Repubblica 2.10.17
L’anticipazione
Così ci illudiamo di proteggere i nostri ragazzi
di Matteo Bussola
LA SCUOLA fu per me la scoperta di un mondo nuovo. D’un tratto c’erano «gli altri».
Con
gli altri non andavo sempre d’accordo, questa cosa mi spaventava, dopo
un po’ ci trovai un senso. Non sentirmi piú al sicuro, avere paura,
vedere che la gentilezza di chi avevo intorno non era dovuta, ma
dipendeva anche dalla mia, mi restituiva la responsabilità di scegliere
come volevo essere. Non esisteva piú l’accoglienza incondizionata dei
miei genitori, il mio comportamento generava conseguenze. Imparavo delle
regole che, al tempo non potevo saperlo, mi sarebbero servite per tutta
la vita. Una la conoscevo già, me la ripeteva di continuo mia nonna, ma
ne compresi il significato solo lí: «Chi rispetto vuole, rispetto
porta».
Oggi sono padre, ho tre figlie di età differenti che
frequentano istituti diversi. Le mie paure sono adesso tutte per loro.
Perché di rispetto, nella scuola, ne vedo sempre meno. Soprattutto fra
genitori e insegnanti. Noi genitori, in particolare, sembriamo spesso
insoddisfatti, eccessivamente critici, a volte arrabbiati. Intenti a
tracciare confini e pronti a fare da scudo ai nostri figli di fronte a
qualunque ostacolo, difendendoli da chiunque provi a metterli in crisi. È
questo a confondermi di piú. Quella fra noi e l’autorità scolastica
pare essere diventata una specie di guerra, in cui il mirino delle
nostre paure viene puntato troppe volte sulla classe docente che, ormai,
abbiamo costretto a una comprensibile diffidenza. A farne le spese, è
proprio chi crediamo di proteggere.
Vivendo la scuola da genitore
ho accumulato negli anni osservazioni, testimonianze, aneddoti che mi
hanno portato a domande che aumentano giorno dopo giorno. E mi hanno
condotto, di nuovo, a interrogarmi sulle mie stesse responsabilità.
Perché
siamo diventati cosí? Quando abbiamo cominciato a pensare alla scuola
come all’erogazione di un servizio nel quale il cliente deve avere
comunque ragione? Quando abbiamo iniziato a mettere in discussione
l’autorità dei docenti, a partire dai compiti a casa? Perché il
sacrosanto diritto di partecipare al cammino dei nostri figli, vigilando
anche sugli eccessi, si trasforma sempre piú spesso nella
giustificazione automatica dei figli stessi? Infine: quando ci siamo
convinti che essere genitori volesse dire vivere le loro vite, che fare
il loro bene significasse tenerli al riparo dalle difficoltà,
dimenticando che le difficoltà sono uno strumento di crescita
indispensabile?
Non riesco a capire cosa ci sia accaduto.
Quando
non capisco qualcosa, se perdo la direzione di un ragionamento,
l’orizzonte di uno sguardo, mi siedo davanti a una pagina bianca e metto
in fila le parole. Ho imparato a fare in questo modo proprio a scuola,
cosí tanti anni fa che mi sembrano mille. È una delle numerose eredità
che il percorso scolastico mi ha lasciato, insieme alle poesie di
Ungaretti, le province della Basilicata, il teorema di Pitagora, il
profumo alla mela verde di Arianna. Una fiducia istintiva per chi ha
mani grandi.
«Quando non capisci, scrivi, — mi diceva sempre la
maestra Miranda, — cosí metti in ordine i pensieri». Un’altra cosa che
ho imparato a scuola è che scrivere, per me, significa sempre scrivere a
qualcuno. Come se la scrittura dovesse essere orientata dalla
consapevolezza di un destinatario, che si tratti di uno solo oppure di
molti, perfino quando il destinatario sono io. Soprattutto, quando
anch’io mi sento parte di quei molti.
Ecco perché questo libro è una lettera.
Ecco perché è rivolta a noi genitori.