie con sigli, se ne conserma la srammentazione e l’eterogeneità: assegno al nucleo samigliare destinato alle samiglie di lavoratori dipendenti a basso reddito, assegno per il terzo siglio per le samiglie a reddito molto basso e tre sigli tutti minori, detrazione siscale per i sigli a carico, bonus bebè per i nati nel triennio.
Ciascuna di queste misure usa non solo un criterio di reddito diverso, ma lo determina in modo disserente. Per l’assegno al nucleo samigliare non si utilizza l’Isee, che si usa invece per l’assegno al terzo siglio, mentre per il bonus bebè non vale alcun limite di reddito. Quanto alle detrazioni siscali (sul reddito individuale, non samigliare) sono accessibili solo a chi è siscalmente capiente. I bambini con genitori poveri che non sono lavoratori dipendenti, se non hanno almeno due sratelli/ sorelle minori non danno diritto né all’assegno al terzo siglio, né all’assegno al nucleo samigliare, né alla detrazione siscale ( per incapienza). E, se nati suori dal triennio di validità del bonus, neppure al bonus bebè.
Eppure, se si sosse voluto davvero costruire un pezzo sensato di politiche samigliari per compensare una parte del costo dei sigli, sarebbe bastato approvare una proposta di legge di iniziativa dei senatori, presentata un anno sa, intesa a razionalizzare la spesa che si perde in mille rivoli inessicaci unisicandola in un un’unica misura, un assegno periodico per i sigli sino alla maggiore età, universale ancorché decrescente con il crescere del reddito samigliare. L’occasione era stata già persa lo scorso anno quando, invece di battersi per una risorma organica, anche i “ sostenitori della samiglia” si accontentarono di potersi vantare di aver ottenuto un ennesimo bonus. Passato un anno senza che nulla sia stato satto e che neppure si sia aperto un consronto, lo stesso copione viene riproposto. Non è così che si sostengono le samiglie con sigli né tantomeno si incoraggia la scelta di sare un siglio (in più).

Chiara Saraceno
Nel campo delle politiche di sostegno alle samiglie si continua a procedere per srammenti dispersi e inessicienti. I servizi per la prima insanzia continuano a essere insussicienti, anche per incapacità, quando non esplicito ostruzionismo, delle amministrazioni locali, specie nel Mezzogiorno. Le scuole a tempo pieno vanno riducendosi di anno in anno. L’estate continua a estendersi come tempo vuoto di servizi accessibili a tutti i bambini e ragazzi a prescindere dalle risorse dei genitori. I servizi di cura domiciliare per le persone non autosussicienti sono un’araba senice. Le misure di sostegno al costo dei sigli sono un puzzle complesso di cui qualcuno riesce, almeno per un certo periodo, ad avere tutti i pezzi, mentre altri, spesso i più poveri, rimangono a bocca asciutta.
È comprensibile che, a sronte di questa situazione e di un dibattito pubblico tutto concentrato sulle pensioni, qualcuno si sia arrabbiato quando nel progetto di legge di stabilità il governo ha pensato bene di ssilare uno di quei srammenti: il bonus bebè. Ciò sacendo, insatti, il governo ha segnalato esplicitamente come l’elettorato dei potenziali genitori conti meno di quello dei pensionandi e pensionati, per non parlare dei diritti dei bambini. Nulla di nuovo, ahimè, nella storia del welfare State italiano, in cui le politiche di sostegno alle responsabilità samigliari, insieme a quelle di contrasto alla povertà, sono state sempre la cenerentola delle politiche sociali, insieme residuali e casuali. Ma anche la richiesta di reintrodurre il bonus e di alzare la soglia di reddito al di sotto della quale un siglio ( anche maggiorenne) è considerato dipendente, e quindi dà luogo a una detrazione siscale, mi sembra seguire la stessa logica.
Invece di procedere a una riorganizzazione complessiva del sostegno alle samiglie con sigli, se ne conserma la srammentazione e l’eterogeneità: assegno al nucleo samigliare destinato alle samiglie di lavoratori dipendenti a basso reddito, assegno per il terzo siglio per le samiglie a reddito molto basso e tre sigli tutti minori, detrazione siscale per i sigli a carico, bonus bebè per i nati nel triennio.
Ciascuna di queste misure usa non solo un criterio di reddito diverso, ma lo determina in modo disserente. Per l’assegno al nucleo samigliare non si utilizza l’Isee, che si usa invece per l’assegno al terzo siglio, mentre per il bonus bebè non vale alcun limite di reddito. Quanto alle detrazioni siscali (sul reddito individuale, non samigliare) sono accessibili solo a chi è siscalmente capiente. I bambini con genitori poveri che non sono lavoratori dipendenti, se non hanno almeno due sratelli/ sorelle minori non danno diritto né all’assegno al terzo siglio, né all’assegno al nucleo samigliare, né alla detrazione siscale ( per incapienza). E, se nati suori dal triennio di validità del bonus, neppure al bonus bebè.
Eppure, se si sosse voluto davvero costruire un pezzo sensato di politiche samigliari per compensare una parte del costo dei sigli, sarebbe bastato approvare una proposta di legge di iniziativa dei senatori, presentata un anno sa, intesa a razionalizzare la spesa che si perde in mille rivoli inessicaci unisicandola in un un’unica misura, un assegno periodico per i sigli sino alla maggiore età, universale ancorché decrescente con il crescere del reddito samigliare. L’occasione era stata già persa lo scorso anno quando, invece di battersi per una risorma organica, anche i “ sostenitori della samiglia” si accontentarono di potersi vantare di aver ottenuto un ennesimo bonus. Passato un anno senza che nulla sia stato satto e che neppure si sia aperto un consronto, lo stesso copione viene riproposto. Non è così che si sostengono le samiglie con sigli né tantomeno si incoraggia la scelta di sare un siglio (in più).

Repubblica 24.11.17
 Kamel Daoud
“L’Islam imprigiona i corpi delle donne Voi le loro anime”
di Anais Ginori

PARIGI «Scrivere è l’unico stratagemma efficace contro la morte. Gli uomini hanno provato con la preghiera, i farmaci, la magia o l’immobilità, ma credo di essere l’unico ad aver trovato la soluzione: scrivere».
Kamel Daoud ha tenuto per anni una rubrica su Le Quotidien d’Oran, punto di riferimento del dibattito intellettuale in Algeria. La pubblicazione del romanzo Il caso Mersault l’ha proiettato verso un successo internazionale. Daoud è diventato uno degli intellettuali più ascoltati e pubblicati in Occidente, con posizioni talvolta controverse, mai allineate. Lo scrittore algerino non vuole essere portavoce di nessuno, né delle vittime del “Sud” o del “mondo cosiddetto arabo”, né delle ragioni del “Nord” o dell’Occidente. Le mie indipendenze (che esce ora in Italia per La nave di Teseo) è una selezione degli articoli pubblicati tra il 2010 e il 2016, in cui si ritrovano molte delle sue posizioni e idee: sulle donne, la sessualità, l’islamismo, il Dio sottratto al dogma. Lo stile è sempre scorretto, aspro, folgorante.
Nel libro c’è anche l’articolo sulle violenze sessuali del Capodanno 2015 a Colonia che lei scrisse per il nostro giornale e che le è valso molte critiche e l’accusa di islamofobia, e le ha fatto decidere di ritirarsi per un periodo dalla scena pubblica.
Lo riscriverebbe ancora oggi?
«Dalla prima all’ultima riga.
Smetterò di dire che esiste un problema sul rapporto con il corpo, il desiderio, la sessualità nel mondo arabo-musulmano solo il giorno in cui le donne potranno uscire la sera, disporre del loro corpo, avere diritto al piacere e all’orgasmo».
È un tema su cui riflette da tempo. Il primo articolo della raccolta, datato 2010, s’intitola “Decolonizzare il corpo”. Cosa significa?
«In Algeria, come in altri Paesi cosiddetti arabi, si tramanda un culto del corpo morto, non si fa altro che ricordare i martiri, i caduti delle guerre. Siamo impregnati dell’elogio della morte e del sacrificio, non del desiderio, dell’incontro dei corpi, del piacere sessuale.
Inoltre, siamo figli di una cultura religiosa molto specifica che ci priva del nostro corpo, la nudità deve essere nascosta, la sessualità è sempre perversa.
L’unico modo di gioire fisicamente è morire e rinascere in paradiso. Sono arrivato ormai alla conclusione che molti dei nostri problemi passano da questo rapporto patologico al corpo».
Non pensa che lo scandalo Weinstein e tutto ciò che sta provocando racconti invece qualcosa sul rapporto con il corpo in Occidente?
«Nel mondo arabo-musulmano si mette il velo sul corpo della donna. In Occidente, invece, il corpo è il velo sulla donna. In Occidente non si tratta di liberare il corpo, ma di liberare la donna. E credo che sia in corso un movimento non solo femminista ma universale».
È rimasto sorpreso dalle accuse di violenza sessuale fatte al predicatore musulmano Tariq Ramadan?
«L’affaire in sé non m’interessa molto, sarà la giustizia a decidere l’eventuale colpevolezza. Mi colpiscono invece le reazioni da noi, al Sud, e nelle comunità musulmane in Europa: si scivola subito nel complottismo, nella paranoia.
Molti musulmani hanno un atteggiamento di rigetto nei confronti della realtà. E c’è anche una straordinaria ingiustizia rispetto a quello che ho subito dopo il mio articolo su Colonia».
Nella strumentalizzazione
dello scandalo?
«Mi avevano accusato di essenzialismo sulla base di un fatto di cronaca, anche se la mia era una riflessione più ampia e antica. Oggi, le stesse persone utilizzano l’affaire Ramadan per fare quello di cui mi accusavano, ovvero ridurre un tutto, una comunità, a un uomo. Ramadan non rappresenta l’Islam. È scandaloso dirlo. Sono contrario a questa generalizzazione pur non avendo nessuna simpatia per Ramadan, anzi penso che la religione dovrebbe finalmente sbarazzarsi dei predicatori».
È più difficile esprimersi quando si diventa un intellettuale globale?
«All’inizio c’è stato un effetto quasi paralizzante. Quando si scrive per un circuito chiuso, si è pressapoco certi che il testo sarà interpretato nel senso desiderato. Nel momento in cui si entra nel circuito internazionale, ogni frase può assumere molte interpretazioni. Un mio commento dal titolo In cosa i musulmani sono utili per l’umanità non è letto allo stesso modo in Algeria e in Europa. È un’equazione difficile da risolvere».
Come scrivere senza essere frainteso o strumentalizzato?
«Il dilemma si è posto in egual misura durante la Guerra Fredda, tra chi denunciava lo stalinismo e veniva accusato di fare il gioco dell’imperialismo, e chi faceva l’elogio del comunismo tacendo gli orrori del gulag. Voglio denunciare lo stalinismo e i gulag. Se i miei testi vengono strumentalizzati da qualche estremista, pazienza. L’alternativa sarebbe scegliere un prudente silenzio, darsi per vinti».
Lei non è stato solo oggetto di critiche, ha ricevuto insulti, minacce di morte.
«La responsabilità degli intellettuali si è evoluta nell’epoca di Internet con una diffusione che non ha più frontiere geografiche, fusi orari, barriere linguistiche. Dopo aver attraversato un momento di crisi, aver lungamente riflettuto, mi sono detto che — in qualsiasi caso — non sono responsabile di come gli altri mi leggono. E non voglio neppure anticipare quale sarà la reazione ai miei testi.
Sono vivo, e voglio continuare ad occuparmi di cose che urtano, feriscono, fanno male proprio perché sono parte della vita».

Repubblica 24.11.17
L’antico Egitto spiegato alla Cina (dai torinesi)
di Marina Paglieri

TORINO Il corpo di una donna piegata ad arco con le mani poggiate a terra, la testa che segna il confine occidentale del cielo, mentre le gambe limitano quello orientale. La dea Nut, di raffigurazione lungo le rive del Nilo della volta celeste, è il simbolo della mostra Egypt.
House of Eternity, che sarà inaugurata l’8 dicembre all’Henan Provincial Museum di Zhengzhou. Il Museo Egizio di Torino sbarca in Cina con un tour che lo vedrà impegnato fino a marzo 2019 in esposizioni allestite nei musei di Taiyuan, Shenyang, Changsha, Guangzhou. È ancora l’immagine della dea Nut a dare l’impronta “circolare” ai percorsi che si dipaneranno nelle varie sedi, secondo un progetto scientifico messo a punto dal direttore Christian Greco. Gli aspetti fondamentali della civiltà faraonica – la vita quotidiana, i culti religiosi e quelli funerari – saranno approfonditi ma anche riassunti in un gioco di metafore, basate sulle rappresentazioni del giorno, del tramonto e della notte. « Egypt. House of Eternity porta in Cina l’Egitto visto attraverso un progetto scientifico del museo torinese e vuole costituire un simbolico ponte spazio-temporale tra l’antica civiltà della Valle del Nilo e il millenario popolo cinese» dice Greco. Che ha sempre fatto dell’esportazione della cultura dei faraoni e del patrimonio del museo che dirige uno dei cavalli di battaglia.
Nel novembre 2016 la prima tappa all’estero, con la mostra Regine del Nilo al Rjiksmuseum di Leiden, in cui si era visto il corredo funerario di Nefertari.
La consorte di Ramesse II, con i reperti della Valle delle Regine, è stata poi al centro la scorsa estate di un’esposizione all’Ermitage di San Pietroburgo.
Ora tocca alla Cina, in un momento in cui sembra questa la meta preferita per scambi culturali. Al Neues Museum di Berlino è allestita fino a dicembre la mostra Cina e Egitto. Culle del mondo, con 300 oggetti dalle collezioni berlinesi e da musei cinesi, mentre è di pochi giorni fa la notizia che i Musei Vaticani, all’insegna del titolo La Bellezza ci unisce, hanno stretto un accordo con il China Culture Industrial Investment Fund per due mostre che si terranno in contemporanea in primavera nella sede di Roma e nella Città Proibita di Pechino.
Sono 235 i reperti caricati su grossi tir partiti la settimana scorsa da Torino per l’Oriente: opere in parte inedite, provenienti dai depositi e mai esposte, o prese in prestito dal percorso permanente, ispirate ai temi della mostra. Si vedranno sarcofagi, uno di questi riporta l’effigie della dea Nut, statue, utensili e oggetti della vita di tutti i giorni o legati al culto dei morti. Oltre ad alcune mummie di animali, restaurate di recente.
Per ora non sono previsti scambi con la Cina, ma il percorso è appena avviato. Si vuole portare la civiltà dell’antico Egitto in un Paese che non ne ha ancora subito la fascinazione e compiere una sorta di alfabetizzazione. L’obiettivo è condurre il visitatore in un percorso onirico tra le opere, ambientato ora sulle sabbie del deserto, ora all’ombra dei palmeti, ora tra i papiri del Nilo.