La Stampa 18.10.17
I Longobardi sono ancora tra noi: l’Italia d’oggi figlia anche dei barbari
A
Pavia una grande mostra riscopre il popolo che ha dato la sua impronta
al Medioevo e ha cambiato per sempre la storia del Paese, nel bene e nel
male
di Maurizio Assalto
Anche uno dei dolci
italiani più popolari, la colomba pasquale, pare sia da ricondursi
all’arrivo dei Longobardi. La leggenda - tarda rielaborazione di un
episodio tramandato nell’VIII secolo da Paolo Diacono nella sua Historia
Langobardorum - narra che nel 572, dopo tre anni di assedio, Alboino si
accingeva a entrare in Pavia, l’antica Ticinum, fieramente intenzionato
a passare a filo di spada la popolazione, quando il suo cavallo si
abbatté a terra e non volle più saperne di rialzarsi. Era la vigilia di
Pasqua, e un fornaio donò all’invasore il dolce ancora caldo, in cambio
della promessa a desistere dall’insano proposito. Allora il destriero si
rialzò e Alboino poté fare il suo ingresso trionfale nella città che
sarebbe diventata la capitale del nuovo regno barbarico.
Ma non è
soltanto nella fantasiosa tradizione dolciaria che queste genti
germaniche, originarie del basso corso dell’Elba, hanno lasciato la loro
impronta. E neppure nella realtà tuttora viva della toponomastica e di
molti nomi di persona (come quelli che terminano in -berto, da pert,
illustre). La loro irruzione nella Penisola segnò una discontinuità, una
rottura totale dopo la quale niente sarebbe più stato come prima. E
«Longobardi. Un popolo che cambia la storia» è il titolo della mostra,
curata da Gian Pietro Brogliolo e Federico Marazzi con catalogo Skira,
aperta fino al 3 dicembre al Castello Visconteo di Pavia - dopo di che,
integrata di ulteriore documentazione relativa ai ducati del Sud Italia,
si trasferirà al Mann di Napoli (21 dicembre-26 marzo) e quindi da
aprile a luglio all’Ermitage di San Pietroburgo.
Fine dell’unità politica
Oltre
300 i pezzi esposti, tra i quali 58 corredi funerari completi, per
documentare, con l’ausilio di video e installazioni multimediali, una
vicenda che ha diverse assonanze con il presente e lascia aperti gli
interrogativi. I Longobardi sono i distruttori dell’unità politica
dell’Italia, perduta nel 476 con il crollo dell’Impero romano
d’Occidente e parzialmente recuperata sotto il re goto Teodorico, o
coloro che cercarono di ricostituirla su nuove basi? Soltanto eversori
del vecchio, o anche seminatori del nuovo, un nuovo che giunge fino a
noi?
Gli «uomini dalla “lunga barba”» (langbart) erano penetrati
in Italia nel 568, provenienti dalla Pannonia (attuale Ungheria) dove si
erano stabiliti nel corso del V secolo. Già impiegati come mercenari
nella lunga guerra contro i Goti - una sorta di Vietnam durato 18 anni,
dal 535 al 553, in cui l’Impero d’Oriente si era impelagato nel
tentativo di riprendere il controllo dell’Italia -, nel caos seguito
alla fine del conflitto, con la Penisola spappolata come l’Iraq dopo le
guerre del Golfo, avevano capito che la situazione era propizia. Non è
chiaro se intendessero fermarsi o semplicemente transitare per spingersi
più a Ovest (tracce delle loro presenza sono affiorate a Arles,
Avignone e in diverse altre località della Provenza). Di fatto - grazie
al non interventismo degli imperiali, che li lasciarono fare in funzione
anti-Franchi - poterono scorrazzare per una decina d’anni in tutta
l’Italia settentrionale, per poi spingersi al Centro e al Sud, dando
vita a quei ducati di Benevento, Salerno e Capua sopravvissuti fino a
oltre l’anno Mille, dopo che Carlo Magno nel 774 aveva posto fine al
loro regno.
I Longobardi cambiarono la storia perché portarono i
germi di una diversa cultura che fondendosi con quella latina e poi
travasandosi in quella dei Franchi avrebbe dato luogo alla «Rinascenza
carolingia» e al Medioevo così come lo conosciamo. E cambiarono la
storia d’Italia perché il loro avvento comportò una serie di
trasformazioni irreversibili. Dalle forme insediative e produttive (con
la nascita di nuovi villaggi, i latifondi suddivisi tra gli arimanni -
gli uomini liberi che portavano le armi -, la fine dei grandi traffici
commerciali a vantaggio delle piccole produzioni locali) agli assetti
sociali (con la decapitazione integrale della classe dirigente romana
che i Goti, durante il loro predominio formalmente esercitato per conto
dell’Impero d’Oriente, avevano coinvolto nella gestione del potere).
Una
consolidata tradizione di studi anglosassoni ha teso a sminuire la
natura barbarica e la stessa identità etnica dei Longobardi,
intendendoli piuttosto come migranti pacificamente integrati, e a negare
la contrapposizione delle culture. I dati archeologici e paleogenetici
emersi dagli scavi degli ultimi anni parlano invece di una popolazione
di conquistatori dalla marcata identità collettiva, che si mantenne
pressoché inalterata per un paio di secoli.
Un regime di apartheid
Sono
davvero Longobardi, e non romani abbigliati da Longobardi, quei
guerrieri consegnati all’aldilà con tutte le armi e sovente con i loro
cavalli e i cani, come nella sepoltura presentata in mostra, da
Povegliano Veronese. Così come sono longobardi i reperti lapidei della
Langobardia minor (dai monasteri di Montecassino, San Vincenzo al
Volturno e Santa Sofia di Benevento) che attestano l’abbandono
dell’arianesimo per aderire nel VII secolo alla fede cattolica.
Anche
se smisero presto di parlare la loro lingua, adottando un latino
contaminato, i nuovi padroni non si confusero però con il resto della
popolazione. Numericamente minoritari - si stima che non siano mai stati
più di trecentomila, contro sette-otto milioni di italiani - vivevano
in una sorta di apartheid, soggetti alle proprie leggi consuetudinarie
(della prima e più celebre raccolta, l’Editto di Rotari, è esposto il
manoscritto redatto in latino nel 643 nel monastero di Bobbio), mentre
per le relazioni tra italiani veniva applicato il codice teodosiano. Ma è
nel quadro geopolitico che i Longobardi hanno lasciato il segno più
duraturo. Con i loro ducati sparsi nella Penisola, formalmente soggetti
all’autorità centrale ma di fatto largamente autonomi, anticiparono
quelle specificità locali che hanno caratterizzato i secoli successivi.
Una frammentazione politica e culturale problematicamente ricucita
soltanto con il Risorgimento, ma che periodicamente riaffiora.