La Stampa 11.10.17
Una riforma pagata a caro prezzo
di Marcello Sorgi
Va
detto subito: la decisione di Gentiloni (e soprattutto di Renzi) di
porre la fiducia sul Rosatellum è una forzatura. La legge elettorale è
la più politica delle leggi, la principale delle regole del gioco ed è
sempre meglio che sia il Parlamento a decidere in materia, e non il
governo a imporsi. La fiducia - che cancella gli emendamenti e le 160
votazioni in cui pezzi di maggioranza si sarebbero potuti unire a pezzi
di opposizione approfittando dello scrutinio segreto -, in Italia è
spesso l’unico strumento che l’esecutivo ha per realizzare le proprie
scelte, di fronte a coalizioni divise, riottose o in via di
liquefazione, com’è ormai quella attuale, al termine della legislatura.
Ed
è un modo - legittimo, beninteso, ancorché non ordinario - di coartare
la volontà del Parlamento, ponendogli l’alternativa secca tra approvare
un testo o provocare la crisi di governo. Era stato lo stesso Gentiloni,
del resto, a dichiarare che non sarebbe intervenuto sulla legge
elettorale, lasciando che fossero le Camere a occuparsene. Di qui
appunto la doppia forzatura: la fiducia posta su una materia delicata,
di stretta competenza parlamentare come la legge elettorale, e per di
più al di fuori del programma concordato con la propria maggioranza.
Premesso
questo, forse bisognerebbe chiedersi cosa ha spinto a forzare il
governo, e sottinteso il Quirinale, la cui condivisione era necessaria
per avviare il percorso stabilito. E prima ancora, farsi un’altra
domanda: sarebbe stato meglio abbandonare anche il Rosatellum, dopo
l’affondamento del Tedeschellum a giugno, in balia dei franchi tiratori,
che già si preparavano alle loro scorribande, o adoperare tutti i mezzi
possibili per ottenere che la legislatura non si concluda senza aver
varato una nuova legge elettorale? In mancanza della quale,
ricordiamolo, si sarebbe andati a eleggere le nuove Camere con i due
differenti moncherini del Porcellum e dell’Italicum, lasciati in vita
dalla Corte costituzionale nel timore di un’emergenza. Oltre a produrre
risultati diversi per Camera e Senato, eventualità purtroppo già
verificatasi in precedenti elezioni politiche, non solo nel 2013, la
combinazione dei due sistemi elettorali avrebbe determinato con assoluta
certezza l’assenza di maggioranze, sia a Montecitorio sia a Palazzo
Madama. I lodatori del ritorno al proporzionale e ai «bei tempi» dei
governi che nascevano in Parlamento, questo avrebbero dovuto
considerarlo: nella Prima Repubblica, infatti, le maggioranze e le
coalizioni parlamentari erano in qualche modo obbligate dalla massiccia
presenza del Partito comunista, escluso per ragioni di quadro
internazionale dalla prospettiva del governo. Oggi invece un Parlamento
non in grado di dar vita a un governo e a una maggioranza, o capace di
esprimerne di incerti, navigherebbe sul filo dello scioglimento e di
molteplici richiami alle urne, com’è accaduto di recente in Spagna, con
conseguenze (vedi la secessione della Catalogna) determinate dalla
debolezza di un esecutivo di minoranza.
Nel merito, il Rosatellum è
tutto fuorché un toccasana, e non è sicuro (anche se è possibile) che
sia in condizione di condurre i cittadini a esprimere un chiaro
indirizzo che porti a un esecutivo stabile. Aver rinunciato al sistema
maggioritario - che in tutta Europa consente agli elettori di scegliersi
i governi, e in Italia, grazie al doppio turno contenuto nell’Italicum e
purtroppo dichiarato incostituzionale, avrebbe messo anche gli italiani
in condizione di decidere -, ha portato Gentiloni a un bivio
complicato: rassegnarsi al proporzionale, con la confusione che ne
sarebbe seguita, o acconciarsi al compromesso del Rosatellum, un mix
assai edulcorato di maggioritario e proporzionale (solo un terzo dei
parlamentari saranno eletti in collegi uninominali), aggravato
dall’imposizione finale della fiducia per approvarlo. Una forzatura
innegabile e forse incancellabile, dopo quella analoga e assai
contestata di Renzi sull’Italicum; ma resa necessaria, come s’è visto,
dal corso delle cose. Che porterà infine, c’è da scommetterci, il testo
della nuova legge, se approvata, per la terza volta all’esame della
Corte costituzionale; ed esporrà anche il prossimo Parlamento, se eletto
con il Rosatellum, al rischio di veder messa in dubbio la propria
legittimità. Dopo quasi cinque anni, dal punto di vista
politico-istituzionale e delle regole del gioco, l’Italia si avvia così a
uscire da questa legislatura peggio di come ci era entrata. Avremo, sì,
una legge elettorale: almeno questa. Ma a che prezzo.