Repubblica 28.10.17
Il direttore del Museo Egizio di Torino svela il progetto per il 2018
“Racconterò le statue come vittime della Storia”
MARINA PAGLIERI
TORINO
«Una
riflessione sulla fragilità dei tesori d’arte, sul museo come luogo di
memoria e conservazione, ma anche di distruzione, in un dialogo tra
reperti del passato e creazioni contemporanee». Il direttore del Museo
Egizio di Torino Christian Greco presenta cosi “Anche le statue muoiono”
(il titolo è tratto dal film di Alain Resnais e Chris Marker, del
1953), la grande mostra che ha pensato per
il 2018, l’Anno europeo
del patrimonio culturale, curata con lui da Paolo Del Vesco, Enrica
Pagella, Elisa Panero, Stefano De Martino e Irene Calderoni. Si inaugura
l’8 marzo e coinvolge diverse istituzioni della città, oltre
all’Egizio, i Musei Reali, il Centro Scavi dell’Università e la
Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, dove saranno esposti i lavori degli
artisti invitati. Questi provengono dall’area mediorientale, da paesi
come Siria, Egitto, Libano, Turchia, in cui i temi della mostra sono più
sentiti. Si vedranno le opere di Kader Attia, che ha lavorato sul
saccheggio del Museo del Cairo, di Morehshin Allayari, iraniana che vive
negli Stati Uniti, dell’irachena Jananne Al-Ani, dell’egiziana Iman
Issa, del libanese Walid Raad. Unico italiano presente Mimmo Jodice, con
gli scatti magici che ha dedicato alle rovine di Palmira e al
Mediterraneo.
Christian Greco, perché questo titolo?
«Perché
è vero, anche le statue muoiono, e in modi diversi. Ogni opera ha una
biografia, che coincide con la sua storia. A volte trovi una scultura
mutilata, nella faccia o negli organi genitali, e scopri che la sua
sacralità non è stata rispettata: magari è stata tagliata a pezzi e
ricomposta, presentata in altri contesti, così si è snaturata la sua
identità. L’iconoclastia non ha a che fare solo con le distruzioni della
guerra, ma anche con motivazioni culturali e religiose, pensiamo per
esempio in Europa alla Riforma protestante. È un fenomeno che vogliamo
analizzare e ampliare all’oggi, per questo abbiamo chiesto a una serie
di artisti del vicino Oriente di riflettere sui conflitti che portano
gravi danni al patrimonio. Ci interessava fare dialogare l’arte
contemporanea con i reperti egizi».
Qualche esempio di distruzioni e contraffazioni subite dalle opere del suo museo?
«C’è
il caso eclatante della statua in granito rosa di Ramses II incedente,
che un tempo aveva raffigurato con ogni probabilità Amenofi II, faraone
vissuto più di 150 anni prima: Ramses ha cambiato l’iscrizione e l’età e
l’ha fatta sua. Abbiamo stele che testimoniano l’usurpazione attraverso
la cancellazione di iscrizioni, poi riscritte, o di immagini di un
personaggio, per condannarlo all’oblio. Un altro esempio è quello della
scultura del governatore provinciale proveniente da Qau el-Kebir fatta a
pezzi: in quel sito se ne sono rinvenute parecchie ridotte così, ma ne
esporremo una sola, come testimonianza. Poi c’è un frammento del volto
di Akhenaton, parte di una statua antica riscolpita in epoca moderna, a
rivelare, e questo è un altro problema, la creazione di una falsa
memoria, magari per fini commerciali ».
Quale apporto può arrivare dalle opere degli artisti contemporanei?
«A
loro è stato chiesto di dialogare con il passato e di dimostrare come,
dai pezzi antichi ai lavori di oggi, la distruzione dell’arte sia un
fenomeno diacronico, sempre esistito. Ci sarà uno scambio tra i diversi
contesti, porteremo reperti trovati nelle piramidi o nelle tombe egizie
alla Fondazione Sandretto e un’opera contemporanea nel Salone degli
Svizzeri di Palazzo Reale, dove la direttrice Enrica Pagella farà
arrivare materiale archeologico dal Museo di Antichità. Ma c’è un altro
aspetto da sottolineare».
Quale?
«La partecipazione del
Centro Scavi dell’Università di Torino, che porterà in mostra fotografie
e documenti. Attivo sino dagli anni Sessanta e Settanta nelle zone a
rischio per il patrimonio, soprattutto nei contesti assiri oggi
all’attenzione del mondo, è ancora presente oggi nel nord dell’Iraq. I
docenti e archeologi Stefano De Martino e Carlo Lippolis hanno
collaborato tra l’altro alla ricostruzione del Museo Nazionale di
Baghdad, dopo le devastazioni del 2003. Occorre ricordare che del
patrimonio fa parte anche la ricerca, come bene intangibile».
Il 2018 è appunto l’anno europeo del patrimonio culturale: quale vuole essere il messaggio della mostra?
«Si
è voluta allargare a tutta la città la riflessione sulla fragilità del
patrimonio e sull’esigenza di conservarlo e studiarlo. Mi piace che si
facciano dialogare diverse istituzioni e che questi temi siano
affrontati in sedi diverse. E mi piace trasmettere il messaggio che
dobbiamo studiare quello che il passato ci ha tramandato, ricordando che
la tutela passa anche attraverso il dialogo e la conoscenza. L’articolo
9 della nostra Costituzione dice che la Repubblica, la res publica,
proprio
nel senso civico di questo termine, promuove lo sviluppo della cultura e
della ricerca e tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico
della nazione. Mi piace infine che i torinesi sentano il Museo Egizio
come il loro museo: dobbiamo legare i cittadini al loro beni culturali.
Una riflessione che avrà un seguito a giugno, in due giornate di studi e
approfondimenti su questi temi. Al centro ci deve essere la biografia
dell’oggetto d’arte, che ha tanto da dirci e che dobbiamo conoscere per
tutelare ».