La Stampa 20.10.7
Aleppo, dove Dio è stato smascherato
In una città stregata e inaridita, la morte ha risparmiato soltanto le pietre
di Domenico Quirico
Agosto
2016: l’ultimo sussulto di Aleppo rivoluzionaria, per un attimo i
ribelli spezzano l’assedio governativo ai quartieri orientali, collegano
con una offensiva disperata Soukkari con Ramoussa: «È uno degli
avvenimenti più importanti della rivoluzione da cinque anni e mezzo»,
proclama, troppo ottimista, il capo dell’opposizione politica in esilio.
Poi leggi i nomi delle brigate che hanno condotto l’offensiva, sono di
Fatah al-Sham, islamisti, il nuovo nome con cui al-Qaeda siriana si è
mimetizzata per sfuggire ai sospetti occidentali. O di Ahrar al-Sham,
brigate salafite pagate e armate dall’Arabia Saudita, il cui scopo è la
sharia, il califfato. Diecimila uomini, la cui forza non è tanto nel
numero ma nei metodi feroci di combattimento, con le autobombe e i
kamikaze che sostituiscono l’artiglieria.
Un mese dopo: con
l’aiuto degli aerei e degli specialisti russi e iraniani inizia
l’attacco finale di Bashar per riprendersi la «sua» città. Nei quartieri
orientali mancano i viveri, le medicine, a dicembre il territorio
controllato dai ribelli si riduce a pochi chilometri quadrati che
l’artiglieria serchia spietatamente, metro per metro. Il 22 dicembre, in
cambio della fine dell’assedio di Foua e Kefraya, due città governative
assediate a loro volta dai ribelli, i combattenti lasciano Aleppo con
le loro famiglie per raggiungere la zona di Idlib, ancora sotto il
controllo degli islamisti.
La mia storia siriana finita
Non
sono più tornato ad Aleppo «liberata». Il mio sguardo non vi
afferrerebbe più nulla. Città stregata, inaridita. Vi è passato un
raggio della morte che ha risparmiato solo le pietre. La mia storia
siriana è finita con lei, con la sua epopea.
Non è una scelta
politica, è una vicenda personale. Mai più vi conoscerò l’intensità e il
calore delle avventure che hanno segnato questa fase della mia vita.
Dopo Aleppo non ho più paura di niente. La paura semplicemente non mi
interessa più.
Com’è oggi Aleppo, dopo la conclusione della
battaglia? È una città come tante altre città siriane, ma non come le
altre. Rassegnata, gli spari sono un rumore lontano; ora si combatte a
Idlib e nei villaggi dei dintorni. La si crederebbe pietrificata nel
proprio oblio. Cerca di dimenticare il suo passato, ma ne subisce
l’implacabile influenza. Condannata a vivere fuori dal tempo della
Storia nuova, non respira che nella memoria di coloro che vi sono morti o
l’hanno lasciata.
Questa città che è stata mia, intimamente, da
un anno almeno non lo è più. La sua riconquista non mi appartiene perché
non me l’hanno lasciata vivere. Eppure ne avevo, in fondo, il diritto.
L’ho letta, la pagina finale, nel racconto di altri e mi è parsa
mediocre cronaca: quando meritava comunque l’epopea. Nessuno con il
mestiere può inventarsi o fingere la commozione. Per fortuna. La
condanna alla mediocrità è quello che ci salva. Forse mento, è soltanto
invidia perché non mi hanno più chiesto di andare.
Secondo quanto
mi racconta chi ci vive, che è l’unico testimone attendibile, non è
cambiata. Quasi per nulla. Ha ritrovato le sue rovine basse, grigie.
Paiono già vecchie di cento anni. I suoi pochi quartieri a ovest rimasti
quasi intatti. Il mormorio soffocato dei piccoli mercati. Il risuonare
dei passi sui selciato. Perfino i rumori del traffico. La moschea
distrutta è sempre lì, sembra attendere qualcuno che non verrà più.
Senza destino
Aleppo
non ha più diritto al suo nome, al suo volto. È una città senza
destino. Perché Aleppo è il luogo dove tutto è cominciato, dove il terzo
millennio appena nato ha perso subito la sua innocenza e Dio è stato
smascherato. In questo 2016 bisogna constatare che la forza bruta,
malgrado il progresso e la mondializzazione, malgrado tutti i discorsi
sul diritto internazionale e la nuova diplomazia, e i tanti trattati per
contenere le guerre, può esercitarsi e prevalere senza ostacolo come ai
tempi di Attila e di Hitler.
Tornarci ora, ne sono consapevole,
sarebbe stato un altro viaggio senza gioia e senza angoscia. Avrebbe di
nuovo diviso la mia vita in un dopo e in un prima. Eppure non lo nego,
la città ancora mi affascina, mi attrae. E mi spaventa. Voglio nello
stesso tempo e con la stessa intensità toccarla e sfuggirle. In fondo le
nuvole delle esplosioni, le urla disperate nella notte, i bambini
straziati e condotti al macello potrebbero anche sfumare e potrei
ritrovare la città che ho solo letto e mai conosciuto, con la sua
cittadella intatta, il suk prezioso e infervorato, i caffè che profumano
di legno e di cose buone, gli intellettuali raffinati e gli abitanti
gentili... Basta. Non ho più voglia di affrontarli. Anche perché
probabilmente questa volta non ci sarebbe più un prima.
La certezza del Male
Non
so in fondo che cosa mi avrebbe atteso laggiù, la desolazione che ben
conoscevo della rovina o la necessaria bestemmia di una città rimessa in
piedi in qualche modo. Il modo approssimativo con cui ricostruiscono i
poveri. Quello di cui sono certo è che avrei camminato per le strade
finalmente senza cecchini bombe e fumo, solo e senza una meta,
soprattutto senza incontrare qualcuno da riconoscere, uno sguardo amico.
E sarei impazzito di solitudine.
Non si rimuovono le tombe senza
pagare un prezzo. Il prezzo è sempre la certezza del Male. Sì, non so se
è stata una decisione giusta, non tornare. Quelli che avrebbero potuto
consigliarmi a prendere una giusta decisione non li ho più ritrovati.
Sono morti. O non sono più ritornati.