Repubblica 11.10.17
Amos Oz. Nipoti: miei, vi insegno a diventare uomini liberi
Intervista
allo scrittore israeliano, che partendo dal suo ultimo saggio spiega
come buona scrittura, buona politica e humour diventano antidoti al
fanatismo
di Wlodek Goldkorn
La letteratura è cugina del gossip ci fa entrare dalle finestre nelle case degli altri per imparare come vivono
“Nella vita pubblica ero in prima linea: ora non più”
IL LIBRO Cari fanatici di Amos Oz (Feltrinelli traduzione di Elena Loewenthal pagg. 112 euro 10)
Ha
sempre avuto due vite Amos Oz: una da scrittore; l’altra da
intellettuale pubblico, in prima linea nella lotta contro l’occupazione e
per il riconoscimento dei diritti dei palestinesi. Lui ha sempre voluto
convincere qualsiasi (incredulo) interlocutore che si trattava di due
vite parallele: dei sentimenti mi occupo nei romanzi, se voglio
criticare il mio governo scrivo un articolo, ripeteva. Ora con Cari
fanatici, un saggio composto da tre brevi testi in uscita da
Feltrinelli, i più fedeli, ma anche gli occasionali lettori di Oz
possono finalmente trovare il punto in cui le sue due vite si
congiungono: quel punto è la convinzione che tutti gli esseri umani sono
i padroni delle proprie scelte, ma anche e prima ancora, che la chiave
per una vita decente è saper ascoltare l’altro ed essere capace di
vedere il mondo e se stessi con gli occhi altrui. Il miracolo della
buona letteratura e della buona politica ha la stessa origine: la
capacità dell’osservazione e la distanza da se stessi. E per quanto
riguarda il fanatismo: per Oz è un male che affligge tutta l’umanità;
ebrei come musulmani, cristiani, come laici.
Crede che un fanatico sia interessato a di leggere le tre lettere che gli ha indirizzato?
«Le
lettere non sono indirizzate ai fanatici, ma a tutti noi. In tutti noi è
presente un nucleo di fanatismo. Il fanatico è un punto esclamativo
deambulante. Lo siamo tutti un po’, perché nei rapporti con i nostri
partner o figli, tutti diciamo: devi essere come me. Vogliamo
rimodellare gli altri per una sorta di altruismo, per il loro bene. Il
desiderio di rimodellare l’altro è il primo grado del fanatismo».
Ma
è un desiderio nobile. Si vuole rendere migliore la persona a cui
vogliamo bene. Vale anche per la politica; che senso avrebbe farla se
non per cambiare la società?
«Il vero fanatico non è interessato
alle persone concrete né alla vita sociale quotidiana. Il suo è
l’interesse per una fede e un’idea. Pensa di agire per il bene
dell’altro ma in realtà vuole un mondo in cui tutti si assomigliano,
tutti sono uguali, e quindi non c’è più l’altro. Un segno inequivocabile
per cui si riconosce un fanatico è la mancanza del senso dell’umorismo.
Aggiungo le parole di Churchill: il fanatico non cambia mai opinione né
permette di cambiare l’oggetto della conversazione».
Di solito,
quando parliamo del fanatismo, abbiamo in mente i fondamentalisti
religiosi o politici che vogliono un regime totalitario. Da quello che
sta dicendo si può però dedurre che esiste anche un fanatismo laico che
non vuole dittature...
«Ovvio. Il fanatismo ambientalista e no global e perfino il fanatismo delle squadre di calcio».
Ci sarà una differenza tra chi vuole un regime totalitario o fondamentalista e un fanatico della Fiorentina, per esempio...
«La
differenza è minima se quell’ultrà augura la morte ai tifosi delle
altre squadre perché solo la Fiorentina è degna di essere oggetto di
tifo».
Sta dicendo che il fanatismo contempla la morte simbolica?
«Sì,
ed è un concetto importante. Va bene urlare allo stadio, visto che chi
alza la voce non è necessariamente un fanatico. Il fanatismo non si
misura dal tono della voce, ma dalla disponibilità ad ascoltare e a
tollerare altre voci. Il rifiuto dell’ascolto è dare morte simbolica».
Come si fa guarire un fanatico?
«Ho
già detto che non ho mai incontrato un fanatico dotato del senso
dell’umorismo. E se potessi concentrare il senso dell’umorismo in un
vaccino, vincerei il Nobel per la Medicina. Seriamente, sono convinto
che la letteratura, la buona letteratura sia un antidoto al fanatismo.
La letteratura è cugina del gossip. Il gossip a sua volta è il risultato
della nostra volontà di guardare dentro le finestre degli altri per
sapere come vivono, cosa mangiano. La letteratura però fa un passo in
più: non solo vuole vedere cosa c’è dentro la finestra altrui, ma indaga
su che cosa si vede da quella finestra. La letteratura permette cioè di
assumere lo sguardo altrui sul mondo. Un persona capace di vedere se
stesso o l’universo con gli occhi degli altri non può essere un
fanatico, perché una persona così sa che ci sono tanti modi di vedere e
leggere la realtà. Un uomo o una donna che frequenta la letteratura sa
che non esiste un solo linguaggio. John Donne ha scritto che nessuno è
un’isola. Io dico che siamo tutti una penisola. Per il pensiero di
stampo totalitario siamo solo una molecola di una cosa più grande (il
continente), per il pensiero neo-liberale radicale siamo un arcipelago
di isole senza legami. Io propugno una via di mezzo: in parte siamo
legati a qualcosa di grande e collettivo, ma di fronte all’amore e alla
morte siamo soli, esposti esclusivamente al silenzio dell’oceano e della
montagna».
Perché ha sentito il bisogno di scrivere questo libro?
«L’ho
dedicato ai miei quattro nipoti. Giunto all’età di 78 anni ho solo la
mia parola. Non ho un partito, non sono una guida né un maestro. Volevo
dire: vostro nonno per sessant’anni era in prima linea, nella vita
pubblica; ora il nonno è vecchio. Sta nelle retrovie. Se voi vorrete
combattere, il nonno vi darà le munizioni; vi darà suggerimenti su come
pensare. È questo che faccio. Aggiungo: il capitalismo,
“Hannah Arendt sbagliava nazismo non è burocrazia”
oggi,
ci rende tutti infantili, ci dice che la felicità consiste nel comprare
un determinato prodotto. Ma lo fa anche la politica che assieme ai
media è ormai parte dell’industria dell’intrattenimento. Ecco, io vorrei
che tornassimo adulti e cioè responsabili delle nostre azioni. Quando
Gesù dice: “Perdonali perché non sanno quel che fanno”, sbaglia».
Sta dicendo che c’è un elemento di male in ognuno di noi e che ci piace infliggere il male?
«Sì.
L’albero di cui Adamo ed Eva hanno mangiato il frutto era l’albero
della conoscenza del bene e del male. La teoria di Hannah Arendt per cui
il male è una serie di procedure burocratiche non mi convince.
L’assassino sa di violare un tabù ».
Lei cita una storia del
Talmud, la storia del forno di Akhnai, dove Dio interviene in una
disputa tra rabbini. E quando uno dei sapienti gli dice: Signore, questa
è una vicenda tra noi uomini, tu non c’entri, Dio finisce per dargli
ragione. È una parabola sulla libertà di scelta amata dagli ebrei laici,
specie gli esistenzialisti. E tuttavia, perché noi, ebrei laici ed
esistenzialisti, ricorriamo a un testo della nostra tradizione? Perché
siamo così influenzati dal nostro background culturale?
«La
domanda giusta non è quanto siamo condizionati dal nostro background ma
in quale misura siamo capaci di liberarci da questo background, in
percentuale: il 10 per cento? Il 50? È questa la vera domanda sulla
nostra libertà. E per quanto riguarda la nostra autonomia rispetto a
Dio: chi di noi si rivolge a Lui, anche per maledirlo, in fondo porta
dentro di sé un elemento di fede».