Repubblica 6.10.17
Il Vaticano, la Cina e la reciproca tolleranza
du Alberto Melloni
IL
18 OTTOBRE per la prima volta un papa parlerà al congresso del partito
comunista cinese. Non andrà a Pechino, non usera la sua voce: ma lo farà
con un’ intervista sui generis ad un gesuita cinese che esce domani su
Civiltà Cattolica.
È la seconda volta che la rivista, le cui bozze
vengono rilette sempre in Segreteria di Stato e talora a Santa Marta,
porta un affondo politico di così grandi proporzioni.
Era già
accaduto mesi fa col durissimo articolo sull’integrismo americano che ha
fatto da prologo o da concausa all’uscita di Steve Bannon dalla Casa
Bianca. Il conservatorismo statunitense s’è dimenato e ha rincarato la
sua aggressività antibergogliana ma né carte inautentiche, né petizioni
antipapali, né allusioni opache come quelle dell’ex revisore dei conti
vaticano Libero Milone, hanno potuto evitare o vendicare l’escomio di
Bannon.
Ora Civiltà Cattolica pubblica un’ intervista al gesuita
cinese Joseph Shih: un prete novantenne, formatosi con Arrupe, per molti
anni alla Radio Vaticana dell’era Tucci. “Con quella bocca può dire ciò
che vuole”, recitava una antica réclame: e dalla bocca di Shih esce la
posizione vaticana sulla Cina e sulla Chiesa in Cina, che è il grande
orizzonte di questo papato e di questa segreteria di Stato.
L’ “intervista” contiene tre tesi decisive.
La
prima è che in Cina esiste una Chiesa sola. La divisione tra la Chiesa
patriottica e la Chiesa non riconosciuta è talora reale ed
effettivamente dolorosa: ma non intacca, secondo questa “intervista”,
una unità di fede più reale e più effettiva. Non è un fervorino: è la
revoca della scomunica sui vescovi ordinati senza permesso papale. Che
talora sono invertebrati (ce ne sono però anche fuori dalla Cina): ma
talora sono preti generosi, con una comunione col Papa superiore a
quella di tanti preti ecclesiastici. Preti che vivono con candore il
dilemma che li attende. Passando nei seminari di Pechino e Shanghai (a
me è capitato per qualche lezione) è facile vedere in quei volti docili
coloro che un giorno dovranno decidere se prendersi cura di una diocesi,
a rischio di non essere riconosciuti, o rifiutarsi: ed è arduo credere
che lo Spirito non li assista mai.
La seconda è che esiste una
formula di accordo fra Pechino e Vaticano ed è quella della “reciproca
tolleranza”. Non un riconoscimento fra poteri come nei vecchi
concordati: ma una distinzione di ordinamenti che non sono tenuti a
riconoscere l’intrinseco valore dell’altro, ma a rispettarlo. Un modello
che si potrebbe definire a-costantiniano. E di grande significato
“politico” anche per quel corpo di eguali che è il cattolicesimo che può
vivere la sua corporeità politica in due modi: o strusciandosi sul
potere per avere sconti e favori, giustificando la propria
intrinsichezza coi potenti in nome della libertas ecclesiae di Gregorio
VII, dei valori non negoziabili di Benedetto XVI o perfino della
ipocrita evocazione del “dare ai poveri”, come diceva Giuda Iscariota.
Oppure può lasciarsi trovare nella Via (il primo nome dei cristiani),
nel tentativo di vivere la forma del vangelo. Offrire reciproca
tolleranza significa insomma che la Chiesa non vuole benedire né il
partito né le politiche di un regime che, dice Shih «non cambierà per un
lungo periodo» (cosa che tutti i regimi comunisti adorano sentirsi
dire).
La terza tesi è la riabilitazione di monsignor Ma Daqin,
vescovo di Shanghai agli arresti domiciliari nel seminario di Shanghai
(che ho potuto solo vedere da un balcone in marzo, quando sono stato a
far lezione a sei giovani studenti che avevano una traduzione in cinese
dei dubia contro il Papa, finanziata dagli integristi americani...).
Monsignor
Ma era stato scelto dopo che il predecessore era stato arrestato in
modo molto “cinese”. Accusato di essersi dato appuntamento in un albergo
(governativo) con una donna (moglie di un militare) di cui sarebbe
stato amante (a detta della polizia). Era in effetti un piccolo
capolavoro repressivo: il che lasciava la sua reputazione intatta a
chiunque legga le cose, consentiva di arrestarlo senza perseguitare la
Chiesa, e portava in sede un vescovo coraggioso e affidabile.
Tuttavia,
al termine della sua consacrazione episcopale, monsignor Ma pronunziò
un breve saluto e disse che per fare il vescovo si sarebbe dimesso da
tutte le associazioni di cui faceva parte; inclusa quella dei cattolici
“patriottici”. Forse spinto da un funzionario diabolico o da una
angelica ingenuità o dalla umana stupidità. Fatto sta che la sera stessa
è stato arrestato e non ha mai detto la sua prima messa in cattedrale.
L’
“intervista” a Shih dice che Ma non ha trattato né ha ritrattato, ma si
è “svegliato”. E dunque può prendere possesso della diocesi senza
bisogno d’altro — e con la benedizione papale.