La Stampa 25.10.17
La Russia decreta il “paradiso in terra” promesso da Marx
L’obiettivo dei capi bolscevichi è così ambizioso che per raggiungerlo ogni mezzo diventa lecito
di Gianni Riotta
Skuratov,
occhiuto censore dello Zar, non ebbe paura del criptico tomo di
economia capitatogli sul tavolo nell’aprile 1872: «Pochi in Russia lo
leggeranno, ancor meno lo capiranno». Così il Capitale di Karl Marx ebbe
proprio in russo la prima traduzione all’estero, opera del populista
«narodnik» Nikolai Danielson e, di soppiatto, il comunismo arrivò nella
futura patria della rivoluzione bolscevica 1917.
Il povero
Skuratov sbagliava, a Londra, culla della classe operaia che avrebbe
dovuto seppellire la borghesia Marx è isolato, con il fido Engels, nella
dispotica Russia, «gendarme d’Europa», il Capitale è invece subito best
seller, 900 copie esaurite a San Pietroburgo in pochi giorni. «Mi
leggono in Russia come da nessuna parte», gongola Marx: «Ben curioso per
me finire campione della Giovane Russia, non sai mai chi ti capita come
compagno nella vita». I «narodniki», populisti agrari, credevano che
agente rivoluzionario contro l’oppressione zarista sarebbe stato non il
proletariato operaio del Manifesto 1848, ma il saggio, fiero contadino
slavo dell’ «obšcina», l’antica comune rurale. Marx si lega d’affetto a
questi primi seguaci e quando i pionieri del marxismo russo, Plekhanov,
la Zasulich, li criticano come «terroristi», li difende con Engels. In
una lettera alla rivista russa Annali Patri del 1877, Marx scrive «Forse
solo la Russia potrà passare dal feudalesimo al socialismo», senza
forche caudine capitaliste, grazie alla cultura slava. Marx ed Engels
detestano l’idolo della «Madre Russia», e in mezzo secolo di
corrispondenza con i russi, populisti o socialisti, 1846-1895,
preconizzano per Mosca una rivoluzione modello 1789 in Francia, moto
antifeudale contro lo Zar.
Arriverà invece il 1917, e non dall’
«obšcina» agreste, da nuclei di militanti, intellettuali, operai,
soldati. Il filosofo Isaiah Berlin spiega il salto storico dalla
rivoluzione progettata da Marx per l’Europa moderna, alla rivoluzione
realizzata da Lenin per la Russia ancestrale, in un saggio del 1994, a
Urss dissolta solo da tre anni: se esiste nella Storia un programma
politico che abbia soluzione a ogni male, occorre mobilitarsi per
raggiungere quel paradiso, chi si oppone è un malvagio e va spazzato «Se
necessario con violenza, terrore e massacri. Lenin si persuase di
questo leggendo il Capitale…ogni metodo è lecito pur di creare la
società felice».
Cento anni dopo i Soviet, questo resta il
paradosso che i saggi intervistati da Francesca Paci per La Stampa
proveranno a dirimere. L’utopia di Marx appassiona per primi i russi,
che la coniugano però con il fosco dispotismo slavo, considerato da
Dostoevskij parabola del male morale. Engels ha come una sorta di
visione dell’incubo che travolgerà, tra gulag ed esecuzioni, milioni di
comunisti appassionati, in una lettera a Danielson del 1891, «La Storia è
la Dea più crudele. Lancia il suo carro trionfale su cataste di
cadaveri, non solo in guerra, anche in tempi di “pacifico” sviluppo
economico», mentre Marx scrive nel 1881 a Jenny Longuet che «il
terrorismo è tipico, e inevitabile, nella storia russa e non c’è dunque
ragione di far troppa morale contro…». Quando la «Dea crudele» scatena
la rivoluzione bolscevica, però, tanti si entusiasmano. Parte per Mosca
il giornalista americano John Reed, il cui reportage di propaganda
diverrà classico, con lui ingenui militanti finiti poi in Siberia. Nel
meraviglioso Viaggio nella vertigine (Dalai) la rivoluzionaria Evgenija
Ginzburg ricorda l’esule comunista italiana, il cui nome abbiamo
perduto, che per tutta una notte ulula nella nostra lingua, in cella, il
suo dolore che nessuno comprende.
In Italia Antonio Gramsci, tra i
fondatori del Partito comunista, coglie la radicalità bolscevica
scrivendo su Il grido del popolo già nel ‘17 «È il fenomeno più
grandioso che mai opera umana abbia prodotto. L’uomo malfattore comune è
diventato, nella rivoluzione russa, l’uomo quale Kant…aveva predicato…È
la liberazione degli spiriti, è l’instaurazione di una nuova coscienza
morale...È l’avvento di un ordine nuovo, che coincide con tutto ciò che i
nostri maestri ci avevano insegnato. E ancora una volta la luce viene
dall’oriente e irradia il vecchio mondo occidentale…», come in un
Vangelo apocrifo marxista.
Gramsci, in cella, farà in tempo a
ricredersi, ma La forza del mito, così lo storico Marcello Flores
definisce il fascino para-religioso del ‘17 in un recente bel libro
(Feltrinelli), dura un secolo. Riascoltate le recenti quattro ore di
discorso del presidente Xi Jinping al Congresso del partito comunista:
«Cento anni fa, le salve della Rivoluzione d’Ottobre portarono il
marxismo-leninismo in Cina…il nostro partito nacque solo quattro anni
dopo…e da allora il popolo cinese ha nel partito comunista la spina
dorsale della lotta per l’indipendenza nazionale, la liberazione, la
prosperità e la felicità…». O leggete il nuovo libro della Anne
Applebaum (da tradurre!) Red Famine (Carestia rossa): Putin occupa la
Crimea contro il «fascismo ucraino», perché ancora ossessionato dalla
«crudele lezione del ‘19», quando, muovendo dall’Ucraina, il generale
Anton Denikin arriva con l’Armata Bianca a 300 chilometri da Mosca e i
bolscevichi si salvano a stento. Non pensate dunque ai Dieci giorni che
sconvolsero il mondo come il passato, perché essi ci parlano di presente
e di futuro.