La Stampa 25.10.17
Xi, il nuovo Mao per la sfida dell’egemonia
di Bill Emmott
Ora
sappiamo che il presidente Xi Jinping è il leader cinese più
importante, e anche il più potente, dai tempi del «grande timoniere» Mao
Zedong, l’uomo che nel 1949 condusse il Partito comunista al potere e
che fino alla morte, nel 1976, fu il leader supremo della Cina. Lo
sappiamo perché i delegati di quella grande messinscena politica che è
il Congresso del Partito Comunista hanno scritto il suo nome nella
costituzione del partito come ispiratore del «pensiero di Xi Jinping».
Ma cosa significa? Questo è molto meno chiaro.
Certo
non significa che il Presidente Xi intenda seguire le orme di Mao
prendendo decisioni personali impulsive e sconsiderate come il «Grande
balzo in avanti» dell’agricoltura che nel 1958 condannò dieci milioni di
persone alla morte per fame, o come la «Rivoluzione culturale» del 1966
che scatenò la violenza in tutto il Paese. Significa, tuttavia, che un
lungo periodo di governo collettivo e abbastanza consensuale è stato
definitivamente sostituito da un controllo centrale molto più stretto e
cogente.
Il ritorno a un rigoroso controllo centrale riflette una
sensazione diffusa all’interno del Partito Comunista e della leadership
militare che vi è associata, l’idea cioè che la corruzione, il dissenso e
l’indisciplina degli ultimi dieci anni e più abbiano messo a rischio la
sopravvivenza del governo monopartitico. Ma molto probabilmente
rispecchia anche un sentimento di fiducia per il ruolo della Cina nel
mondo, ora e in futuro, che a sua volta riflette la sensazione,
probabilmente esatta, che la Cina sia la maggiore beneficiaria della
presenza di Donald Trump alla Casa Bianca.
C’è un’opportunità da
cogliere e una leadership ben definita e potente è il miglior strumento
per approfittarne. A questo scopo il Paese deve essere mantenuto unito e
gli altri Paesi del mondo, in particolare nell’Asia orientale, devono
essere convinti che la Cina sa cosa sta facendo e quali obiettivi
perseguire nel lungo termine.
La natura esatta di
quest’opportunità, nata dalla debolezza, dal caos, dalla perdita di
affidabilità e dalla delegittimazione dell’America, sta appena
cominciando a emergere. Comprenderà una maggiore accettazione da parte
dei vicini asiatici del primato della Cina nella regione e del suo
diritto di espandere il controllo strategico sul Mar Cinese Meridionale,
poiché l’unica alternativa a tale primato è scomparire. E certamente
includerà una loro crescente dipendenza dalla Cina per il sostegno
finanziario e la sicurezza.
Potrebbe anche, in uno scenario più
drammatico, includere un grande pericolo che potrebbe però portare
enormi vantaggi strategici: il rischio di un conflitto, potenzialmente
nucleare, tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti. Un rischio che
potrebbe anche fornire alla Cina l’occasione per intervenire, con il
risultato di acquisire maggior potere sulla Corea del Nord, conquistarsi
la gratitudine dei Paesi vicini, nonché il controllo di fatto sul
futuro della penisola coreana.
Ci sono anche altre possibili
aperture di credito per una Cina più influente: una è in Arabia Saudita,
dove si guarda al capitale cinese per la compagnia petrolifera
nazionale, l’Aramco. Un’altra è la definizione delle regole per il
commercio nell’area pacifica ed asiatica, dopo che l’America ha
abbandonato l’accordo per il Partenariato Trans-Pacifico che negli
ultimi anni aveva negoziato con altri 11 Paesi escludendone la Cina.
Le
potenzialità che si aprono per la Cina sono di vitale importanza non
solo per il futuro del Paese, ma anche per l’affermazione del suo status
nel mondo. I precedenti presidenti cinesi avrebbero saputo cogliere
queste occasioni? Forse: la leadership collettiva del partito ha sempre
mostrato un forte senso della strategia, anche se i suoi presidenti e i
primi ministri si sono dimostrati pigri e poco incisivi. E’ famosa
l’affermazione del Principe Carlo d’Inghilterra che in occasione della
restituzione di Hong Kong nel 1997 li definì «statue di cera».
Il
punto è che quelle statue di cera hanno finito per mettere nei guai la
Cina, guai da cui non si è ancora del tutto ripresa. Dopo la morte di
Deng Xiaoping nel 1997, il partito ha tutelato il suo ruolo istituendo
un sistema di limiti di durata dei mandati e di rotazione rigorosa del
personale, allo scopo di frammentare il potere e, si sperava, ridurre
l’incentivo alla corruzione. Nel frattempo, sono stati tentati
esperimenti di democrazia locale, a livello dei villaggi, e si è fatto
un maggiore sforzo per ascoltare l’opinione pubblica.
Probabilmente
queste riforme hanno assicurato al partito altri due decenni di potere,
ma non hanno risolto il problema della corruzione e hanno indebolito la
leadership. Chi si trovava in una posizione di forza ha dovuto far in
fretta a rastrellare miliardi prima del termine del mandato e la
consapevolezza che presto avrebbero cambiato lavoro o sarebbero stati
mandati in pensione ha dissuaso i leader dall’assumersi dei rischi.
Se
ne potrebbe trarre la lezione che un sistema politico autoritario non
può sopravvivere senza un’autorità forte. Proprio come una persona non
può essere per metà incinta, così un partito dittatoriale non può
diluire il potere e baloccarsi con la democrazia se vuole rimanere al
governo. Così il presidente Xi Jinping, diventato per la prima volta
presidente nel 2012, ha spinto bruscamente l’orologio all’indietro,
verso un controllo totalmente centralizzato.
Nella logica di un
partito comunista questo è perfettamente sensato. La sua dura
repressione della corruzione si è rivelata popolare, almeno tra quelli
non ancora presi di mira. Ha liquidato tutti i potenziali rivali. E ora
potrà essere, ufficialmente o ufficiosamente, leader supremo della Cina
per un periodo molto più lungo del secondo mandato quinquennale dei suoi
predecessori.
Xi Jinping è dunque ben posizionato per sfruttare
un momento cruciale negli affari del mondo, con il ruolo dell’America in
declino e quello della Cina in ascesa. Tutto ciò non basta a garantire
che avrà successo: la Cina ha molti problemi nazionali da affrontare,
soprattutto nel campo delle riforme economiche. Ma se c’è qualcuno che
può cogliere l’attimo e raccogliere la sfida, questo è proprio Xi
Jinping.
traduzione di Carla Reschia