giovedì 12 ottobre 2017

Repubblica 12.10.17
Bologna, gli strani numeri del Pd Iscritti oltre settanta ultracentenari
Bologna. Ci sono anche decine di centenari che risultano iscritti al Pd di Bologna. Dopo la polemica sulle tessere fantasma e i ricorsi alla commissione di garanzia, il capitolo dei veleni sul congresso provinciale si arricchisce di un nuovo caso. Negli elenchi dei tesserati di diversi circoli sono infatti affiorate le presenze di ultracentenari. I militanti nati prima del 1920 sono infatti almeno settanta. Scartati i 4-5 casi di nati il primo gennaio 1900 (data che il sistema mette in automatico quando non trova i numeri reali) sono tantissimi i tesserati che risultano essere nati nel 1920, 1915, 1918 o 1919. Numeri consistenti e “strani” che alimentano la polemica interna al partito che proprio oggi apre le urne al voto.
(g. bal.)

Repubblica 12.10.17
Indagato Billy ex autista di Renzi alle primarie Pd
Firenze. C’è anche Roberto Bargilli detto Billy, l’autista del camper di Matteo Renzi al tempo della campagna per le primarie ed ex assessore Pd di Rignano sull’Arno, fra gli indagati nell’inchiesta della procura di Firenze sul fallimento della società cooperativa “Delivery Service”. La coop aveva rapporti con la “Eventi 6”, ora amministrata dalla madre e dalla sorella del segretario del Pd (non indagate). Lo ha scritto Il Tirreno.
Il 5 ottobre la Guardia di Finanza ha acquisito nella sede della Eventi 6, a Rignano, documenti per chiarire i rapporti fra le due società.
Cinque ex amministratori della Delivery, fra cui Bargilli, sono indagati per averne causato il fallimento.

Repubblica 12.10.17
La richiesta di risarcimento danni del liquidatore: “Storia incredibile di cattiva gestione, restituiscano oltre mezzo miliardo” Al padre della sottosegretaria Boschi chiesti 15,8 milioni di euro
Etruria, l’atto d’accusa agli ex vertici “Banca spolpata e portata allo sfacelo”
di Fabio Tonacci

“Una gestione incredibile” Chiesti 576 milioni di danni 15,8 a Pier Luigi Boschi
PIÙ di mezzo miliardo di euro. Per la precisione 576 milioni di risarcimento danni per aver «spolpato» quella che fu la Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio. Di più, per averla «condotta letteralmente allo sfacelo, sotto il peso di errori madornali degli amministratori », in una «paradossale corsa all’abisso» durante la quale sarebbe stato violato «ogni più elementare principio normativo o di correttezza professionale ».

ROMA. Le parole scelte dall’avvocato Antonio Briguglio nell’atto di citazione per conto del commissario liquidatore sono oggettivamente le più pesanti che è capitato di leggere da quando l’Etruria ha cominciato ad affondare. Pesanti quasi quanto la cifra ora chiesta a chi ne ha “governato” lo sfascio. Quasi.
“DANNI ALL’INTERO SISTEMA”
Per Briguglio, e dunque per il liquidatore Giuseppe Santoni, la parabola discendente della vecchia Etruria è «una incredibile storia di mala gestio ai danni della società, dei suoi creditori, dei risparmiatori e della credibilità del sistema bancario italiano». Con la causa al Tribunale civile di Roma punta a recuperare parte del patrimonio sperperato come ristoro per i danni causati «da illecite condotte commissive e omissive di tutti costoro».
Se i giudici gli daranno ragione, per i 37 ex amministratori citati (sono membri dei due cda dal 2009 al 2015, il collegio dei sindaci e il direttore generale Luca Bronchi) vorrebbe dire sborsare in solido 464 milioni. A cui si potrebbero aggiungere 112 milioni a carico del revisore Price Waterhouse Cooper spa che secondo Santoni «ha sempre espresso giudizi positivi, senza mai formulare rilievi».
STANGATA PER BOSCHI SENIOR
Quanto potrebbe essere chiamato a risarcire ciascun ex consigliere? Non basta fare il totale diviso 37, perché Santoni ha individuato per ogni cifra i presunti responsabili e va considerato anche il tempo di permanenza in carica. Sommariamente, però, chi potrebbe pagare di più si intuisce.
In quasi tutti i casi citati, infatti, sono presenti i nomi degli ex presidenti Giuseppe Fornasari e Lorenzo Rosi, i loro vice e l’ex dg Bronchi. Anche Pier Luigi Boschi, padre del sottosegretario Maria Elena Boschi, compare spesso nell’atto di citazione, perché è stato consigliere dal 2011 e vicepresidente dal 2014: è associato a quattro casi di malagestione dei crediti sui dodici elencati e gli viene attribuita la responsabilità (insieme agli altri) delle sofferenze bancarie e della mancata fusione con la Popolare di Vicenza. Complessivamente, Boschi senior potrebbe essere chiamato a risarcire una cifra stimata attorno ai 15,8 milioni.
I CREDITI FACILI
Nell’atto di citazione si ripercorre la storia degli ultimi anni di Etruria a partire appunto dalla «dissennata erogazione di crediti senza garanzie nell’intento di agevolare soggetti legati agli ex esponenti aziendali». Soldi usciti dalle casse della Popolare e mai del tutto rientrati. E che ora il liquidatore rivuole indietro: solo questo “filone” pesa 112 milioni.
Ed ecco che si ritrovano il maxi prestito alla Sacci spa (ad era Federici, che era anche consigliere di Etruria) per cui si chiedono 38,9 milioni; i finanziamenti alle aziende clienti dello Studio professionale del consigliere Nataloni, erogati «senza seguire le procedure standard» e che ora valgono 19,2 milioni; lo sgangherato affare del maxi yacht della Privilege Yard in cui Etruria ha buttato 22,7 milioni; l’operazione di Villa San Carlo Borromeo, 17,9 milioni.
“IL MISTERIOSO ABBANDONO”
A questo capitolo si aggancia il controllo «assolutamente deficitaria delle sofferenze», cioè del recupero dei finanziamenti. Santoni sostiene che gli ex amministratori «non si sono minimamente preoccupati di far fronte al crescente rischio del credito» e hanno snobbato le due lettere di sollecito (24 luglio 2012 e 3 dicembre 2013) del governatore di Bankitalia. Quando serviva non hanno voluto rafforzare il Dipartimento gestione sofferenze, rimasto con 20 dipendenti. «Di tutte queste criticità il cda era pienamente consapevole» e i danni sono quantificati in 112 milioni.
Ma la voce più onerosa e grave, però, riguarda la mancata fusione con la Popolare di Vicenza nel 2014 quando i conti ormai erano in dissesto. Non se ne fece nulla, la trattativa fallì. «Nonostante l’assoluta urgenza dell’operazione indicata come unica via d’uscita dall’Autorità di vigilanza, il cda ratificava l’assurdo operato del suo presidente (Rosi, ndr)». Va ricordato a onor del vero che dopo pochi mesi la banca vicentina andò in crisi, quindi non era così solida, ma per Santoni la mancata integrazione è stata lo stesso un danno da risarcire con 212 milioni: l’importo del capitale di Etruria di allora.
MANCANO LE OBBLIGAZIONI
«La citazione stride con quanto dichiarato dalla stessa Banca Italia circa il fatto che l’integrazione non andò in porto per il venir meno dell’interesse di entrambe le parti», si difende con una nota un gruppo di ex amministratori non esecutivi. Aggiungendo che «su 12 operazioni di affidamento solo in due casi l’erogazione è successiva al 2010». Dal mezzo miliardo di risarcimento per ora sono rimaste fuori le obbligazioni subordinate, diventate carta straccia in mano ai risparmiatori. Ma il liquidatore è intenzionato a chiedere conto anche di quelle nel corso della causa.

Corriere 12.10.17
La rivoluzione di Lenin non è finita
di Antonio Carioti

Sì, è utile ripercorrere e ripensare la storia della rivoluzione russa, come ha fatto il «Corriere della Sera» nel volume 1917 Ottobre Rosso , in edicola da oggi con il quotidiano. Perché, anche se l’Urss è scomparsa, l’eredità dell’opera di Lenin e Stalin non si è affatto dissolta. Lo sostiene Andrea Graziosi, autore di un’ampia Storia dell’Unione Sovietica in due volumi edita dal Mulino: «Per oltre due secoli, dall’epoca dello zar Pietro il Grande e in parte anche da prima, la Russia aveva cercato di avvicinarsi all’Europa. E ci era riuscita, come dimostra la sua fioritura culturale nell’Ottocento. Ma la rivoluzione d’Ottobre segna una frattura che non si è più sanata. Con il regime sovietico inizia una divaricazione a cui neppure la caduta del comunismo ha posto rimedio. Mentre alcune componenti dell’impero smembrato, dall’Ucraina alla Georgia, sono attratte dall’Europa, le forze che spingono in tal senso a Mosca sono molto più deboli che in passato. In questo come in altri aspetti (penso al modo in cui rivendica come fonte di legittimazione la vittoria nella Seconda guerra mondiale), il regime di Vladimir Putin è segnato dal lascito sovietico».
Eppure i bolscevichi guardavano ai Paesi industrializzati. «Ma Lenin — ricorda Graziosi — fu il primo ad essere colto di sorpresa dagli eventi: poco prima che cadesse lo zar, aveva dichiarato nel suo esilio svizzero che non sarebbe vissuto abbastanza per vedere il socialismo in Russia. Poi colse con grande abilità ed energia l’occasione rivoluzionaria che si era presentata, ma nell’ultimo periodo della sua vita si chiedeva se avesse fatto bene. Siamo saliti sul treno, scrisse, però non sappiamo se vada nella direzione giusta».
I bolscevichi erano una esigua minoranza, come s’imposero? «Prevalsero nelle città della Russia con l’appoggio del proletariato urbano stanco della guerra e di alcuni reparti militari, sia quelli che stavano al fronte e desideravano la pace, sia quelli che in prima linea non ci volevano andare. Dopo aver rovesciato un governo molto debole, proclamarono la terra ai contadini, l’autodeterminazione alle minoranze nazionali dell’impero, e insomma dissero formalmente di sì a tutte le richieste principali delle masse popolari».
Però fu più difficile rimanere in sella, osserva Graziosi, affrontando una feroce guerra civile: «I bolscevichi ressero perché rifondarono lo Stato su nuove burocrazie, specie l’apparato militare e quello poliziesco, assorbendo anche settori dell’amministrazione e del corpo ufficiali ereditati dallo zar, ormai convinti che seguire Lenin fosse l’unica strada per rigenerare una grande potenza russa. Riuscirono a guadagnarsi la parziale neutralità dei contadini, che temevano di perdere, oltre al grano presogli dai comunisti, anche la terra se avessero vinto i controrivoluzionari. Inoltre i bolscevichi costruirono lo Stato, promuovendo in massa uomini capaci e risoluti provenienti dalle classi umili. Era di solito gente brutale, che infatti poi trovò in Stalin il suo capo più idoneo: un uomo crudele, ma di acuta intelligenza, che dimostrò doti notevoli nell’edificazione del nuovo Stato».
Un fallimento drammatico si registrò invece in campo economico: «Il cosiddetto comunismo di guerra introdotto nel 1918, con le requisizioni forzate di derrate agricole, fu poco più di una rapina per tenere in piedi le forze armate e gli apparati statali. Ma più in generale la gestione amministrata dell’economia da parte dello Stato, secondo i dettami della dottrina marxista, si rivelò un disastro. La Nep, la relativa apertura al mercato adottata nel 1921, fu l’ammissione di uno scacco, e fallì anche il tentativo di Stalin di rivitalizzare l’economia di comando al momento del lancio del piano quinquennale nel 1928-29».
Una scelta nella quale contò il pregiudizio ideologico: «I dirigenti sovietici credevano davvero nel cosiddetto socialismo scientifico. Stalin s’ispirò ad alcuni testi di Marx mentre preparava i provvedimenti contro i contadini. E ancora nel 1930 in Urss ci fu un secondo tentativo di abolire la moneta, dopo quello abortito della prima fase postrivoluzionaria. Alla fine il sistema economico emerso negli anni Trenta ci appare il frutto di un aggiustamento tra i dettami del marxismo e la realtà, che riuscì a durare anche grazie alle immense risorse naturali di cui disponeva l’Urss, oltre che alla vittoria del 1945. Lo stesso Mikhail Gorbaciov del resto credeva nel socialismo e cercò di salvarlo con le riforme».
Ben più saggi, secondo Graziosi, si sono dimostrati i comunisti cinesi: «Krusciov, che pure non era stato direttamente colpito dalla repressione staliniana, condannò Stalin, ma conservò il sistema economico da lui costruito; Deng Xiaoping, che era stato epurato e il cui figlio era stato torturato, non svalutò la figura di Mao Zedong, ma ne demolì completamente le scelte economiche. Una strategia che ha funzionato bene. Oggi la Cina ha conservato in parte l’impronta del bolscevismo: è governata da un partito di stampo leninista, che si è rivelato uno strumento efficace per gestire il potere politico. Ma Pechino ha rinnegato la dottrina marxista e si è affidata con successo al profitto per produrre sviluppo e ricchezza».
La spartizione dell’Urss tra diverse repubbliche non dimostra che anche la politica sovietica verso le nazionalità è stata un fiasco? «No — risponde Graziosi —, evitiamo di scambiare l’effetto per la causa. L’Urss è crollata perché il suo sistema economico, tra il 1985 e il 1988, si è dimostrato irriformabile. Solo allora le rivendicazioni nazionali hanno preso il sopravvento e proprio perché le repubbliche erano rimaste l’unica realtà solida alla quale ci si poteva aggrappare. Stalin, da giovane un fervente patriota georgiano, sapeva che l’appartenenza nazionale è più forte della coscienza di classe. E plasmò l’Urss come una federazione di Stati costruiti ciascuno intorno a una lingua nazionale. Un modello che, in forma democratica e non monopartitica, è stato imitato dall’India, strutturata anch’essa come un’unione di Stati linguistici: un altro esempio di quanto pesi ancora, nel mondo di oggi, l’eredità della rivoluzione sovietica».

Gli avvenimenti, i protagonisti, le conseguenze dell’insurrezione di Pietrogrado

Esce oggi con il «Corriere della Sera», al prezzo di e 9,90 più il costo del quotidiano, il volume a più voci 1917 Ottobre Rosso , a cura di Antonio Carioti, che rimarrà in edicola due mesi. Questa raccolta di saggi, con prefazione di Sergio Romano e introduzione di Ernesto Galli della Loggia, ripercorre e analizza le vicende della rivoluzione russa a cento anni dall’insurrezione che portò al potere il Partito bolscevico fondato da Lenin. Comprende interviste al regista russo Nikita Mikhalkov (a cura di Paolo Valentino), allo storico dell’Urss Boris Kolonitsky (a cura di Marta Allevato) e allo studioso svizzero Guy Mettan (a cura di Stefano Montefiori). Le ragioni per cui il regime dello zar fu travolto dalla guerra sono analizzate da Lorenzo Cremonesi. Antonella Salomoni ricostruisce l’avvento e il consolidamento del potere sovietico, soffermandosi sul tema dell’economia, mentre Giovanni Codevilla si occupa della politica antireligiosa dei bolscevichi e Luigi Magarotto descrive il loro rapporto con gli intellettuali, specie scrittori e poeti. Antonio Moscato rievoca la figura di Lev Trotsky, protagonista della rivoluzione il cui ruolo venne poi cancellato dal suo nemico Stalin, mentre Luciano Canfora ricostruisce il modo in cui lo stesso Stalin riuscì a imporsi dopo la morte di Lenin, che pure aveva espresso giudizi severi nei suoi riguardi. Marcello Flores analizza il fallimento del tentativo di estendere la rivoluzione in Europa e Natalia Terekhova si occupa del rapporto tra i bolscevichi e i socialisti italiani. Fabrizio Dragosei nota come il regime russo di Vladimir Putin preferisca non celebrare il centenario dell’Ottobre.

Corriere 12.10.17
Un mito capace di reggere alle smentite della storia
Il bolscevismo affascinò masse e intellettuali agitando l’illusione della società senza classi
di Giovanni Belardelli

Nel marzo 1919 Alphonse Aulard, professore di storia della rivoluzione francese alla Sorbona, formulava un paragone tra il 1789 e il 1917 destinato a una straordinaria fortuna: «Anche la rivoluzione francese è stata compiuta da una minoranza dittatoriale», anch’essa ha dovuto combattere contro i suoi nemici e utilizzare delle procedure che alimentarono l’accusa ai francesi d’essere «dei banditi». Dunque, concludeva, «quando mi dicono che c’è una minoranza che terrorizza la Russia, capisco solo una cosa, che in Russia c’è la rivoluzione».
Ecco, formulata da uno studioso che pure si dichiarava politicamente lontano dai bolscevichi, una delle ragioni, forse la principale, che avrebbero determinato l’enorme fascinazione della rivoluzione d’Ottobre in tutto l’Occidente, ben oltre i confini di chi militava a sinistra. Secondo questa visione, con la presa del potere da parte di Lenin la rivoluzione, che era iniziata nel 1789 ma presto si era interrotta per l’egoismo della borghesia vincitrice, finalmente riprendeva il suo cammino. E lo riprendeva agitando quella promessa di eguaglianza sociale che i rivoluzionari francesi, si sosteneva, avevano presto dimenticato.
Che si trattasse solo di un’illusione, che in Unione Sovietica nessuna eguaglianza sociale si stesse davvero realizzando (se non nella forma di una generale penuria, da cui erano esclusi però i vertici del regime), questo non ha avuto mai molta importanza per chi ha creduto nel mito dell’Ottobre rosso. Neanche le notizie sulle violenze compiute dai bolscevichi contro i loro oppositori o sulla vera e propria guerra combattuta da Stalin per cancellare i contadini come classe, assassinandoli o deportandoli nel Gulag, furono in grado di distruggere completamente quell’immagine iniziale, di una rivoluzione che issava lo stendardo dell’eguaglianza tra gli uomini.
Ancora nel 1996 a Norberto Bobbio accadde di scrivere che in Urss «il più grandioso tentativo di realizzare in terra la millenaria utopia di una società di eguali si era rovesciato in una spietata forma di dispotismo». Una frase in cui la netta condanna degli esiti politici dell’Ottobre rosso non nascondeva qualche ammirazione per i suoi presupposti ideologici.
Del resto, vari anni prima, Alcide De Gasperi aveva mostrato di ammirare il messaggio universalistico del comunismo sovietico, il cui «formidabile tentativo di accorciare le distanze fra le classi sociali» a suo giudizio era eminentemente cristiano. Perfino lui, dunque, che nell’Italia del dopoguerra si stava opponendo con successo alla sinistra comunista, finiva col seguire quel doppio standard con cui tanta parte delle élites intellettuali e politiche europee hanno valutato per molto tempo le dittature del Novecento: mentre regimi come quello fascista e nazista sono stati condannati anzitutto sulla base dei risultati, cioè delle azioni effettivamente compiute, il regime nato dalla rivoluzione del 1917 è stato giudicato con qualche indulgenza sulla base delle sue premesse (e promesse) ideologiche.
Alla fine degli anni Venti ad alimentare ancor più il mito dell’Urss era intervenuto il primo piano quinquennale varato da Stalin: il processo di collettivizzazione delle campagne e l’industrializzazione forzata che vi si accompagnava parvero a molti non solo un modo per modernizzare un Paese arretrato, ma anche un’alternativa all’irrazionalità dell’economia capitalistica, squassata dalla Grande Crisi innescata dal crollo di Wall Street dell’ottobre 1929. «Il comunismo presentato come un mezzo per migliorare la situazione economica è un insulto alla nostra intelligenza», scrisse un economista di sinistra come John Maynard Keynes nel 1934. Ma molti intellettuali occidentali non la pensavano affatto come lui.
Di fronte ai grandi processi di Mosca cominciarono però ad aumentare i dubbi sul regime nato dalla rivoluzione d’Ottobre. Nel 1937 lo scrittore francese André Gide, che pure in precedenza aveva manifestato le sue simpatie per l’Urss di Stalin, scrisse di ritenere che «in nessun Paese, fosse pure nella Germania di Hitler, lo spirito è meno libero, altrettanto asservito, intimidito (leggi: terrorizzato), schiavo». In quello stesso anno la filosofa Simone Weil definiva i due regimi «quasi identici». Un paragone che nell’agosto 1939 il patto di non aggressione tra Urss e Germania venne a confermare, lasciando nello sconcerto i militanti comunisti, ma anche i tanti che in Occidente ancora simpatizzavano per il regime sovietico.
Sembrò la fine della grande illusione che si era impadronita per anni di milioni di europei. Ci pensò Adolf Hitler, involontariamente, a dare nuova linfa al mito del comunismo. L’attacco all’Unione Sovietica nel giugno 1941 e il ruolo decisivo avuto da questo Paese nella guerra contro la Germania fecero presto dimenticare il patto di due anni prima. L’ex alleato di Hitler, Stalin, diventava uno dei grandi liberatori d’Europa.
Così la grande illusione che si era affermata nel 1917 riacquistava credito e riprendeva slancio. Per molti sarebbe terminata nel 1956, con la rivelazione da parte di Nikita Krusciov dei crimini di Stalin e con l’immagine dei carri armati russi aggressori a Budapest. Per altri avrebbe avuto fine con l’invasione della Cecoslovacchia nell’estate del 1968. Per altri ancora sarebbe durata più a lungo (nel 1977 un sondaggio indicava che la metà dei militanti del Pci riteneva i diritti individuali meglio garantiti in Urss che in Italia), terminando solo nel fatidico 1989 con la caduta del Muro di Berlino.

La Stampa 12.8.17
Ogni giorno nel mondo 8 mila bambini muoiono di fame (prima dei 5 anni)
Un nuovo rapporto e una campagna di Save the Children: fino all’ultimo bambino
di Francesca Paci
qui
http://www.lastampa.it/2017/10/12/societa/una-fame-da-morire-mila-minori-di-anni-si-spengono-ogni-giorno-per-la-malnutrizione-FQQhjveuS4UA5D5KdEupCP/pagina.html

Il Fatto 12.10.17
Migranti e diritti umani Italia, strategia ambigua
Consiglio d’Europa, il commissario chiede spiegazioni sugli accordi presi in Libia
Migranti e diritti umani Italia, strategia ambiguadi Enrico Fierro

Le politiche sull’immigrazione del governo italiano e gli accordi con la Libia nel mirino del Consiglio d’Europa. È il commissario per i Diritti umani Nils Muiznieks a chiedere spiegazioni al ministro dell’Interno Marco Minniti. Il commissario giudica in modo positivo l’impegno dell’Italia nel salvare vite umane nel Mediterraneo e le politiche di accoglienza, ma lo Stato, sottolinea Muiznieks, ha il dovere di garantire i diritti umani.
“La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è chiara su questo dovere. Alla luce dei recenti rapporti sulla situazione dei diritti umani dei migranti in Libia, consegnandoli alle autorità libiche o ad altri gruppi li si espone a un rischio reale di tortura o trattamenti inumani o degradanti. Per questo motivo chiedo al governo italiano di chiarire il tipo di operazioni di sostegno che pensa di fornire alle autorità libiche nelle loro acque territoriali e quali salvaguardie l’Italia abbia messo in atto per garantire che le persone intercettate o soccorse da navi italiane in acque libiche non si trovino in situazioni contrarie all’articolo 3 della convenzione europea dei diritti dell’uomo”.
Fin qui le richieste contenute in una lettera del 28 settembre scorso, evidentemente scaturita da notizie e reportage pubblicati dai più importanti giornali internazionali. Ieri la risposta del ministro Minniti. “Mai navi italiane o che collaborano con la Guardia costiera italiana hanno riportato in Libia migranti tratti in salvo. L’attività delle autorità italiane è finalizzata alla formazione, equipaggiamento e supporto logistico della Guardia costiera libica, non ad attività di respingimento”, chiarisce il titolare del Viminale. “Ci tengo a sottolineare – aggiunge inoltre Minniti – che la più recente strategia italiana, condivisa e apprezzata a livello europeo, è imperniata anche, ma non solo, sul sostegno alle autorità libiche deputate al controllo delle frontiere e alla gestione dei flussi migratori, per favorire una gestione degli stessi e contribuire, obiettivamente, a ridurre il rischio di incidenti e naufragi, rischio che potrà essere azzerato solo con l’interruzione delle partenze”. Ed è proprio questo il nodo: fino a che punto reggono gli accordi ufficiali con le fragili autorità libiche, e quelli “ufficiosi” (ammessi pubblicamente dagli stessi capi delle bande di trafficanti, ma sempre smentiti dalla Farnesina) con le più potenti milizie, soprattutto quelle che si finanziano con il traffico di esseri umani e il contrabbandi di greggio?
A giudicare dalle ultime notizie arrivate dalla Libia sembra che la situazione si stia già sfaldando e che presto assisteremo a una ripresa degli sbarchi. Secondo le notizie riportate da Saleh Graisia, portavoce della “Sala operativa per la lotta all’Isis”, nei giorni scorsi migliaia di migranti sono rimasti intrappolati a Sabrata, a 70 chilometri da Tripoli, dopo essersi ritrovati in mezzo agli scontri tra opposte milizie.
Centinaia di morti e feriti, e migliaia di profughi rinchiusi nei centri di raccolta della milizia di Al Ammu, una delle principali organizzazioni del traffico di esseri umani.
Nei suoi magazzini, rivelano fonti governative libiche, sarebbero stati ammassati migliaia di profughi pronti a partire. Almeno 3.000 sarebbero stati rintracciati dall’ente che contrasta l’immigrazione clandestina e trasferiti nei campi di detenzione ufficiali. In questi centri, dove ancora scarso è l’intervento e il controllo dell’Onu, sono garantiti i diritti umani?
Il rispetto di questi standard, è la risposta di Minniti alla lettera di Nils Muiznieks “è costantemente al centro del dialogo dell’Italia con le autorità libiche, proprio per favorire forme operative di cooperazione sempre più strutturate con le agenzie delle Nazioni Unite”.

Il Fatto 12.10.17
Ministro, le consiglio “L’ordine delle cose”
di Andrea Segrè

Gentile ministro, Le scrivo a poche ore di distanza da una serata a cui credo Le avrebbe fatto piacere partecipare. Martedì sera all’Apollo 11 a Roma hanno partecipato a una proiezione del mio film L’ordine delle cose
una cinquantina di giovani funzionari del ministero da lei presieduto. Alla serata erano presenti anche tre giornalisti molto esperti di migrazioni: Amedeo Ricucci, Francesca Mannocchi e Alessandro Leogrande. Il dibattito è stato un momento di sana democrazia. Il mio film ha come protagonista proprio un funzionario impegnato nella lotta all’immigrazione irregolare dalla Libia. Sentire dialogare giornalisti competenti e funzionari dello Stato sulle domande che il film pone è stato un vero piacere, un momento di sano confronto politico e culturale.
Ci siamo interrogati sul significato di termini come diritto, controllo, gestione e sulla loro trasformazione di fronte al cambiamento epocale in atto. Era vivo tra noi un senso di responsabilità comune.
Credo fermamente che abbiamo l’obbligo tanto politico quanto intellettuale di non lasciare che l’opinione pubblica si distragga. È una questione di tenuta e sviluppo della nostra democrazia.
In questo mondo, dilaniato da crescenti diseguaglianze, ci sono migliaia di persone in viaggio per cercare di avere quello che non hanno e che a casa loro sanno bene non arriverà presto. Come rispondiamo ai bisogni e ai desideri contenuti in questo movimento? Come evitiamo che finiscano nelle mani della criminalità pronta a sfruttare quei bisogni?
Martedì sera si è parlato di tutto questo insieme a cinquanta giovani funzionari al servizio dello Stato. Con loro ho condiviso la speranza che sia presto possibile farlo anche con Lei.
Per questo La invito domenica sera alle 21.00 a vedere il film con noi a Roma al Palazzo delle Esposizioni.

Repubblica 12.10.17
Suicidio assistito in svizzera
Sono rimasto solo con la mia malattia scelgo la morte e vi lascio l’amore
In questa lettera le ragioni dell’addio Abbandonato dalle istituzioni ormai non ho più soldi per curarmi
Il memoriale dell’attivista per i diritti: “Amo la vita, perciò mi fermo qui . Vi chiedo una legge
di Loris Bertocco

FIESSO D’ARTICO (VENEZIA), 7 OTTOBRE 2017
SONO nato a Dolo il 17 giugno del 1958. Il 30 marzo 1977 — frequentavo l’Istituto tecnico, avevo 18 anni — ho avuto un incidente stradale: un’automobile mi ha investito mentre ero in ciclomotore. C’è stata una frattura delle vertebre C5-C6 e sono rimasto completamente paralizzato. Purtroppo fin da ragazzo ho avuto anche problemi di vista. Dal 1987 sono stato certificato ipovedente; dal 1996 cieco assoluto.
Tra le cose importanti della mia vita c’è stata una notevole sensibilità per i problemi sociali e politici. Nel 1990 sono diventato consigliere comunale per i Verdi per alcuni anni nella città di Mira. Negli anni 2004/2005 sono stato candidato sia alle elezioni della provincia di Venezia che per le regionali del Veneto. Il mio interesse per la politica continua ancora oggi tramite i social network e organizzando iniziative locali. Nel 1996 ho conosciuto Anamaria, che è diventata mia moglie nel giugno del 1999.
ABBIAMO ampliato e ristrutturato la mia vecchia casa; questo progetto si è potuto realizzare anche grazie all’aiuto dei miei genitori. Mio padre è mancato, mia madre ha avuto problemi di salute e non ha potuto più darmi la sua assistenza come nei periodi precedenti.
La situazione complessiva ha portato nel 2011 mia moglie a non riuscire più ad affrontarla. Il fatto che dovesse cercare faticosamente quasi da sola la soluzione ai problemi quotidiani l’ha portata ad una decisione estrema, cioè la richiesta della separazione. La mia situazione familiare non mi permette di avere sostegni: mia sorella ha una grave sclerosi multipla ed è invalida al 75 per cento, mia madre ha appena compiuto ottant’anni.
Dal 2005, ho percepito un contributo di mille euro dalla Regione Veneto per pagare parzialmente un’assistente che mi aiutava nei miei bisogni quotidiani e questo aiuto mi è stato di grande sollievo. Dal 2011 in poi, mancando il supporto di mia moglie e avendo bisogno di assistenza 24 ore su 24, ho tentato di accedere ad ulteriori contributi straordinari della Regione Veneto per casi di particolare gravità. Ho lottato con la Regione per quasi due anni senza ottenere il risultato che speravo. Ho avuto per un periodo due assistenti, pagandole grazie all’aiuto di amici e ad una festa per raccogliere i fondi. Questa situazione non poteva durare a lungo.
Non è facile trovare personale adeguato alla mia situazione. Le persone disponibili e adeguate, di fronte al carico di lavoro, hanno rinunciato. Ho così trovato soltanto personale improvvisato, che provava a fare il lavoro di cura pensando che potesse ridursi a piazzare il paziente davanti a un televisore o a metterlo a letto dandogli un’occhiata ogni tanto. Per non dire di peggio.
Mi è difficile immaginare il resto della mia vita in modo minimamente soddisfacente, essendo la sofferenza fisica e il dolore diventati per me insostenibili e la non autosufficienza diventata per me insopportabile. Sono arrivato quindi ad immaginare l’accompagnamento alla morte volontaria, che è il frutto di una lunghissima riflessione. Credo che sia giusto fare questa scelta prima di trovarmi nel giro di poco tempo a vivere come un vegetale, non potendo nemmeno vedere, cosa che sarebbe per me intollerabile. Proprio perché amo la vita credo che adesso sia giusto rinunciare ad essa. Il muro contro il quale ho continuato per anni a battermi è più alto che mai e continua a negarmi il diritto ad una assistenza adeguata.
Essendo impegnato nel movimento per la “Vita Indipendente”, che chiede per le persone con grave disabilità il diritto a un’assistenza completa e autogestita e finanziata con un fondo apposito dalla Regione, mi sono rivolto agli uffici competenti e, al tempo stesso, ho fatto presente la mia nuova situazione ai servizi sociali e al sindaco del mio Comune (Fiesso d’Artico, in provincia di Venezia). Ho anche sollecitato direttamente l’assessore regionale. È venuto a farmi visita, una volta, dopo molte mie insistenze e proteste per le mancate risposte, ma non è bastato. Non ha capito la mia situazione. Dopo la visita dell’assessore il mio Comune ha presentato alla Regione la richiesta di accedere ai fondi straordinari appositi previsti dalla delibera di giunta regionale 1177/2011. La Commissione di valutazione regionale, però, per ben due volte ha risposto picche. Avrei potuto fare ricorso al Tar, ma ormai ero deluso, stanco, sfinito dalle mille quotidiane difficoltà, di fronte a tanta incomprensione, per altro mai decentemente argomentata.
Perché è così difficile capire i bisogni di tante persone in situazione di gravità, perché questa diffidenza degli amministratori, questo nascondersi sempre dietro l’alibi delle ristrettezze finanziarie, anche quando basterebbe poco, in fondo, per dare più respiro, lenimento, dignità? A questo fine è necessario alzare la soglia massima relativa all’Impegnativa di cura domiciliare e fisica oggi fissata a mille euro, ferma al 2004 e quindi anacronistica e del tutto insufficiente per assicurare le collaborazioni indispensabili. Il mio impegno estremo, il mio appello, è adesso in favore di una legge sul “testamento biologico” e sul “fine vita”.
Vi sono situazioni che evolvono inesorabilmente verso l’insostenibilità. Sono convinto che se avessi potuto usufruire di assistenza adeguata avrei vissuto meglio la mia vita, soprattutto questi ultimi anni, e forse avrei magari rinviato di un po’ la scelta di mettere volontariamente fine alle mie sofferenze. Ora è arrivato il momento.
Porto con me l’amore che ho ricevuto e lascio questo scritto augurandomi che possa essere di aiuto alle tante persone che stanno affrontando ogni giorno un vero e proprio calvario. Ringrazio tutti coloro che mi sono stati vicini e che proseguiranno la battaglia per il diritto ad una vita degna di essere vissuta e per un mondo più sano, pulito e giusto.

Repubblica 12.1017
La scelta di Bertocco, morto ieri in una clinica svizzera. Era paralizzato da quarant’anni Nel suo testamento un duro atto d’accusa: “Sono stanco, lo Stato mi ha lasciato solo”
Suicidio assistito, la resa di Loris “Non ho soldi per pagarmi le cure”
di Concita De Gregorio

NELLA notte fra martedì e mercoledì nella mail a cui i lettori inviano le loro storie per la rubrica Invece ho ricevuto un memoriale lungo dodici pagine firmato da Loris Bertocco, 59 anni, veneto, tra i fondatori dei Verdi italiani e attivista in materia di ambiente, pace, diritti dei disabili. Nelle ultime righe, dopo aver ripercorso le tappe della sua esistenza, Loris comunica la decisione di mettere fine alla sua vita. Cosa che ha fatto ieri mattina alle 11, in Svizzera.
Insieme alla sua lettera c’era una breve nota firmata da Gianfranco Bettin e Luana Zanella, esponenti storici dei Verdi e amici di Loris. Mi sono messa in contatto per capire se ci fosse ancora, ieri mattina, la possibilità di parlarne. Non c’era. Loris era già in clinica e aveva attivato le procedure, accompagnato da persone in quel momento irraggiungibili per telefono. Non c’è stato altro da fare che attendere: la notizia della sua morte è arrivata poco dopo. Ho letto e riletto — Loris in quei momenti ancora in vita — il suo lungo ultimo scritto che vi propongo qui sotto, in forma purtroppo molto sintetica. La scelta di Loris Bertocco non è la prima né sarà l’ultima. Per la prima volta però, mi pare, così chiaramente la persona che sceglie di morire indica nella sua situazione economica le ragioni della scelta.
Ha chiesto più volte un sostegno pubblico, non l’ha avuto nella misura necessaria alla sopravvivenza. Racconta bene la trafila, inutile, avviata con le istituzioni. Dice: se avessi avuto qualcuno che mi aiutava forse non avrei preso questa decisione, almeno non adesso. Racconta anche, in un’altra parte del memoriale, di aver avuto dal 1985 il sostegno degli obiettori di coscienza al servizio di leva «che mi sono stati continuativamente affidati dal Comune di Fiesso per quattro ore al pomeriggio dal lunedì al venerdì. Fino al 2005, anno in cui è stato eliminato il servizio di leva e di conseguenza anche il servizio sostitutivo alla leva».
Loris era stato vittima di un incidente stradale a 18 anni. Investito da un’auto in motorino. Era completamente paralizzato, e cieco. Questo non gli ha impedito per decenni di condurre trasmissioni culturali, politiche e musicali nelle radio libere del Veneto. Di fare attività attraverso i social network. Di candidarsi alle elezioni, nel suo Comune e in Regione. Di avere una vita sociale intensa, di sposarsi con Anamaria. Di vivere, insomma, e di affrontare quel che la vita ti mette di fronte: la morte e la malattia dei genitori, le disillusioni sul lavoro, la tua propria salute che scema, la separazione dalla moglie, la solidarietà degli amici.
Loris Bertocco descrive con minuzia il calvario della sua inabilità, la gioia del suo lavoro e del suo impegno, la desolazione di fronte alla sordità dell’istituzione pubblica che gli nega i mezzi sufficienti per un’assistenza che gli avrebbe consentito di continuare a vivere e che lui da solo non poteva, economicamente, permettersi. Conclude con un appello perché si faccia in Italia una legge sulla morte degna ma quel che resta scritto nell’anima, delle sue parole, è il passaggio in cui dice: «Se avessi avuto i mezzi per pagare qualcuno che si prendeva cura di me non avrei forse deciso in questo senso».
Delle molte ragioni che possono spingere alla morte, abile o fisicamente inabile che ciascuno di noi sia, quella di non avere abbastanza soldi per permettersi di vivere è forse la più difficile da ammettere. Da accettare. Che la scelta di Loris non sia vana, facciamo in modo tutti.

Repubblica 12.10.17
Lo studio.
Il 74% dei domestici è straniero. E anche la maggioranza dei venditori ambulanti. Le professioni più qualificate, invece, restano appannaggio degli italiani L’ultimo rapporto della fondazione Leone Moressa sfata uno dei tanti luoghi comuni
Colf, pastori e manovali ecco perché i migranti non ci rubano il lavoro
di Vladimiro Polchi

ROMA. Antonij è macedone, ma da tempo fa il pastore sulle montagne abruzzesi. Delia è filippina, è arrivata in Italia 22 anni fa e da allora lavora come domestica a Roma. Dietro di loro si muove un esercito, quello dei lavoratori stranieri. Il loro fortino è protetto dalle mura di casa: tra i domestici gli immigrati sono infatti ben il 74%. Non solo. Tra i venditori ambulanti, gli stranieri superano gli italiani e il loro peso cresce di anno in anno anche tra pescatori, pastori e boscaioli (sono il 40%). E gli italiani? «Si sono spostati verso professioni più qualificate, liberando le fasce produttive più basse». Un esempio: nei campi i migranti fanno i braccianti, ma quasi il 90% degli agricoltori specializzati è italiano.
Che lavoro fanno dunque i padri e le madri degli oltre 800mila bambini in attesa dello ius soli? A rispondere è l’ultimo “Rapporto sull’economia dell’immigrazione”, a cura della Fondazione Leone Moressa, che sarà presentato il 18 ottobre a Roma. I numeri: dal 2008 al 2016 la presenza dei lavoratori stranieri si è fatta sempre più evidente, da 1,7 milioni si è passati a 2,4 milioni (+41%). Nello stesso periodo, il loro peso sul totale degli occupati è cresciuto dal 7,3% al 10,5%. Gli immigrati restano però occupati prevalentemente in lavori di media e bassa qualifica. Oltre un terzo degli stranieri (35,6%) esercita infatti professioni non qualificate, il 29,3% ricopre funzioni da operaio specializzato e solo il 6,7% è un professionista qualificato.
Quello che più salta agli occhi è la loro concentrazione in alcuni settori: in base agli ultimi dati della Moressa, il 74% dei collaboratori domestici è infatti straniero, così come il 56% delle badanti e il 51% dei venditori ambulanti. E ancora: il 39,8% dei pescatori, pastori e boscaioli è d’origine immigrata, così come il 30% dei manovali edili e braccianti agricoli. Gli stranieri restano invece esclusi dalle professioni più qualificate. «Un ambito particolarmente interessante per osservare le differenze – si legge nello studio – è quello dell’occupazione femminile. In Italia sono occupate 9,5 milioni di donne e di queste oltre 1 milione sono straniere. Tra le collaboratrici domestiche, le immigrate sono il 72%, tra le badanti il 58%. Le donne straniere non riescono invece ad accedere alle professioni più qualificate (insegnanti, procuratori, avvocati)».
L’analisi per settori aiuta a capire meglio. Nel commercio, oggi gli immigrati fanno i venditori ambulanti, mentre gli italiani gestiscono e pianificano le vendite, oppure occupano posizioni da commesso (dove superano abbondantemente il 90% del totale degli occupati). Nell’edilizia, i lavoratori stranieri sono 240mila, con un’incidenza del 17%, ma fanno professioni ben precise: sono il 30% degli operai edili e dei manovali, mentre sono loro quasi precluse professioni come ingegneri o architetti (dove gli italiani detengono il monopolio). E ancora: in agricoltura il 29% dei braccianti agricoli e il 39% dei pastori e pescatori è straniero. Gli agricoltori e gli operai specializzati sono invece nell’87% dei casi italiani. Quanto ai servizi alle persone, i migranti hanno il monopolio dei lavori domestici e dei servizi di cura, la loro presenza è invece irrilevante nei lavori di estetista.
Insomma, stando ai ricercatori della Fondazione Moressa, «la crescente scolarizzazione della popolazione italiana e la maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro ci hanno spinti verso professioni a più alta specializzazione. I dati Istat sul mercato del lavoro dimostrano che l’occupazione immigrata e quella autoctona in Italia sono parzialmente concorrenti e prevalentemente complementari».

Corriere 12.10.17
La riforma e la prova del budino
di Sabino Cassese

Attendiamo con il dovuto scetticismo il nuovo parto del Parlamento in materia elettorale. Si sono succeduti negli ultimi tempi due tentativi falliti, di reintrodurre la legge Mattarella e di scegliere un sistema simile (alla lontana) a quello tedesco. La nuova proposta (Rosato) contiene una formula per un terzo maggioritaria, per due proporzionale. Pone la soglia di sbarramento al 3 per cento. Consente pluricandidature. Prevede listini bloccati, senza preferenze. Non consente voto disgiunto tra liste e candidati. Principalmente, armonizza la formula elettorale delle due Camere.
L’argomento principale a favore della proposta è quello di rendere omogenei i sistemi elettorali della Camera e del Senato. Ma ci si può chiedere se, bocciando, nel dicembre scorso, il referendum costituzionale (che rendeva solo una delle due Camere elettiva), il popolo italiano non abbia voluto implicitamente conservare due Camere elette con sistemi diversi (come negli Stati Uniti), così costringendo le forze politiche a mettersi d’accordo. In sostanza, se il popolo italiano non riponga sufficiente fiducia in una sola forza politica, rendendo così necessario governare mediando e negoziando (come si è fatto per lunga parte della storia repubblicana).
Il sistema che viene ora proposto, in questo terzo tentativo, ha una sua logica, spingendo a coalizioni, di destra, di sinistra, o di altro tipo.
Se i 5Stelle ne risultano danneggiati, è per loro colpa, perché rifiutano orgogliosamente di coalizzarsi. Il sistema proposto consente di allearsi restando separati, fa rivivere una quota maggioritaria, semplifica il processo elettorale. Sono questi gli argomenti che dovrebbero utilizzare i sostenitori della proposta Rosato, non l’argomento contingente che la Corte costituzionale lasciò, nel pronunciarsi sulla legge Calderoli, alcuni punti aperti, che possono esser ricuciti solo dalla legge (o da un decreto legge approvato «in articulo mortis» dal governo e necessariamente convertito in legge dal Parlamento successivo).
Sembrano peccati veniali quelli relativi al modo di arrivare alla conclusione di questi sforzi (si è fatto abbondante ricorso alla fiducia per ogni tipo di decisione e l’alta maggioranza raggiunta in Parlamento, con una parte delle opposizioni, compensa l’atto di forza del governo) e alla modifica delle regole del gioco poco prima di cominciare il gioco (procedura poco corretta, ma non illegittima costituzionalmente).
Il mondo politico, in questi giorni, si chiede «con chi» si fa la nuova legge elettorale. C’è chi si scandalizza che raccolga i consensi del Partito Democratico, di Alternativa Popolare, di Forza Italia e della Lega. C’è, invece, da porsi una domanda più importante: questa legge elettorale sarà risolutiva? È una scelta fatta per durare, oppure dovremo ricominciare da capo?
Questa è la domanda più importante, ma è anche quella che nessuno si è posto e alla quale nessuno ha cercato di dare una risposta. È una domanda cruciale perché la formula elettorale serve a stabilire i modi in cui i voti si traducono in seggi, la maniera con la quale viene interpretata la volontà del popolo. Per questo motivo, le leggi elettorali sono patti tra società e Stato, tra Palazzo e Piazza, tra Paese reale e Paese legale, patti più forti dello stesso patto costituzionale. Le formule elettorali sono fatte per essere a lungo rispettate, tant’è vero che nei principali Paesi democratici del mondo sono molto longeve.
In Italia, questo patto viene continuamente rimesso in discussione. In 150 anni di storia unitaria abbiamo avuto 12 formule elettorali diverse, e il moto si è accentuato recentemente, perché dal 1993 vi sono state tre leggi elettorali (Mattarella, Calderoli, Renzi), e potremmo averne tra breve una quarta.
Per rispondere alla domanda (è fatta per restare?), bisogna considerare che la formula Rosato non risolve il problema della governabilità, o, meglio, assume che esso venga affrontato e risolto mediante coalizioni: il suo risultato è un sistema fondamentalmente proporzionale e non cambia molto rispetto alle due leggi diverse, per Camera e Senato (Calderoli e Renzi), ambedue corrette dalla Corte costituzionale. Per coloro che amano misurare la governabilità chiedendosi se la sera del voto il Paese saprà chi va al governo, la scelta in corso di discussione è deludente.
La conclusione è che l’unica «prova del budino sta nel mangiarlo». Voglio dire che, costringendo ad allearsi, questa formula elettorale potrebbe anche garantire la governabilità, a patto che le coalizioni siano stabili, che i patti siano duraturi, che gli accordi siano particolareggiati. Quando due società si alleano, quando una società ne acquista un’altra, quando due società si fondono, si passano mesi a fare «due diligence». La cancelliera Merkel non pensa di poter terminare prima di uno o due mesi il negoziato con i suoi possibili alleati, anche perché sa che dovrà trattare su più tavoli. Cristiano-democratici e socialdemocratici, negli ultimi governi tedeschi di coalizione (2005, 2009 e 2013), hanno stipulato «contratti di coalizione» molto dettagliati, che regolavano tutta l’attività di governo per la durata della legislatura (l’ultimo era di circa 130 pagine).
Qui sta la «prova del budino»: le nostre forze politiche, così divise al loro interno, saranno capaci di raggiungere accordi tanto precisi e lungimiranti, destinati a durare, senza continuare a suddividersi all’infinito al loro interno e, poi, a rompere gli accordi con i loro avversari–alleati?

Corriere 12.10.17
Il timore dei franchi tiratori
Rosato fa la conta: ci siamo
Nel Pd 11 asseni e sospetti su altri
La fronda di chi aspetta il voto segreto
di Monica Guerzoni

Undici assenti nel Pd. Sospetti su altri. La fronda di chi aspetta il voto segreto di oggi. Ma Rosato fa i conti e dice «Ci siamo». Malumori anche tra gli azzurri del Sud .
ROMA La grande paura si materializza dopo la prima fiducia, quando sul tabellone si illumina il 307 in corrispondenza dei «sì» e i dirigenti del Pd cominciano a compulsare i tabulati del voto. Chi ha strappato? Chi si è eclissato? Chi potrebbe tradire, oggi nel segreto dell’urna? «Più di 70 voti si sono persi per strada», lo provocano i giornalisti ed Ettore Rosato perde la pazienza: «Ma dove stanno? Solo undici dei nostri non sono venuti e sei hanno il certificato medico».
Pollastrini? «Malata da settimane». Cuperlo? «Lui non è malato e neanche Giorgis, ma la loro è una scelta politica». Marco Meloni? «Il certificato non serve, lo sanno tutti che non l’avrebbe votata». E via così, come a voler scacciare il fantasma dei franchi tiratori: «Ma quali 101 — esorcizza i brutti ricordi il capogruppo del Pd —. Noi possiamo perdere al massimo una quindicina di voti, che saranno compensati dai deputati di Mdp che stanno con Pisapia. Che fa Ciccio Ferrara, boccia la coalizione e si suicida?».
Il Transatlantico ondeggia come una nave che ha perso la rotta e in questo mare di facce smarrite, nessuno azzarda pronostici. «È una legge fatta per le poltrone — graffia Pippo Civati —. Chi di poltrona ferisce, di poltrona perisce». Lorenzo Guerini smentisce il cattivo presagio: «Nel Pd non ci sarà un solo franco tiratore». Dai capannelli dei deputati filtrano altri umori, altri timori. Enzo Lattuca, classe 1988: «Basta, mi sono stufato. Mi sa che non la voto. Dicono che ci sono i maldipancia perché ciascuno pensa alla poltrona, ma nessuno ricorda che con le preferenze avremmo dovuto lottare per conquistare il seggio». Ecco il rimpianto che potrebbe spingere anche diversi renziani a impallinare il Rosatellum per tornare al Consultellum.
Un orlandiano titubante: «In Toscana molti preferiscono le preferenze piuttosto che supplicare Bonifazi e Lotti». L’ex azzurro Maurizio Bianconi, in transito al Misto, si sfoga con Rosato e Giacomelli: «Siete dei democristiani di m... La ragion di Stato non può prevalere sulle regole». Il socialista Marco Di Lello tranquillizza i compagni, convinto che i franchi tiratori «saranno al massimo 50 tra Pd e FI». Ma nella testa di Rosato ronzano altre cifre: «Partiamo da 400 voti, ne bastano 90 per mandarci sotto». Per il relatore Lele Fiano l’asticella della grande paura è fissata a 120: «Tranquillo io? Boh, diciamo ottimista».
Tranquillo non è nessuno, in questo oceano di correnti contrapposte. La Lega non ha votato la fiducia, ma voterà la legge. Rosy Bindi ha votato la fiducia e non voterà la legge. Un verdiniano confessa l’inconfessabile: «Su due fiducie ne ho votata una, per non perdere 300 euro di diaria». Poiché il tempo è finito e la politica anche, ogni peone ragiona per sé. I dem del Nord sanno che nei collegi non si vince, tanto che Matteo Colaninno prevede «una catastrofe» e si prepara a tornare in azienda. Annagrazia Calabria ammette che sì, «c’è malumore tra gli azzurri del Sud», ma lei spera che non si tramuti in colpi a tradimento. Tra i dem di Roma e del Lazio è il panico. «Noi cuperliani andremo in ordine sparso», annuncia un sì «di testa mia» Ileana Argentin. Francesco Boccia, scuderia di Michele Emiliano, promette il suo voto e aspetta Renzi al confine della Puglia: «Se vuole prendere qualche seggio dovrà trattare con noi». E se per Piero Martino (Mdp) i dem sono «zombie che camminano», Beppe Fioroni non vede traditori all’orizzonte: «Prenderemo più voti della maggioranza e vorrà dire che abbiamo promesso troppi posti».
Ecco Lotti, Madia, Lorenzin. Franceschini riceve assiso su un termosifone, poi sprofonda su un divano con Orfini, Bindi e Guerini. Si scherza sui «101» e su un governo Renzi-Berlusconi. «Dove si terranno le riunioni? — strappa una risata Guerini —. Chiedete a Dario, maggioranza è dove c’è lui».

Repubblica 12.10.17
Legge elettorale, prime fiducie ok ma torna l’incubo franchi tiratori
L’incognita del voto segreto finale. Napolitano attacca il governo
TOMMASO CIRIACO

ROMA.
Come una fastidiosa zanzara, così lo spettro dei 101 si posa sulla spalla di Ettore Rosato in un giorno che dovrebbe essere di festa. «Io sono tranquillo e non temo il voto segreto finale. Lo dico davvero. Poi, oh, se davvero tutti insieme decidono di martellarsi sui piedi, io questo non posso prevederlo...». Eccoli, sempre loro, i franchi tiratori. L’incubo della legislatura, fino all’ultimo respiro. Per cappottare la riforma elettorale ne servirebbero così tanti – pare 127 – che nessuno vuol crederci davvero. «Approveremo la legge – prevede Lorenzo Guerini – Poi, certo, uno si affida sempre alla divina Provvidenza…».
L’appuntamento con la conta è per stasera, al massimo venerdì mattina. A Montecitorio sono in pochi a credere al ribaltone. Anche tra i nemici del renzismo: «Lo vedo difficile - vaticina Arturo Scotto – questi metteranno le microspie sotto i banchi e le telecamere sopra per evitare sorprese… ». Scherza, ma in effetti al Nazareno fanno e rifanno di conto, controllano ossessivamente le tabelle, marcano stretto i capicorrente. «Ce la facciamo, ce la facciamo», assicura la vicecapogruppo Alessia Morani. E comunque non c’è voglia di valutare lo scenario del cataclisma parlamentare: «Avrei capito su un emendamento - si fa forza Emanuele Fiano - ma penso che tutti si rendano conto che affossare la riforma nel voto finale sarebbe gravissimo. Riuscite a immaginare cosa potrebbe succedere? ». Un pasticcio infinito, anche se forse non la crisi di governo. «Anche se non dovessimo farcela - sintetizza Matteo Orfini - Gentiloni non avrebbe alcun obbligo di dimettersi».
Ieri, intanto, è stato il giorno del primo passo. Anzi, dei primi due, come le fiducie votate dalla Camera. Nella prima i sì sono 307, nella seconda 308. Numeri bassini, ma non così scarni da allarmare il Pd. In fondo, sulla carta il governo può contare su 283 deputati dem, 22 di Ap, 50 di Forza Italia e 19 leghisti: 58 oltre la soglia di maggioranza. A questi, vanno aggiunti oltre sessanta di centristi sparsi, facendo lievitare il vantaggio del “patto della riforma” a 121 voti. Poi però inizia il gioco ufficioso delle somme e delle sottrazioni.
Mdp, innanzitutto. I suoi 43 deputati sono schierati per il no, ma ieri una decina di pisapiani si sono incontrati con sguardo carbonaro dietro l’Aula. E hanno deciso di sfruttare il segreto del voto per non affossare una legge che gli regala una possibile coalizione con il Pd. Forza Italia, invece, è spaccata in due: oltre venti onorevoli meridionali – in particolare i campani – considerano il Rosatellum un suicidio collettivo e seguendo i dubbi di Gianni Letta voteranno contro. Ma è il Pd a fare la differenza. Il lettiano Marco Meloni è contrario alla riforma, Franco Monaco pure. Gianni Cuperlo non voterà la fiducia. E anche Rosy Bindi dirà no: «Io nella vita non ho mai fatto il franco tiratore, la mia contrarietà la dichiaro sempre. Voto la fiducia, non la legge». Gli orlandiani e deputati vicini a Michele Emiliano assicurano fedeltà alla linea del sì, ma le defezioni non mancheranno. Il dubbio più fragoroso è però quello pronunciato da Giorgio Napolitano. Il Presidente emerito interverrà al Senato contestando la fiducia sulla riforma: «Metterò in luce l’ambito pesantemente costretto in cui qualsiasi deputato oggi, o senatore domani, può far valere il suo punto di vista e le sue proposte, e contribuire così alla definizione di un provvedimento tra i più significativi e delicati».
Già, la sfida del Senato. Matteo Renzi ha chiesto di chiudere tutto entro ottobre, anche con la fiducia se necessario. Dovesse fallire il blitz, bisognerebbe fare i conti con le Regionali siciliane e il caos della legge di bilancio. E chissà come si ritroverebbe il Pd e il quadro politico dopo quel mese di fuoco. Per gestire la pratica si è già mosso Luca Lotti, assieme al suo pallottoliere. Quindici senatori dem sono già dati per persi, ma due pisapiani e tre ex grillini dell’Idv sono considerati arruolati.
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Timori anche per il Senato: il Pd vuole il via libera entro ottobre, ma 15 dem sono per il no
Maria Elena Boschi durante il voto di fiducia nell’aula della Camera FOTO: ©BENVEGNU’ GUAITOLI/IMAGOECONOMICA

Corriere 12.10.17
Movimento spiazzato dal blitz sulla riforma
di Massimo Franco

L’irritazione e la protesta sono inevitabili. Il ricorso alla fiducia voluto dal Pd e avallato da Forza Italia e Lega è, oltre a un gesto di debolezza, una forzatura che lascerà lividi nella prossima legislatura. Ma dietro la rabbia del Movimento 5 Stelle, da ieri in piazza a Roma davanti al Parlamento, si indovina il disappunto per essersi ritrovato spiazzato da una manovra imprevista. Si assiste alla ribellione di chi avrebbe voluto contribuire alla riforma; ha ritenuto, a torto, che non se ne sarebbe fatto nulla; e si ritrova con una legge che toglierà al M5S una sessantina di seggi.
L’altra sera, in tv, il candidato premier Luigi Di Maio ha ammesso la sorpresa per l’accelerazione targata Pd-FI-Lega. L’ha motivata col fatto che non si poteva immaginare un ennesimo strappo. In realtà, dopo il naufragio del patto di giugno con le altre forze politiche, si riteneva impossibile arrivare a un nuovo accordo. E i Cinque Stelle, dopo lo scarto di allora su un emendamento che fece fallire le trattative, si sono mossi su questo binario. Ora che si rivela un binario morto, la reazione è dura quanto scivolosa. Condividono con Mdp e con FdI un giudizio liquidatorio ma in realtà si sentono battuti.
Il fatto che la nuova legge sia avallata dalle opposizioni di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini evoca il cosiddetto «inciucio», non il «golpe» additato dagli esclusi. Una riforma si deve fare, e tocca al Parlamento. È preferibile approvarla con l’apporto non solo della maggioranza di governo, e sta accadendo. Che poi la riforma sia molto controversa e proposta con un metodo sconcertante, non può portare a demonizzarla. Il segretario dem Matteo Renzi replica ai critici definendo con levità la fiducia «una possibilità parlamentare».
Ma le critiche insistite del senatore a vita Giorgio Napolitano sul metodo scelto sono vistose: anche perché l’ex capo dello Stato aveva appoggiato le riforme di Renzi e il referendum perso disastrosamente il 4 dicembre. Il suo smarcamento gronda amarezza, e stride con l’incoraggiamento del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alla riforma. Per Mdp e Cinque Stelle si apre una fase non facile. Beppe Grillo può gridare a una manovra del «regime»per correggere un tripolarismo che, invece, difficilmente sarà scalfito.
Il pericolo di essere di nuovo schiacciati sulla «piazza» è palpabile. Riemerge la prospettiva di vedere prevalere le componenti estremiste che in qualche modo erano state messe in ombra dalla candidatura di Di Maio. Lo scontro sulla riforma elettorale esaspera la situazione e le resuscita. Cosa peggiore, come effetto collaterale potrebbe incrinare i rapporti con il Quirinale di Mattarella, verso il quale finora si è mostrato grande rispetto. Di Maio e Alessandro Di Battista vorrebbero che il capo dello Stato non firmasse la legge. Sanno che non sarà così. E dovranno calibrare bene i toni.

Il Fatto 12.10.17
Legge elettorale, non ci sarà tempo neanche per la consulta
di Luisella Costamagna

Sono arrabbiata. Perché sulla nuova legge elettorale, che dovrebbe essere di tutti gli italiani per rappresentarli al meglio, è stata posta la fiducia. Preparata da una parte, verrà votata da una parte. Di nuovo. Sono arrabbiata perché, come ricordato da Zagrebelsky e Travaglio sul Fatto, una raccomandazione del Consiglio d’Europa dice che non si devono modificare le leggi elettorali nell’ultimo anno prima delle elezioni: noi lo facciamo a pochi mesi dal voto. Non ci saranno i tempi per ricorrere alla Consulta e nel caso – probabile – che sia incostituzionale, lo sapremo quando sarà già stato eletto un altro Parlamento illegittimo. Di nuovo.
Sono arrabbiata perché, nonostante la Corte abbia più volte sollecitato le preferenze, per ristabilire il rapporto di rappresentanza tra elettore ed eletto, con questa legge avremo – di nuovo – un Parlamento di nominati: gli italiani potranno scegliere direttamente solo un terzo dei loro rappresentanti, gli altri due terzi spetteranno alle segreterie di partito.
Sono arrabbiata perché, dopo aver detto sempre no alle coalizioni, Renzi #cambiaverso – non è la prima inversione a U, né sarà l’ultima – e apre alle coalizioni. Ma farlocche, visto che non ci sarà premio di maggioranza, né obbligo di candidato premier e programma comune, per cui ogni partito ‘alleato’ potrà presentarsi col proprio simbolo, leader e programma. “Un’accozzaglia” – sempre Renzi, ricordate? – finalizzata a raggranellare il maggior numero di voti, vincere le elezioni e poi liberi tutti.
Sono arrabbiata perché dal mantra dell’Italicum “così la sera stessa delle elezioni si saprà chi ha vinto”, ora si passa a – ancora Zagrebelsky – “come trafficare la mattina dopo”. Ed è probabile che, la mattina dopo, Renzi e Berlusconi mollino gli “estremi” (sinistra da un lato, Lega dall’altro) e facciano un bel governo di larghe intese “contro i populismi”. Loro che sono maestri di populismo.
Sono arrabbiata perché invece di pensare alla legge migliore per rappresentare gli italiani oggi, si pensa solo al dopo: “Eh ma dopo nessuno avrà la maggioranza”. Quindi facciamo le leggi sulla base dei sondaggi, che poi regolarmente sbagliano (vedi il No al referendum al 60%)? Ennesima dimostrazione di totale mancanza di fiducia negli elettori.
Sono arrabbiata perché questo Rosatellum 2.0 è in realtà un Fascistellum (titolo del Fatto di ieri) o Inciucium 10.0, visti i tanti, troppi, inciuci cui abbiamo dovuto assistere negli anni, e di cui questa legge promuove solo l’ultima e più sfacciata versione. Oppure Arrostellum 5S, essendo scritta anche e soprattutto contro il M5S, l’unico che non si presenterà in coalizione. Invece della legge migliore per rappresentare gli italiani, si fa quella che permette di vincere o, meglio, fa perdere gli altri.
Sono arrabbiata perché si sarebbe potuti andare al voto con le leggi uscite dalle bocciature della Consulta “zoppicanti” (per colpa di chi le ha fatte, ovvero gli stessi che ora fanno questa), ma pur sempre meglio di questa vergogna. E sono arrabbiata perché di fronte a tutto questo il capo dello Stato, l’unico che potrebbe e dovrebbe intervenire, si chiude in un silenzio-assenso.
Sono arrabbiata perché temo che la mia rabbia e quella di molti cittadini resterà inascoltata. E faranno come vogliono.

Il Fatto 12.10.17
Legge elettorale, Boldrini doveva fermare la fiducia
di Silvia Truzzi

In questo spazio abbiamo più volte ripetuto che la legge elettorale, tra tutte le ordinarie, è quella che più si avvicina alla Costituzione. Non l’abbiamo scritto per vezzo, ma per le ragioni che seguono, vergate nero su bianco anche dal Regolamento della Camera dei deputati, diventato sostanzialmente carta straccia in queste ore così com’era accaduto due anni fa con l’incostituzionale Italicum. Ecco perché Laura Boldrini avrebbe dovuto fermare questo scempio.
Intanto è la Costituzione, prima di tutto e sopra tutto, che specifica, all’articolo 72, che la procedura normale di esame e approvazione diretta da parte della Camera “è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale”. Prescrizione recepita agli articoli 92 e 96 del regolamento della Camera, dove si vieta l’approvazione in Commissione perché l’aula deve discutere articolo per articolo queste le leggi. Decidendo di porre la fiducia, il precetto viene completamente vanificato. Il trattamento speciale delle leggi elettorali (e costituzionali) si evince anche dal fatto che i deputati, quando intervengono su questi temi (articoli 39 e 85), hanno a disposizione più tempo per discutere. C’è poi la questione più tecnica della fiducia. Il voto (articolo 49) è palese, salvo che per alcune materie in cui è necessariamente segreto (“sulle persone”), e per altre in cui è segreto a richiesta di almeno 30 deputati: tra queste c’è la legge elettorale. E qui arriva l’articolo 116, che al comma 4 ci racconta in quali casi è esclusa la spada di Damocle della fiducia: tra questi ci sono gli “argomenti per i quali il Regolamento prescrive votazioni per alzata di mano o per scrutinio segreto”, (ovvio, visto che la fiducia si vota a scrutinio palesissimo). Come hanno spiegato benissimo i giuristi ( per esempio Massimo Villone sul manifesto) non si può affermare che il divieto di fiducia opera solo nei casi in cui il voto è necessariamente segreto. La domanda dunque è: perché è stato deciso di mettere la fiducia sulla legge elettorale, nonostante tutto? Si dice – ovunque – per “evitare il Vietnam parlamentare”. Ma quale Vietnam? Sul tavolo c’erano circa duecento emendamenti, cioè un numero assolutamente gestibile. E non vale l’argomento della vicinanza alla scadenza elettorale: 15 giorni in più o in meno non avrebbero certo fatto la differenza. La decisione, forzando il regolamento, è stata presa per aggirare una difficoltà politica contingente (i malumori interni ai partiti che sostengono la legge).
A questa forzatura avrebbe dovuto opporsi la presidente della Camera: siede su quello scranno esattamente per garantire la dignità dell’Aula, vigilando sulla correttezza, anche formale, dello svolgimento dei lavori, non per far declinare i segretari parlamentari o le ministre al femminile. Possiamo sperare che Pietro Grasso si faccia venire qualche scrupolo maggiore, anche se tira una pessima aria: la scelta di mettere la fiducia dimostra (oltre all’incoerenza di chi nell’esecutivo per mesi ha ripetuto di non voler mettere becco nella legge elettorale perché materia squisitamente parlamentare) una miopia assoluta, l’assenza di una anche minima empatia verso i cittadini. Ma i partiti (Renzi in primis) pagheranno nelle urne gli strappi, le forzature e gli sgambetti: la distanza degli elettori aumenta in maniera proporzionale alla scorrettezza con cui si aggirano le regole democratiche. Sarà un clamoroso boomerang.

Il Fatto 12.10.17
“Questo è il colpo di Stato degli sconfitti del 4 dicembre”
l “civici” di Montanari e Falcone, Articolo 1, Rifondazione, gli ex Sel e anche i pisapiani
Per D’Alema e Bersani “democrazia in pericolo”
di Fabrizio d’Esposito

Alle spalle del palco c’è uno storico albergo ed è quando l’ultimo sprazzo di sole si perde in una finestra al piano più alto che Anna Falcone impugna il microfono e attacca con un tono urlato e deciso allo stesso tempo: “Questo governo è stato già bocciato il 4 dicembre. È un colpo di Stato ai danni dei cittadini”. La voce vibra. È tesa: “I veri democratici siamo noi. Siete finiti. Mai più patti con chi distrugge la democrazia. La maggioranza del Paese siamo noi e porteremo al voto chi crede nella democrazia e nella Costituzione”. Il soggetto è sottinteso: il Pd di Matteo Renzi che va di nuovo a nozze con il partito del Pregiudicato, Forza Italia. Applausi. Ovazione. Sventolano le bandiere rosse. Articolo 1, Sinistra Italiana, i civatiani di Possibile e pure Rifondazione comunista. Poi parla il costituzionalista Gaetano Azzariti.
Sono le sette di sera. Nella piazza del Pantheon, a Roma. La sinistra antirenziana è unita, almeno questa volta. La manifestazione contro il Rosatellum finisce con Bella Ciao. Mezzo migliaio di persone canta. Qualcuno improvvisa balli e girotondi. Pier Luigi Bersani va via ed è circondato dalle telecamere. Ma è un militante il protagonista di un duetto che segna l’attesa di un popolo orfano: “Pier Luigi guidala tu questa macchina. Sei tu il leader più amato. Eddai Pier Luigi guidala tu”. Bersani resta di spalle e arrossisce finanche la pelata. Però trova la battuta: “Grazie ma preferisco spingere”. A una decina di metri il cronista si intrattiene con noti parlamentari bersaniani: “Ma vi rendete conto che questa roba con un ticket Bersani-Falcone può arrivare al dieci per cento?”. “Certo che lo sappiamo ma provate a convincerlo voi, Pier Luigi non ne vuol sapere, dice che lui ha già dato”. Nel frattempo Bersani mena Renzi e B.: “Il primo voto di fiducia è stato di 307 voti a favore. Ricordo che Berlusconi con 308 salì al Colle. Se Forza Italia in qualità di opposizione, se è opposizione, non ricorda questo vuol dire o che è smemorata o che c’è un incoccio in corso”.
Falcone, Bersani. Quindi: D’Alema, Vincenzo Visco, Angius, Fratoianni e Nichi Vendola, D’Attorre, Stumpo, Leva, Civati, Speranza, Migliavacca, Gotor, Fornaro, Guerra, Epifani solo per citarne alcuni. La manifestazione è convocata per le 17 e 30. Il primo ad arrivare è Massimo Paolucci, eurodeputato dalemiano e napoletano. È lui ad accogliere i compagni arrivati all’Umbria, con i vessilli di Articolo 1.
Dieci minuti più tardi appare Massimo D’Alema, in jeans, giacca e cravatta. Scatta il crocicchio a uso e consumo dei media. “Questa legge è un segno di irresponsabilità che logora la democrazia”. Per la sinistra antirenziana i rischi riguardano la tenuta del sistema. Poco dopo anche Bersani dice: “È una curvatura pericolosa del processo democratico”. Torniamo a D’Alema: “Gentiloni è più mite del suo predecessore, ma nella sua mitezza dipende da Renzi”. Gli chiedono: “È lei il regista di tutto?”. “A scrivere questa stupidità sono i cretini”. “Ma è lei il serial killer della sinistra come dice Occhetto”. D’Alema: “Bene abbiamo finito, arrivederci”. L’ex premier staziona in piazza per un po’: alle 18 e 30 ha un’iniziativa con Maurizio Landini.
Tra le bandiere ce n’è una che attira l’attenzione più di tutte. È quella dei “Marziani in movimento”. “Ci ispiriamo alle politiche del sindaco defenestrato”. Il predecessore di Raggi al Campidoglio: Ignazio Marino detto il Marziano. I civici di Falcone e Montanari sono quelli del Brancaccio. Ed è per questo che sfilano le insegne di Rifondazione, guidate dal segretario Maurizio Acerbo. Ma la sorpresa sono i pisapiani al gran completo. A cominciare da Ciccio Ferrara, Smeriglio e Furfaro.
Uno spettatore ha una curiosità estrema, al limite del sadomasochismo: “Mi scusi ma lei sa per caso come hanno votato quelli del Centro democratico di Tabacci?”. “Mah, qui vedo i pisapiani”. “Ma Tabacci però non c’è”. Il comizio è aperto da Roberta Agostini di Articolo 1. Si alternano costituzionalisti e parlamentari: Domenico Gallo, Giulio Marcon, Andrea Pertici, Maria Cecilia Guerra. Quest’ultima è capogruppo di Articolo 1 al Senato. Dice: “Questa legge è l’Imbrogliellum. Hanno messo una fiducia della paura, una fiducia autoritaria. A tutte queste schifezze diciamo no”. Indi Falcone e Azzariti, già citati.
Colpo di Stato, democrazia in pericolo, rischio autoritario. La sinistra italiana e antirenziana riparte da qui. Questioni più serie del tormentone Pisapia.

Il Fatto 12.10.17
Affinità e divergenze tra i compagni Achille e Giorgio
di Marco Palombi

Achille Occhetto, ultimo segretario del Pci e primo del Pds, sfortunato ideatore dell’espressione “gioiosa macchina da guerra” riferita alla coalizione con cui riuscì a perdere le elezioni nel 1994, iconizzato in una gran battuta (“lei non sa chi sarei stato io”) degna di Marcello Marchesi, è tornato prepotentemente nel dibattito pubblico: agenzie, giornali, persino tv (ancorché al mattino). C’è qualche analogia, va detto, tra il ritorno sulla scena del compagno Akel e il ritrovato attivismo di Giorgio Napolitano, anche se la prospettiva politica è, per così dire, opposta: se il denso pensiero del presidente emerito si muove attorno a una priorità che riassumeremmo nelle parole “fottere Renzi”, Occhetto non ha abbandonato la stella polare ideologica che lo guida da più di vent’anni, cioè “fottere D’Alema”. I due ex virgulti di Botteghe Oscure, a pensarci bene, sono ormai come una foto e il suo negativo: se da un lato Napolitano userebbe persino l’odioso D’Alema pur di eliminare, metaforicamente, quel maledetto democristiano toscano che gli ha ammazzato le riforme costituzionali (il suo lascito al Paese, secondo l’interessato); quell’altro – che si oppose alla nascita del Pd e predica ancora una “costituente della sinistra” – si prenderebbe in casa pure quel destrorso di Renzi pur di uccidere, metaforicamente, quello spocchioso coi baffetti che lo cacciò in malo modo dalla segreteria del Pds. Questo per dire: non è bello quando finalmente si può tornare a parlare di cose che interessano tutti?

il manifesto 12.10.17
Renzi regala il megafono a Grillo
di Norma Rangeri

Il sentimento di «rabbia, nausea e sconforto», come scrive Grillo sul suo blog, è l’altra faccia della medaglia che l’indecoroso spettacolo del voto di fiducia sulla legge elettorale provoca nei cittadini. Naturalmente quelli rimasti con la voglia di votare, sempre meno numerosi perché «forza astensionismo» è il partito che oggi, insieme al M5S, affronta la campagna elettorale con il vento in poppa.
Avranno ragione da vendere Grillo e i suoi sostenitori a indicare in Renzi e Berlusconi i mandanti di una legge contro il M5S.
Ma questa è anche una legge elettorale contro la sinistra che cerca di rimettersi in campo tra mille difficoltà. Liste civiche dell’1 per cento e accozzaglie vendute come coalizioni sono favorite mentre è tutta in salita la strada di chi propone una lista di alternativa, povera di mezzi (e di idee forti: il superticket non basta) quanto ricca di scissioni e di personalismi.
Certo non è solo la legge elettorale a penalizzarla. Il tessuto sociale è lacerato, il rapporto stesso tra democrazia e rappresentanza è un campo di battaglia.
Ne abbiamo avuto conferma proprio in questi giorni quando il secessionista catalano Puigdemont, nel suo discorso al parlamento, ha buttato esplicitamente sul tavolo del conflitto spagnolo la democrazia giocandola contro la Costituzione («C’è democrazia anche al di là della costituzione»).
Nel nostro paese con il referendum abbiamo messo in sicurezza la Carta senza tuttavia risolvere la crisi del consenso e della rappresentanza. Annullare la discussione, il conflitto e la battaglia sulla legge elettorale se da una parte acuisce la crisi politico-parlamentare, dall’altra suggerisce fughe plebiscitarie e ridà il megafono a chi urla «sono tutti uguali», specialmente tra le giovani generazioni.
Il capo chino di Anna Finocchiaro, ministra dei rapporti con il parlamento, mentre legge, tra le urla dell’aula, la richiesta del governo di porre la fiducia sulla legge elettorale è l’immagine cupa e imbarazzante di un fallimento politico. Da intestare innanzitutto al rottamatore di Rignano.
Il segretario del Pd voleva scassare la Costituzione a colpi di «o me o il diluvio», «se perdo lascio tutto». Obiettivo fallito. Ma è riuscito invece pienamente nell’impresa di annullare il parlamento soffocandolo con il record di due leggi elettorali ottenute a colpi di voti di fiducia. Quel che non ha potuto cancellare ha tentato di svilirlo.
Del resto la democrazia oggi non si abbatte col cannone ma sfibrandone le istituzioni rappresentative.
La legislatura finisce lasciando sul terreno le macerie di una democrazia sempre più afasica e cingolata, e azzoppando definitivamente la reputazione di chi ci governa, a cominciare dal presidente del consiglio. Gentiloni ridotto al ruolo di mazziere in continuità con il peggior renzismo, quello delle forzature istituzionali del referendum e dell’Italicum.
L’annullamento del parlamento è brutale al punto che persino l’ex capo dello stato Napolitano fa sentire la sua voce. Anche lui, proprio lui che nel corso del suo doppio mandato ha più volte forzato la mano sugli assetti politici e di governo, oggi protesta contro la scelta di questa nuova camicia di forza della fiducia usata contro il parlamento. A volte succede che i discepoli superino i maestri.
Chi cerca di costruire una lista e una forza politica che non chiede di moltiplicare i confini, che difende gli anelli deboli della catena sociale, che lotta per l’uguaglianza dei diritti va contro il vento di una campagna elettorale che si trova davanti una missione impossibile. Il passaggio è stretto, il rischio dell’irrilevanza molto concreto. Dovrebbero essere altrettante, valide ragioni per accettare la sfida.

il manifesto 12.10.17
Fiducia, Renzi logora Gentiloni
Legge elettorale. Il segretario del Pd scarica sul potenziale rivale la responsabilità dello strappo sul Rosatellum: è discutibile, a me la questione non appassiona. Passano con il minimo dei voti le prime fiducie alla camera. Tra stasera e domani il voto finale a scrutinio segreto. Ma i grillini spostano la battaglia al senato: bloccheremo l'aula. Ci sarà anche Napolitano
di Andrea Fabozzi

ROMA «La fiducia è prevista dal diritto parlamentare. Si può discutere dell’opportunità, io non sono particolarmente appassionato al tema. Il Rosatellum non è la nostra legge elettorale, è solo un po’ meglio del Consultellum». Non parla il presidente il Consiglio che ha messo la fiducia sulla legge elettorale, parla il segretario del Pd che lo ha spinto a farlo. Nel silenzio prolungato di Gentiloni, Renzi incassa subito i bonus che accompagnano la fiducia. Il governo si è logorato ed è più difficile ipotizzare un finale lungo della legislatura; il presidente del Consiglio ha improvvisamente perso quel patrimonio di pacatezza e moderazione che ne faceva un possibile leader non divisivo.
Per il segretario Pd sono due ottimi vantaggi collaterali del Rosatellum, una legge studiata per rovesciare i sondaggi e consentire a Pd e centrodestra di scavalcare il Movimento 5 Stelle. Rendendo più facili le larghe intese post voto tra Renzi e Berlusconi.
A questo punto manca poco per il bersaglio grosso del segretario, ma è ancora presto per dire che la missione legge elettorale è compiuta. Al senato si annunciano passaggi più difficili e giornate anche più incandescenti.
Con il governo praticamente assente dall’aula (solo un sottosegretario), a sottolineare l’entusiasmo dell’esecutivo, ieri la camera ha votato le prime due fiducie sul testo del Rosatellum. Entrambe sono passate con un quasi record negativo: 307 sì la fiducia sull’articolo 1 e 308 sì la fiducia sull’articolo 2. In dieci mesi il governo Gentiloni ha fatto peggio una sola volta, a fine luglio sul decreto vaccini. Forza Italia e Lega non hanno partecipato al voto ma torneranno provvidenzialmente in campo per il voto finale previsto a scrutinio segreto.
I numeri delle fiducie, per quanto bassi, non autorizzano a farsi illusioni sull’eventualità che la legge venga affondata. Le votazioni di oggi già scontano una quota di deputati Pd dissidenti che non hanno risposto alla chiama (Cuperlo, Pollastrini, Monaco) e solo Rosi Bindi ha annunciato il suo no nel voto finale.
Franchi tiratori ce ne saranno sicuramente in tutti i gruppi, anche in quello dei democratici. Ma per avere successo dovrebbero essere un centinaio, visto che oltre cento voti in più sono quelli annunciati tra berlusconiani, salviniani e piccole formazioni di centrodestra.
Stamattina si comincia con la terza fiducia sul terzo articolo della legge elettorale, poi dal pomeriggio gli emendamenti agli articoli 4 e 5, non coperti dalla fiducia perché considerati dalla maggioranza pro Rosatellum non esposti alle rischiose votazioni segrete.
Almeno un emendamento, però, ed è l’unica modifica che il relatore concede all’aula, sarà approvato per correggere una norma del voto all’estero – non quella che d’ora in poi consentirà anche i residenti in Italia di candidarsi nelle circoscrizioni estere (pare interessi a Verdini). Gli ordini del giorno e le dichiarazioni di voto finali allungheranno di certo i lavori fino a sera. I grillini vorrebbero arrivare a venerdì e hanno organizzato una veglia di protesta al calar del sole.
Sono già occasioni di campagna elettorale, generosamente offerte dal Pd. Dal punto di vista pratico non cambia nulla, visto che la legge arriverà comunque in prima commissione al senato martedì prossimo. E da lì partirà una nuova corsa.
La maggioranza al senato è più ristretta, ma comunque con Forza Italia e Lega sufficientemente solida. Non sono previsti voti segreti, con l’eccezione di quelli sulle norme che riguardano minoranze linguistiche – una di queste però è proprio il famoso emendamento sul Trentino Alto Adige che ha affondato il «Tedeschellum» a giugno. La fiducia si giustifica soprattutto con la volontà del Pd di approvare definitivamente la legge prima dell’inizio della sessione di bilancio (i primi di novembre).
Una o più fiducie potrebbero essere presentate come la reazione al prevedibile ostruzionismo della sinistra e dei 5 Stelle. Soprattutto i grillini già annunciano l’intenzione di bloccare l’aula di palazzo Madama (prima di tutto c’è la legge sui vitalizi, dicono, stravolgendo completamente le priorità della maggioranza). Avranno maggiori margini di intervento visto che in questo caso la discussione parte da zero e non ha i tempi contingentati della camera.
C’è anche Giorgio Napolitano che annuncia un intervento polemico sulla norma che prevede l’indicazione del capo della forza politica, norma che adesso lo vede contrarissimo. L’ex presidente è contrario anche alla fiducia, che pure incoraggiò ai tempi dell’Italicum. Se non ci sarà discussione in aula, Napolitano potrebbe intervenire in commissione.
Per Renzi è ormai un avversario dichiarato e ieri, senza citarlo, lo ha attaccato per quello che disse contro il «Tedeschellum». Dimostrando una volta di più di appassionarsi alla legge elettorale.

Repubblica 12.10.17
La sinistra cerca il leader: “Bersani è il più forte”
di Giovanna Casadio

L’ALTRA PIAZZA. LA PROTESTA CONTRO IL ROSATELLUM SI TRASFORMA IN PROVA DI UNITÀ TRA MDP, SI E CIVATI DOPO L’ADDIO DI PISAPIA
ROMA. «Beh, c’è abbastanza gente…», sussurra Guglielmo Epifani nell’orecchio di Pierluigi Bersani rapidamente calcolando la densità dei manifestanti in piazza del Pantheon a Roma. Non è l’affollata piazza grillina a poche centinaia di metri da lì, davanti a Montecitorio. Ma la protesta della sinistra contro la fiducia sulla legge elettorale riesce e soprattutto è la prova generale della lista rossa. Sventolano bandiere di Mdp, di Sinistra italiana, persino dei “marziani” che sostennero l’ex sindaco Ignazio Marino, di Rifondazione (che fa la staffetta con la manifestazione dei 5Stelle), di Possibile, il movimento di Pippo Civati. Presente anche un drappello di parlamentari di Campo progressista, che però nella lista rossa non intendono starci. Salvo ripensamenti di Pisapia, che a parole in piazza anche Massimo D’Alema si augura ci siano e che Bersani esprime. «Questo è il posto di tutti, vorrei Pisapia e tantissimi altri, vorrei che si avesse più cura della nostra democrazia», dichiara l’ex segretario dem davanti alle telecamere.
Sotto il palco, lontano da D’Alema — che è al centro della piazza — Bersani la fa da leone. La piazza della sinistra — perso Pisapia — è in cerca di un leader. Ma nella roulette di nomi costruiti a tavolino, colui che continua ad avere popolarità non artefatta è proprio l’emiliano Pierluigi dalle metafore surreali come il tormentone pre-scissione dal Pd della mucca in corridoio che nel partito di Renzi nessuno più vedeva. Pure Roberto Speranza, il “delfino” bersaniano e coordinatore dei demoprogressisti, ammette: «Certo Bersani è il più forte in popolarità e consensi». È il leader ritenuto affidabile e responsabile anche quando dice che alla manovra economica bisogna votare no. Perché aggiunge: «Non faremo comunque venire la troika». Sa di usato? In un sondaggio interno di Mdp è risultato largamente in testa. In grado di schivare le accuse renziane di massimalismo e di riedizione di una sinistra minoritaria anche perché è stato il ministro delle liberalizzazioni.
«Posso fare un selfie?». Gli chiedono in piazza. Qualcuno gliene fa vedere di già fatti in altre occasioni. A un giovane: «Tu qui non avevi la barba e io avevo i capelli che non ho più». A un lavoratore: «È vero dovevamo rompere sul Jobs act». Ai cronisti sulla fiducia sul Rosatellum: «Gentiloni non me lo sarei aspettato. Aveva detto che non sarebbe intervenuto. Ha perso credibilità, uno con credibilità avrebbe detto “non ci sto”». E ancora: «Con 307 voti Berlusconi salì al Quirinale... Non si è mai vista un’opposizione che dice “comprendiamo la fiducia” ». Dal palco Anna Falcone parla di «colpo di Stato» e invita a mobilitarsi nelle urne. Applaudita. Un tweet di Tomaso Montanari contro la presidente della Camera, Laura Boldrini — vicina a Pisapia — infiamma i commenti. Costituzionalisti e capigruppo sul palco. Passa Nichi Vendola e stringe mani. Insieme in prima fila Laforgia, Scotto, Civati, Fratoianni.

La Stampa 12.10.17
Accordo fatto fra Hamas e Al-Fatah, palestinesi di nuovo uniti
L’annuncio al Cairo, ma il movimento islamista non depone le armi
di Giordano Stabile
qui
http://www.lastampa.it/2017/10/12/esteri/accordo-fatto-fra-hamas-e-alfatah-palestinesi-di-nuovo-uniti-MUS2HtsKbsgZdyf9Bgqu7H/pagina.html

La Stampa 12.10.17
Austria al voto, l’estrema destra sulla strada del debuttante Kurz
Il leader popolare, 31 anni, è il favorito, ma i nazionalisti lo tallonano
di Letizia Tortello

In vetta ci è salito veramente. Piccozza, scarponcini, luce sulla fronte per affrontare la scalata nel buio delle tenebre. In pochi mesi ha riportato il Partito popolare austriaco dal terzo ad un saldo primo posto e domenica alle elezioni, se non farà errori clamorosi, Sebastian Kurz diventerà cancelliere, oltre che il più giovane leader del mondo a soli 31 anni.
I sondaggi lo danno in testa con 33 punti. Sei di vantaggio sull’avversario della destra ultranazionalista di Heinz-Christian Strache, capo del Partito della libertà, l’Fpö. Alla guida dell’Austria, dunque, dalla prossima settimana potrebbe esserci un giovanissimo conservatore, politico volitivo che vuole mandare l’esercito alle frontiere della Ue e rimpatriare i rifugiati. Che promette di pensionare la Grande Coalizione con i socialdemocratici e sulla crisi dei migranti condivide l’idea di fondo del collega populista: portare l’immigrazione a zero. Pur con toni più morbidi. Se la vittoria di Kurz pare a un soffio, a pochi giorni dal voto i riflettori sono puntati sulle alleanze per formare il governo, e proprio Strache, che lo tallona con il 27%, potrebbe guadagnarsi un posto da vicecancelliere. Un ritorno alla coalizione nero-blu del 2000, quando conservatori e ultranazionalisti erano al potere insieme in Austria. Uno spostamento di nuovo a destra del Paese, che promette di sfidare le politiche di accoglienza di Merkel e Macron.
«Fino a quando non saranno sicure le frontiere dell’Austria dovremo proteggerle», va ripetendo Kurz. E così, da fine luglio i soldati austriaci sono schierati al Brennero. Anche se il risultato più significativo che il candidato dell’Övp rivendica è la chiusura della rotta balcanica, a marzo 2016, «organizzata da soli con i Paesi vicini», con il collega ungherese Orban, uno smacco all’epoca per Frau Merkel. Tanto che il leader dei cristiano-democratici, quel giovane politico che ha preso in mano il partito a maggio 2017 dopo 10 anni di agonia, l’ha svecchiato e ritagliato sulla sua figura da star, facendolo impennare di 10 punti nei sondaggi, viene accusato dagli avversari di essere un «principe senza cuore», un «Orban dai toni gentili». Il prossimo passo per Kurz dovrebbe essere il blocco della rotta mediterranea, per aiutare i migranti nei Paesi d’origine.
Lui va dritto per la sua strada e riempie palazzetti da 10 mila persone con giovani e anziani, uomini e donne adoranti. Spopola su Facebook con 708 mila follower in un Paese da 8,7 milioni di abitanti. Incassa l’endorsement di vip come l’ex campione di Formula Uno Niki Lauda, ma anche rifiuti come quello dell’alpinista Reinhold Messner. Twitta in continuazione e posta sui social video emozionanti, come quello in cui a mani nude scala la vetta della montagna e all’alba, arrivato in cima, guarda l’Austria non senza una buona dose di retorica nazionalista del tipo «la nostra è la terra più bella del mondo e dobbiamo riportarla in vetta». Un messaggio agli elettori, per un Paese che vuole tornare a contare di più in Europa: «La Ue deve riacquistare la sua forza nelle grandi questioni e retrocedere dove i singoli Stati possono decidere meglio», è l’idea di Kurz.
Impavido, gelido, impassibile, sempre pronto all’agguato, come quando, nel settembre 2016, fa il suo ingresso alle Nazioni Unite e annuncia che il suo Paese si sarebbe unito ad altri Stati membri per presentare una risoluzione che vieti l’uso di armi nucleari. L’Ican, l’organizzazione che ha appena vinto il Premio Nobel per la Pace, lo portava come un leader da prendere a esempio. Senz’altro, come dicono gli austriaci, non gli manca la «Machtbewusstsein», la coscienza del proprio potere, e per questo spesso è paragonato a Macron. Ma la sua carriera è stata ben più veloce di quella del presidente francese: Kurz, figlio di un’insegnante e di un ingegnere, a 24 anni era già sottosegretario. All’epoca se ne andava in giro con la «Geil-o-mobil», la «macchina figa» e le donnine semivestite sopra per attirare il voto dei giovani. A 28 mette la maschera del serio, lascia gli studi di Giurisprudenza per fare il ministro degli Esteri. E questa domenica «Wunderwuzzi», il mago bambino, come è soprannominato, potrebbe diventare cancelliere per il «Nuovo partito popolare» che ha preso il suo nome.

il manifesto 12.10.17
Catalogna, la china pericolosa della resa dei conti
Crisi spagnola. Si è giocato finora col fuoco. Non si poteva pensare che per dichiarare la propria indipendenza da uno Stato democratico europeo fosse possibile fabbricarsi una legge ad hoc. Né, dall’altra parte, che si potesse rispondere solo con la polizia per ridurre l’impatto del referendum
di Aldo Garzia

Si va alla resa dei conti tra Madrid e Barcellona. E potrebbe essere drammatica, senza precedenti nell’Europa del secondo dopoguerra. Per evitarlo, occorre far prevalere politica e negoziato da una parte e dall’altra.
Al discorso di Carles Puigdemont, presidente del governo autonomo catalano di martedì sera che dichiarava in stand by il processo di secessione, tuttavia non escludendo una trattativa, la risposta è stata ieri pericolosamente inflessibile.
Allo stato attuale, un negoziato sembra assai difficile ma non impossibile. Dichiara in parlamento invece il premier Mariano Rajoy, ringalluzzito sulla linea dura: «O ci spiegate se avete dichiarato l’indipendenza e cosa vuol dire trattare o scatterà in vigore l’articolo 155 della Costituzione».
Quello che revoca tutti i poteri alle comunità regionali: da quelli politici a quelli amministrativi e di ordine pubblico (la Catalogna ha perfino una sua polizia), ridando tutti i poteri al governo centrale. Per questo Mariano Rajoy ha dato l’ultimatum di cinque giorni a Barcellona perché fermi la sua iniziativa «sleale».
E facendo questo gesto fa intendere di avere già messo in allarme gli apparati statali e di certo non dà credito a possibili soluzioni politiche o di riscrittura delle regole di uno Stato che già ora ha più nazionalità al suo interno.
Su questa linea si sono allineati i due partiti che sostengono l’esecutivo di Rajoy, Ciudadanos e Psoe (quest’ultimo in cambio di una vaga promessa a riformare la Costituzione in senso più federalista su cui si era impegnato l’ex premier socialista Zapatero).
Questa scelta potrebbe spingere alla creazione di una nuova maggioranza di governo nazionale per gestire una situazione eccezionale dagli sbocchi imprevedibili (potrebbe essere il harakiri definitivo per il Partito socialista).
Se dovesse entrare in vigore quel dispositivo costituzionale, infatti, la situazione potrebbe degenerare con tentativi di arresto dei dirigenti catalani, blocco economico dei conti pubblici, intervento di presidio dell’esercito spagnolo.
Sanguinari scontri di piazza – finora miracolosamente evitati- certo da evocare, dovrebbero essere messi purtroppo nel conto. Si è giocato finora col fuoco. Non si poteva pensare che per dichiarare la propria indipendenza da uno Stato democratico europeo – anche con i limiti del patto del 1978 – fosse possibile fabbricarsi una legge ad hoc che permetteva un referendum e accentuare le proprie posizioni fino al punto di rottura.
E che dall’altra parte si potesse rispondere solo con la polizia per ridurre l’impatto del referendum dello scorso 1 ottobre. Come ha ricordato lo stesso Artur Mas, predecessore di Puigdemont alla presidenza catalana, colui che ha cavalcato con abilità l’onda nazionalista negli ultimi anni, la Catalogna non è pronta al passo decisivo.
Non ha approntato un proprio sistema fiscale e previdenziale, non ha riconoscimenti internazionali, non dice quali sarebbero i rapporti con Madrid, non ha stabilito quali sarebbero diritti e doveri di chi dovesse scegliere la nazionalità catalana.
Insomma, tutto ciò che definisce un’entità statale indipendente è stato sottovalutato e nascosto dietro lo sventolare delle bandiere catalane.
Anzi, a colpire è proprio la debolezza politica di contenuti di chi propugna l’indipendenza della Catalogna.
Siccome la secessione è una cosa da prendere molto sul serio per chi la fa e per chi la subisce, l’indeterminatezza catalana è davvero sconcertante. Questa debolezza dovrebbe essere la leva su cui agire con un negoziato.
Fa anche riflettere l’atteggiamento della componente di sinistra della Cup, Candidatura di unità popolare, che sostiene il governo moderato e nazionalista di Puigdemont: avrebbe voluto una dichiarazione immediata di indipendenza tale da chiudere ogni spazio di discussione in nome della vocazione repubblicana repressa nella guerra civile degli anni Trenta.
Resta un mistero come si faccia a convivere con chi, come il Partito democratico di Catalogna (ex Convergenza democratica) di Puidgemont, quelle radici le vede addirittura nel 1714, epoca della conquista da parte dei Borboni di questa porzione di terra spagnola.
La posizione di Podemos, ribadita ieri in parlamento dal suo leader Pablo Iglesias che ha insistito perché si apra il necessario dialogo, appare la più ragionevole, seppure la più difficile. Come ha dichiarato più volte Ada Colau, sindaco di Barcellona: «No all’indipendenza, no alla repressione, sì a un negoziato e sì a una soluzione politica». Ma è difficile che Barcellona rinunci a seguire la sua strada e che Madrid rinunci alle sue minacce.

Il Fatto 12.10.17
“La Costituzione scritta nel ’78 è superata”
Franco Cardini - Lo storico ritiene che sia in atto un processo di cambiamento difficile da ignorare
di Andrea Valdambrini

La storia è un flusso in perenne mutamento e il caso Catalogna ne è un esempio. Fa emergere la crisi di un’Europa che ha tradito la promessa di riuscire a darsi una struttura politica. Questo il parere sulla crisi catalana di Franco Cardini. Storico del medioevo, studioso dell’epoca delle crociate, cattolico, Cardini è stato per molti anni professore di Storia medievale a Firenze, direttore di ricerca all’Ehess di Parigi e Fellow della Harvard University.
La partita fra Madrid e Barcellona è ancora aperta: cosa ci insegna la vicenda catalana?
I catalani hanno espresso un’esigenza, per quanto difficile da portare a compimento. Madrid ha risposto richiamandosi alla legalità e all’assetto della Costituzione del 1978, che è stata scritta – si deve ricordare – da un falangista come Adolfo Suarez (primo premier del dopo Franco, in carica dal 1976 all’81, ndr). Voglio dire: le costituzioni mica sono il Vangelo, si possono cambiare. Puigdemont ha fatto capire esattamente questo: l’ordine del Paese così come è stato stabilito nel ’78 è superato.
Lo Stato spagnolo così configurato non va più bene?
La Spagna, come tutti gli altri Stati nazione, rappresenta un prodotto storico: quante altre nazioni precedenti sono state eliminate nel processo di unificazione del regno di Madrid? E non è successo lo stesso anche per la Francia, che nel suo percorso ha raso al suolo le molte identità regionali? E così non è stato anche per l’Italia? Ecco perché penso che la risposta alla domanda indipendentista non possa essere quella della repressione: l’unica via per evitare la violenza è il dialogo. Anche perché, ignorando il problema, tra qualche anno l’indipendentismo catalano sarà diventato sempre più forte.
Lo Stato-nazione è entrato in crisi e il caso catalano ne è il detonatore?
Certo, dato che gli Stati non sono entità astratte, ma frutto di un processo di cambiamento continuo nel corso dei secoli. Per questo assistiamo oggi a una riaggregazione di comunità che erano state forzate in unità coniate dal potere e dalla forza. Non vedo nulla di sorprendente nel processo che abbiamo sotto gli occhi.
È l’Europa, nella sua dimensione sovranazionale, l’elemento che rende possibile una frammentazione?
A quale Europa ci riferiamo? Io sono cresciuto con l’idea di Europa messa in atto dai tre politici che l’hanno plasmata: Adenauer, Schuman e De Gasperi. Ci veniva detto: facciamo un’unione doganale, sul modello dello Zollverein della Prussia del XIX secolo. Il resto seguirà. Il problema è che dopo non si è visto nulla, se non la moneta unica e l’attenzione all’economia. Non si è vista e non si vede la dimensione politica dell’Europa. Mi sembra proprio che abbiamo il diritto di sentirci presi in giro.
Accanto a questo processo di disgregazione (o riaggregazione) in Europa emerge un altro processo. Mi riferisco a un ritorno identitario delle destre europee – da FN in Francia a AfD in Germania fino a Ukip in Gran Bretagna – pronte a innalzare la bandiera identitaria del cristianesimo contro la minaccia islamica. Che ne pensa?
Le destre non liberali, fin da quando sono nate, hanno sempre cercato di coagularsi intorno a un’idea forte. Prima quella dello Stato-nazione, appunto, che agli inizi del ventesimo secolo si contrapponeva ai principi di classe del marxismo. Poi Hitler negli anni 30 fa il giochetto di trovare un capro espiatorio di tutti i mali nell’ebraismo internazionale. Ecco, mutatis mutandis lo stesso giochetto che gli orfanelli dell’antisemitismo fanno oggi.

Il Fatto 12.10.17
Londra “supera” pure maschi e femmine
Il prossimo censimento - Non sarà più obbligatorio barrare la casella: “Discrimina i trans”
di Massimo Fini

Nel prossimo censimento inglese previsto per il 2021 non sarà più obbligatorio barrare la casella maschio/femmina perché secondo l’Ufficio per le Statistiche è “irrilevante, inaccettabile o intrusivo, particolarmente nei confronti dei partecipanti trans”. Ciò ha provocato una furibonda reazioìne delle femministe. La scrittrice Germaine Greer ha affermato: “Continuiamo a sostenere che le donne hanno conquistato tutto quello che c’era da conquistare. Ma non hanno conquistato neppure il diritto a esistere”. Le femministe sono vittime di se stesse. Perché quello che hanno conquistato loro non dovrebbe valere anche per i transgender e per altri sessi o per le persone asessuate?
Non hanno anch’essi “il diritto di esistere”? Alla luce del principio della parità di genere è giusto eliminare il sesso almeno nei documenti, in attesa che sia eliminato anche nella realtà. La stessa protesta avrebbero dovuto elevarla anche i maschi ma, si sa, quelli che oggi hanno meno diritto a esistere sono proprio i maschi, il solo affermarlo è già indice di una sospetta omofobia. Sono i maschi i veri reietti, i colpevoli ‘senza se e senza ma’, tant’è che il ‘femminicidio’ è considerato più grave dell’omicidio di un maschio, come se l’omicidio non fosse un omicidio e basta, a prescindere dal sesso della vittima. E non è nemmeno tanto vero che l’omicidio di donne da parte di uomini, per gelosia o qualche altro sentimento, sia così enormemente superiore al suo inverso. Le percentuali sono 60/40.
È tipico della nostra società, in nome di un’astrazione che sta diventando sempre più asfissiante, pensare di poter eliminare la realtà con le parole, con le leggi e anche con diktat del tutto arbitrari oltre che ridicoli.
Secondo la nuova Carta deontologica della Fnsi, il sindacato dei giornalisti, nel caso di un ‘femminicidio’ (mentre, chissà perché, non vale il contrario: anche le donne uccidono sia pur in modo meno violento e più subdolo, si vada a vedere il bellissimo film di Sofia Coppola L’inganno dove il mezzo per uccidere è il veleno) non si potrà dire che è avvenuto per “gelosia, amore, raptus, follia, passione”, ma si dovrà parlare solo di “volontà di possesso e di annientamento” (autocastriamoci da soli). Insomma pulsioni che albergano da sempre, nell’essere umano, non hanno più diritto di cittadinanza. Non esistono. Aggiungiamoci anche l’odio severamente proibito dalla legge Mancino.
Non esistono più i maschi, le femmine, i sentimenti, le passioni, insomma tutto ciò che ha fatto la storia del mondo almeno fino a oggi. Nella previsione, come anticipa il sequel di Blade Runner, che noi si diventi degli androidi cioè un misto fra uomo e macchina, in attesa che la macchina l’abbia vinta definitivamente e la sia fatta finita una volta per tutte con quel soggetto ingombrante, troppo concreto e troppo complesso, e per niente astratto, che è l’essere umano.

Corriere 12.10.17
Xi Jinping, il «leader dai sei volti»: è lui il futuro imperatore globale?
di Guido Santevecchi

In vista del Congresso del partito comunista, il nuovo Timoniere rafforza il suo potere
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PECHINO C’erano diverse sedie vuote ieri nel Plenum del Comitato centrale del partito comunista cinese. Tra membri effettivi e alterni avrebbero dovuto essere in 376, ma una trentina, dal 2013, sono caduti nella rete della grande campagna anticorruzione condotta da Xi Jinping. E nelle ultime settimane un’altra dozzina di alti dirigenti sono stati messi sotto inchiesta o già arrestati. Così, con qualche buco nei ranghi, il Comitato centrale si è riunito per mettere il timbro sui documenti per il 19° Congresso del partito che si apre il 18 ottobre a Pechino. Un evento che si svolge ogni cinque anni e ridisegna il vertice del potere.
Tutto è già stato deciso in segreto: nuova nomenklatura, linea per i prossimi cinque anni, un ulteriore rafforzamento del leader che è già il più potente che la Cina abbia mai avuto dai tempi di Mao. Nella costituzione comunista dovrebbe essere inserito «Il Pensiero di Xi Jinping», un passo verso lo «Xiismo».
Ma chi è quest’uomo di 64 anni, dal 2012 segretario generale, nonché presidente della Repubblica popolare e della Commissione centrale militare? Finora ha mostrato almeno sei volti.
1 È stato un «giovane istruito» che nel 1968, a 15 anni, fu mandato con migliaia e migliaia di coetanei dalle città a zappare in campagna «per essere rieducato dai contadini più poveri», come ordinava la Rivoluzione culturale. Xi allora si portò dietro valigie piene di libri: i contadini che lo aiutarono a trascinarle pensarono che dentro ci fosse un tesoro. Erano volumi che lo studente-lavoratore divorava la notte, dopo aver spalato letame: lesse di tutto, da Victor Hugo a Hemingway e tre volte di seguito il Capitale di Marx.
2 Il Principe rosso: Xi è figlio di un compagno di lotta di Mao. I discendenti dei rivoluzionari della prima ora sono la nobiltà della Repubblica popolare, predestinati al potere o almeno al successo negli affari. Il futuro presidente, tornato a Pechino dopo sette anni nei campi, invece di divertirsi come fecero molti coetanei usciti dall’incubo maoista, si lanciò alla ricerca del potere politico, convinto che gli spettasse. E così ha scalato la gerarchia.
3 Il cacciatore di tigri: sotto la sua guida la battaglia anticorruzione ha punito in questi primi cinque anni 1,34 milioni di piccoli burocrati («mosche da schiacciare» le chiama Xi) e anche 280 alti funzionari a livello ministeriale o superiore («tigri da stanare», nella visione del leader). Le foto di diversi dirigenti eliminati ora sono esibite in una grande mostra a Pechino.
4 Il comandante nazionalista: Xi ama farsi vedere in mimetica tra i soldati. Sta riformando l’esercito per farne «una forza capace di combattere e vincere una guerra moderna». Ha anche messo a disposizione dell’Onu 8 mila Caschi blu cinesi, preparando il terreno a una nuova politica più assertiva della Cina in campo internazionale.
5 Lo statista visionario: aiutato anche dall’instabilità dell’America di Trump, ha lanciato a Davos la sua idea di ri-globalizzazione; ha offerto la Nuova Via della Seta per allargare i commerci. Usa metafore affascinanti e colte, tipo «in tempi di tempesta, non bisogna rifugiarsi nel porto del protezionismo, ma navigare nel mare aperto della globalizzazione». Cita anche i classici occidentali, compreso Dante e Petrarca.
6 Il Presidente di tutto: ha accumulato una dozzina di cariche, alcune di organi statali costituite appositamente per lui, come il Gruppo guida dell’approfondimento comprensivo delle riforme. Si è conquistato il titolo di «hexin», che significa più o meno «nucleo centrale e cuore» del Partito e quello di «lingxiu», che fu solo di Mao ed evoca una grandezza di comando anche spirituale. E poi c’è la propaganda quotidiana, che per avvicinare il presidente al popolo rilancia l’espressione «Xi Dada», che vuole dire Zio Xi, e lo presenta mentre mangia ravioli da pochi soldi in una trattoria tra la gente.

La Stampa 12.10.17
Pechino vieta pettegolezzi e turisti per l’incoronazione di Xi Jinping
Regole e misure straordinarie nella capitale blindata a sei giorni dal Congresso del Partito comunista Scontato un secondo mandato al leader con più poteri dai tempi di Mao. Ma la sfida è l’economia
di Francesco Radicioni

«In questo periodo non possiamo accettare stranieri». Il buttafuori del locale nella zona universitaria di Pechino lo dice con tono dispiaciuto ma fermo. Il motivo? La capitale cinese si prepara a ospitare il 19esimo Congresso del Partito comunista cinese in mezzo a misure di sicurezza al limite del paranoico. Sui social cinesi, Zhang Feifei lamentava che persino una lettiera per gatti comprata online non le sarà consegnata prima di fine mese. Tra le misure draconiane prese in questi giorni dalla polizia di Pechino c’è anche il divieto di spedire liquidi e polveri. Nelle scorse ore Airbnb, il popolare portale di room-sharing, ha annunciato la cancellazione di tutte le prenotazioni nel raggio di 20 chilometri dalla Città Proibita. In fondo, il segretario del Partito comunista della capitale, Cai Qi, era stato chiaro nel chiedere il «120 per cento» di impegno per «mantenere l’ordine sociale e la sicurezza informatica, eliminare tutti i fattori destabilizzanti e i pettegolezzi politici». Le autorità cinesi non vogliono problemi che possano disturbare l’inizio dell’importante appuntamento politico che si tiene ogni cinque anni. Il Congresso del Partito comunista aprirà i suoi lavori il 18 ottobre e a Pechino arriveranno 2287 delegati in rappresentanza degli 89 milioni di iscritti. Un mondo variegato: nella Grande Sala del Popolo affacciata sulla Tienanmen si riuniranno i vertici dello Stato, dirigenti delle imprese pubbliche, lavoratori e contadini, ma anche celebrità come la campionessa olimpica Zhao Yunlei. Il partito fondato a Shanghai nel 1921 da un piccolo gruppo di rivoluzionari marxisti, si trova oggi a dover gestire le contraddizioni e le complessità sociali della seconda economia del mondo. Tra le molte speculazioni che circolano tra gli analisti, c’è una sola certezza: il 19esimo Congresso consoliderà ulteriormente il potere del presidente Xi Jinping. Fin dal suo arrivo al vertice della Repubblica popolare nel 2012, il «nucleo» della leadership cinese è riuscito ad accentrare nelle sue mani un potere immenso, che - secondo alcuni - non si vedeva fin dai tempi di Mao Zedong.
Oggi Xi Jinping è alla guida di dodici commissioni nazionali ed è anche probabile che il Congresso inserirà un riferimento al suo pensiero in Costituzione. Scontato, quindi, che Xi Jinping sarà confermato per un secondo mandato. Parte della leadership cinese però cambierà: cinque dei sette membri del Comitato Permanente del Politburo - vero gotha del potere di Pechino – hanno raggiunto l’età per la pensione e dovranno essere sostituiti. Nel gioco delle correnti interne al partito, è probabile che la maggior parte di questi posti sarà occupata da personaggi vicini a Xi. Tra loro potrebbe anche esserci il nome di chi nel 2022 prenderà il timone della Repubblica popolare. Non tutti, però, sono convinti che alla scadenza del secondo mandato, Xi Jinping si metterà da parte, seguendo una tradizione che nell’ultimo quarto di secolo ha istituzionalizzato e governato la transizione di potere. Un segnale dell’intenzione di forzare le regole potrebbe essere visto nel destino di Wang Qishan, potentissimo zar della lotta alla corruzione, che secondo alcuni rimarrà al suo posto nonostante che – a 69 anni – abbia raggiunto l’età del pensionamento.
Nella relazione che Xi Jinping leggerà davanti ai delegati al Congresso riuniti nella Grande Sala del Popolo sulla Tienanmen, il presidente cinese potrà rivendicare i successi ottenuti nel corso del primo mandato e farà l’elenco delle sfide che attendono la Cina. L’economia continua a correre, nonostante il rallentamento rispetto agli anni della crescita a due cifre. Allo stesso tempo Pechino ha gettato le basi per la trasformazione del proprio modello economico, puntando sempre più su innovazione e produzioni ad alto valore aggiunto. Rimangono, però, resistenze e difficoltà nel governare la transizione economica, nel rendere più efficienti le imprese di Stato, ad avviare le riforme e a mettere ordine nel settore finanziario. Sotto la presidenza di Xi Jinping anche la politica estera cinese è diventata più assertiva: in questi anni Pechino ha inaugurato la prima base logistica all’estero, sfidato le istituzioni finanziarie internazionali con la creazione dell’Asian Infrastructure Investment Bank, gettato le basi del grande progetto economico e strategico di nuove Vie della seta per collegare la Cina all’Europa attraverso l’Asia centrale e l’Oceano indiano.

Corriere 12.10.17
Perché la Russia rende onore a Mr Kalashnikov e alla spia Philby
di Sergio Romano

Quando Vladimir Putin incontrò Henry Kissinger a Pietroburgo nella prima metà degli anni Novanta, gli confessò di essere stato, in epoca sovietica, un agente segreto. Sembra che Kissinger, con un sorriso malizioso, abbia detto: «Tutte le persone per bene hanno cominciato nei servizi segreti. Anch’io». Ma il caso di Kim Philby, recentemente onorato a Mosca con una esposizione in cui appaiono parecchi documenti sottratti ai servizi britannici, è alquanto diverso.
Philby divenne comunista nel 1936, mentre studiava a Cambridge, e fu da allora, per quasi trent’anni, una «talpa» sovietica nelle file del MI5 (la quinta sezione dell’Intelligence militare britannico). Non fu il solo studente di Cambridge folgorato dal credo marxista. Apparteneva a un gruppo di 5 (gli altri erano MacLean, Burgess, Blunt e Cairncross) e fu quello che, tra l’altro, rivelò ai sovietici una operazione occidentale per la formazione in Grecia di militanti albanesi che avrebbero cercato di rovesciare il regime comunista. Quando attraversarono la frontiera, gli albanesi (circa 300) furono catturati e passati per le armi. Se questo massacro gli fosse stato rinfacciato, Philby avrebbe risposto che stava combattendo nel campo nemico per vincere la grande battaglia del comunismo contro il fascismo. Quando fu scoperto e riuscì a raggiungere Mosca nel 1963, fu trattato dapprima con una certa sospettosa diffidenza, ma divenne poi un «eroe della grande patria russa» e un «generoso combattente della Guerra fredda». Ha avuto, insieme ad altre decorazioni, l’ordine di Lenin, un solenne funerale, una targa nella Lubjanka (la sede moscovita dei servizi), il ritratto in una galleria d’arte statale e, oggi, una mostra in suo onore. Grandi omaggi vengono tributati in questi giorni anche a un altro personaggio dell’epoca sovietica. È Michail Kalašnikov, ideatore di un fucile che è rappresentato con il suo creatore in un monumento di sette metri e mezzo inaugurato a Mosca nello scorso settembre. Se gli inventori venissero giudicati per l’uso che viene fatto delle loro invenzioni, qualcuno potrebbe ricordare al sindaco di Mosca che il «kalashnikov», negli ultimi decenni, è stato l’arma preferita di jihadisti e terroristi dei più vari colori. Per i russi, tuttavia, anche se adottato dopo la fine della Seconda guerra mondiale, è diventato a posteriori il simbolo dell’eroismo dell’Armata Rossa nelle battaglie di Stalingrado e Kursk, in quelle della Prussia Orientale e della conquista di Berlino. Philby e Kalašnikov servono a uno stesso scopo: dimostrano che nel passato della Russia non vi sono soltanto la Rivoluzione d’Ottobre (un evento per cui Putin non sembra provare alcuna simpatia), Stalin, la carestia ucraina, le grandi purghe, i trasferimenti forzati di intere popolazioni. Nel passato russo vi sono anche la lotta contro il fascismo e la Grande guerra patriottica contro Hitler.
In tutto questo vi è naturalmente un po’ di retorica, ma nessuno Stato può sopravvivere senza trarre dal proprio passato qualche motivo di orgoglio.

Il Fatto 12.10.17
Il vino amaro e la rabbia. Vi racconto mio padre”
La figlia: “Persona, non personaggio”
di Alessandro Ferrucci

Una sera di tre anni fa Claudia Endrigo dà forza a un pensiero, un sogno emarginato da troppo tempo: si mette davanti a un tavolino e butta giù una pagina scritta, qualche ricordo di suo padre Sergio; così un’immagine fissata nella mente, improvvisamente diventa prosa, non solo parole in musica. “Da lì ho ritrovato tutti gli articoli dedicati a papà, li ho letti e studiati, ho capito anche quando le frasi non erano sue, ma solo attribuite. Quindi ho contattato gli amici del tempo, compreso un compagno del liceo e tutti coloro i quali hanno lavorato con lui”. Risultato: una biografia bella, intesa, in alcune righe cruda, non sembra neanche scritta da una figlia per quanto, a volte, è distaccata nell’analisi di un artista, un uomo in grado di scrivere pagine importanti della musica autoriale italiana, ma un po’ dimenticate.
Ha tolto molti filtri, ha parlato a fondo dei momenti difficili.
Perché papà non avrebbe voluto un santino o un racconto agiografico. Lui non si nascondeva, non è mai stato un personaggio, ma ha preferito restare una persona.
Che persona era?
Di una dolcezza e una sincerità imbarazzanti, oltre a essere nevrotico con un passato complicato da digerire.
Questo passato era così presente?
Sì. E solo da pochi anni si è sdoganata l’idea di analisi e di depressione; un tempo no, non se ne parlava, sembrava una malattia della quale vergognarsi. L’ho sempre sostenuto: lui ha fatto parte di quella categoria di persone, per le quali si diventa i peggiori nemici di se stessi.
Vasco Rossi canta: “Non sono gli uomini a tradire ma i loro guai”.
Spesso è così, poi c’è chi li vuole affrontare e chi no.
Il libro è servito a sciogliere dei nodi tra voi due?
No. Lui con me era introverso e timido, ma nonostante questo ho ricevuto amore assoluto, specialmente durante la mia infanzia. A volte ha rinunciato alla carriera per la famiglia.
Quando?
Nei momenti d’oro: d’estate doveva andare in tournée, rifiutava per passare i mesi con la famiglia. Noi contavamo più del suo “io”.
L’immagine è quella di artista ombroso.
E non lo era, ma se ti attaccano un’etichetta, è complicato toglierla. Lui diceva: “Non sono come Gianni Morandi: lui ha un viso tale che sembra sorridere anche quando è serio”.
Suo padre ne soffriva?
Sempre nel suo periodo d’oro, c’era Alighiero Noschese che in prima serata su Rai1 si mascherava da mio padre e cantava: “Per fare la bara ci vuole il morto”, e circondato da ragazze a lutto. Una sera papà chiamò Bernardini (celebre organizzatore musicale) e gli disse: “O Noschese la pianta o gli spacco la faccia”.
Risultato?
Smise.
Lei racconta che Endrigo non amava esibirsi in pubblico.
Allora un parametro poteva essere Adriano Celentano, la sua forza, il perenne movimento; mentre papà sembrava ingessato: era solo la sua natura.
Da ragazza ascoltava le sue canzoni?
No, l’ho scoperto da grande. Il mio primo disco è stato Rimmel di De Gregori: da lì mi sono illuminata e ho intrapreso un percorso verso papà, fino a rispolverare pezzi che lui aveva quasi abbandonato.
Tipo?
Le parole dell’addio, all’inizio canta: “Sono false sono di Giuda, sono false come il fumo, che si perde nel vento. Sanno di vino amaro”.
Di vino si parla nel libro…
Era parte della sua fragilità: la sera stappava e iniziava, solo la sera. Quando è stata chiara la natura del bere, e dopo l’ischemia, d’accordo con il dottore, di nascosto abbiamo iniziato a dargli degli antidepressivi e ha smesso.
La prefazione è di Baglioni.
Perché più volte ha raccontato: senza artisti come Endrigo forse non avrei mai intrapreso questa professione.
Finita l’ultima pagina, cosa ha provato?
Una mancanza ancora più forte. Il libro non ha avuto un effetto catartico.
La sua canzone preferita?
L’ultima che ha scritto, quando canta: “Altre emozioni arriveranno, te lo prometto amico mio”.