Repubblica 14.10.17
Ecco l’era della solitudine di massa
Se il web è diventato uno specchio, la sfida è trovare vere connessioni
Senza
confronto tra punti di vista eterogenei la democrazia rischia di essere
sostituita dal regno dell’Uroboro, serpente che si morde la coda
di Michele Ainis
La
libertà di manifestazione del pensiero rappresenta la “pietra angolare”
della democrazia, dichiara una celebre sentenza della Corte
Costituzionale, vergata nel 1969. Ma ormai non più: qui e oggi, la
questione dirimente non è di garantire la circolazione delle idee, bensì
la loro formazione, la loro genuina concezione. Perché non siamo più
liberi di pensare i nostri stessi pensieri, ecco il problema. Pensiamo
di pensare, ma in realtà ripetiamo come pappagalli i pensieri altrui. O
al limite anche i nostri, però amplificati e deformati, senza verifiche,
senza alcun confronto con le opinioni avverse. È l’universo autistico
in cui siamo rinchiusi, anche se per lo più non ci facciamo caso. Un
universo tolemaico, in cui il sole gira attorno alla terra – ed è ognuno di noi, la terra.
Questa
storia comincia il 4 dicembre 2009, quando Google avvertì i propri
utenti che da allora in poi avrebbe personalizzato il proprio motore di
ricerca. Significa che i risultati cambiano a seconda delle ricerche
precedenti, del computer da cui stiamo interrogando Google, del luogo
nel quale ci troviamo. In breve, significa che se due tifosi della Juve e
della Roma – per esempio – digitano “calcio”, otterranno pagine
diverse, sia nel numero sia nella gerarchia delle notizie. Più che una
riforma, una rivoluzione, come per primo s’incaricò di segnalare un
libro divenuto cult (Eli Pariser, The Filter Bubble, 2011). E la
rivoluzione si propagò immediatamente agli altri giganti della Rete, da
Apple a Microsoft, da Amazon a Facebook, a Twitter, a WhatsApp. Ciascuno
di loro succhia dati mentre navighiamo online, carpisce i nostri gusti,
le nostre opinioni, le nostre frequentazioni telematiche, per venderle
poi agli inserzionisti, che in questo modo possono inseguirci con una
pubblicità tagliata su misura.
È la “profilazione” dell’utente, un
nuovo strumento che affila le tecniche di marketing, le rende sempre
più sofisticate. D’altronde, grazie ai dispositivi mobili, non è più
necessario interrogare i motori di ricerca, perché loro ti rispondono
senza lasciarti il tempo di formulare la domanda. Si è così realizzata
la visione di cui parlava nel 2010 Eric Schmidt, amministratore delegato
di Google: «Immagina di star camminando per strada. A causa di tutte le
informazioni che Google ha raccolto su di te, noi sappiamo chi sei, a
cosa sei interessato, chi sono i tuoi amici. Google sa, con
l’approssimazione di pochi centimetri, dove ti trovi. Se hai bisogno di
latte, e se c’è un negozio che lo vende lì vicino, Google te lo
segnalerà».
Noi non sappiamo quali informazioni personali
detengano i signori della Rete. Sappiamo che una società per la raccolta
dei dati come Acxiom ha una media di 1500 informazioni su ogni
americano. Sappiamo che Google usa 57 indicatori per profilarci dalla
testa ai piedi. Sappiamo che Netflix ospita la più grande banca dati al
mondo, quanto alle preferenze dei consumatori in materia di fiction
cinematografica e televisiva. Sappiamo che cercando una parola come
“depressione” su un dizionario online, il sito installa fino a 223
cookies nel nostro computer. E sappiamo, o almeno crediamo di sapere,
che navigare da uno smartphone o da un tablet non costa nulla, è gratis.
Invece non è vero. Paghiamo ogni chat, ogni ricerca, ogni consultazione
online spogliandoci delle nostre informazioni personali. E non è vero
che lo facciamo volentieri: nel 2012 un sondaggio realizzato da Pew
Internet attestò che il 73% degli americani ritiene che la profilazione
costituisca una violazione della privacy. Infine, non è vero che
accettando i cookies rinunziamo consapevolmente alla segretezza delle
nostre informazioni: giacché i più non li accetterebbero, se
conoscessero la quantità di dati che prelevano. Tu dai il consenso per
una radiografia, loro ti somministrano una tac.
Sennonché le
tecniche di profilazione non chiamano in causa unicamente i nuovi
business o la vecchia privacy. Mettono in gioco la possibilità di
rapportarci gli uni agli altri, d’aprirci al mondo esterno. Così come
l’algoritmo di Amazon ci suggerisce libri simili a quelli che stiamo
consultando, al contempo i filtri che agiscono sul web tendono a
proporci all’infinito le stesse fonti da cui già ci siamo alimentati, le
stesse opinioni, le stesse informazioni. Si chiama echo chamber, camera
dell’eco: una metafora per evocare la ripetizione delle idee in un
ambiente claustrofobico, impermeabile alle sollecitazioni. E la Rete
diventa un po’ come uno specchio, una superficie riflettente dove non si
moltiplica l’immagine del mondo bensì quella dei singoli individui, o
al limite delle comunità parziali, come i seguaci d’una setta. Le
informazioni circolano, ma a compartimenti stagni, in circuiti separati.
Ne è prova, per esempio, una ricerca pubblicata da Scientific reports
nel 2016 ( Echo Chambers: Emotional Contagion and Group Polarization on
Facebook): i gruppi chiusi di Facebook ignorano le informazioni
discordanti rispetto alle proprie convinzioni, mentre accettano quelle
che suonano conformi, anche se chiaramente false.
Da qui il
confirmation bias, ovvero l’influenza delle nostre aspettative sui fatti
rispetto al modo con cui li interpretiamo: uno schema mentale antico
quanto l’uomo, che però l’informatica eleva alla massima potenza. Da
qui, di conseguenza, il fenomeno della post- truth, che Oxford
dictionaries ha scelto come parola dell’anno 2016. In questo caso la
“post-verità” esprime l’irrilevanza dei fatti nella formazione dei
processi cognitivi, come la negazione del riscaldamento globale o le
false informazioni che hanno determinato Brexit (per esempio circa i
costi pagati dagli inglesi all’Unione europea: 350 milioni di sterline a
settimana, una cifra mai documentata). Da qui, infine, una neonata
disciplina: l’agnotologia, battezzata da Robert Proctor per indicare lo
studio dell’ignoranza indotta attraverso dati scientifici fuorvianti.
D’altronde
come mai potremmo smascherare il falso, quando nessuna controverità ha
accesso alle nostre stanze telematiche? È infatti questa la nuova
condizione umana: una solitudine di massa, come se il gomitolo delle
nostre relazioni si fosse riavvolto tutt’a un tratto, lasciandoci senza
un filo che ci connetta agli altri. E lasciandoci, perciò, senza
democrazia, dato che quest’ultima si nutre del confronto tra punti di
vista eterogenei. Quale regime potrà sostituirla? Il regno dell’Uroboro,
serpente che si morde la coda, formando un cerchio chiuso. Il regno
dell’autoreferenza.