La Stampa 8.10.17
“C’è ancora bisogno di mio padre il Che”
A
50 anni dall’uccisione del rivoluzionario compagno di Fidel parla il
figlio Camilo: “Il mondo non è cambiato molto da quando decise di
lottare per la libertà di altri popoli”
di Paolo Mastrolilli e Pablo Lombo
«Meglio
Trump che Obama: così almeno non ci sono equivoci sulle mire degli Usa
contro Cuba». In tutti i guai del mondo, Camilo Guevara legge la
conferma dell’attualità di suo padre.
Qual è il senso della mostra sul «Che» che si aprirà a dicembre a Milano?
«Il
materiale è stato accettato dall’Unesco come parte del progetto
“Memoria del mondo”, nella categoria internazionale, la più
significativa per l’universalità che riconosce a coloro che include. Per
ciò ha un’importanza culturale, storica, politica. L’intento è mostrare
i contesti in cui ha agito il “Che”, quali sono state le sue
motivazioni, e la sua eredità storica».
Quando è morto lei aveva 5 anni: quali ricordi conserva?
«I
miei presunti ricordi sono molto mischiati con i sogni e non posso
definire con certezza quali siano veri, perciò non parlo di queste cose.
Partì da Cuba per il Congo quando io avevo 3 anni: un bambino di
quell’età non può ricordare nitidamente. E poi stiamo parlando di una
persona che dedicava molto tempo al lavoro e agli studi, con grandi
responsabilità verso il popolo cubano, che prendeva assai sul serio. Sin
da piccolo avevo la coscienza che mio padre era una persona molto amata
e rispettata dalla maggior parte dei cubani. Si dice che i figli
somigliano più al proprio tempo che ai genitori, perché sono lo
scenario, le circostanze, che ti permettono di agire in una direzione o
in un’altra. Mio padre ha segnato il mio tempo. I suoi scritti, lettere,
insegnamenti sono ancora vitali, la sua voce e immagine ci accompagnano
in molti luoghi, nei media e anche a scuola. Da quando ero molto
giovane ho fatto letture di cui era l’autore, ma per me è sempre venuto
prima il padre e poi l’eroe. Poiché sono cubano, conosco le sue imprese e
virtù, l’ammiro come il modello di uomo e rivoluzionario che è».
La morte di suo padre è stata chiarita, o restano punti oscuri?
«Non
ho mai fatto confusione su questo fatto. Mio padre è stato assassinato
dai militari boliviani, per ordine degli yankee. Certo, si è cercato
anche di costruire trame nelle quali a volte compaiono i rivoluzionari
cubani come colpevoli, o i sovietici, creando intrighi di palazzo e
fiabe. Il Che non ha avuto un giudizio, perché temevano le conseguenze. È
stato assassinato a La Higuera perché la causa che difendeva era molto
pericolosa e contraria agli interessi degli imperialisti. Non ci sono
dubbi su quel che è successo, anche se hanno cercato molte volte di
nasconderlo con schermi di fumo e voci malintenzionate».
Quali differenze ci sono tra la sua figura umana reale e la percezione mitica?
«Il
Che è stato un uomo, ma molto completo. Coerente in pubblico e in
privato, perché non sapeva essere altro che onesto, coraggioso, audace,
giusto, amorevole e sensibile. Perciò noi i cubani, che lo conosciamo
bene, lo amiamo e ammiriamo così tanto».
Cosa resta oggi della dottrina elaborata da suo padre?
«Il
Che è stato un teorico che ha avuto la fortuna di mettere in pratica
alcune delle sue tesi. L’eredità è vasta, ma anche attuale. Il mondo non
è cambiato molto dagli anni in cui decise di lottare per la libertà di
altri popoli. Oggi serve il Che, o persone come lui, ancora più di
prima, perché viviamo già i tratti del caos. Se non freniamo questa
decadenza, la barbarie che cerca di perpetrarsi potrebbe far sparire la
nostra specie».
Come vede il futuro di Cuba, dopo la scomparsa di Fidel Castro e l’annuncio di Raúl che nel 2018 intende lasciare la presidenza?
«Quando
il popolo cubano combatteva per l’indipendenza dalla Spagna e le
tirannie imposte dagli Stati Uniti, sono morti uomini preminenti come
Carlos de Céspedes, Agramontés, Martí, Maceo, Máximo Gomez, Mella,
Villena, Guiteras. Le loro idee e lotte hanno dato forma alla nostra
nazionalità e influenzato la continuità delle lotte libertarie. La
nostra identità è molto legata ai loro lasciti. Fidel, Raúl sono parte
di questa tradizione, e quelli che seguiranno non smetteranno di essere
patrioti rivoluzionari. La rivoluzione è il progetto che meglio ci si
addice, perché risponde ai nostri interessi. Se vogliamo continuare a
esistere come nazione, siamo obbligati a mantenere una forma di
produzione alternativa al capitalismo, pur migliorandola o
modificandola. Se perdiamo del tutto questo, saremo in grave pericolo di
morte».
Aveva condiviso l’apertura di Obama, e cosa pensa di Trump?
«Tutto
ciò che viene fatto per calmare gli animi è positivo, se non
compromette i nostri interessi. Però Obama non aveva proposto una nuova
linea, ristabilendo i rapporti diplomatici. Aveva detto chiaramente che
voleva prendere strade diverse, per raggiungere lo stesso fine:
cancellare la rivoluzione. Con Trump le cose sono più chiare, e ci siamo
abituati. Non ci ha nemmeno lasciato “godere” quell’apparente calma,
che quindi non ci mancherà. Spero che alla fine prevalga il pragmatismo,
e che in futuro (secondo me lontano) potremo intrattenere rapporti
civili, per il mutuo beneficio».
Un altro argentino sta diventando
mito, e molti dicono che è un «rivoluzionario», o un «comunista». Cosa
pensa di papa Bergoglio?
«Io, grazie a Dio, sono ateo, ma parte
della mia istruzione, principalmente sui valori, ha origini nel
cristianesimo e in altre religioni. Sembra che papa Francesco voglia far
germogliare questi valori. In realtà non lo conosco abbastanza per
giudicarlo, ma posso affermare che se seguisse semplicemente gli
insegnamenti di Cristo, per forza di cose sarebbe rivoluzionario e
avrebbe molti nemici. Ho visto molta gente chiamarsi cristiana e non
patire neanche un po’ di fronte alla disgrazia altrui, né seguire uno
solo dei comandamenti, oppure essere più peccatore del Diavolo. Quindi
se vedo qualcuno accostarsi a quegli insegnamenti, anche un po’, mi
sento felice. Magari il Papa fosse così “cattivo”, come denuncia chi si
oppone ai cambiamenti positivi nel mondo».