domenica 8 ottobre 2017

internazionale 6.10.2017    
La matematica nella testa 
di Anil Ananthaswamy, New Scientist, Regno Unito


Per la matematica iraniana Maryam Mirzakhani, la prima donna a vincere la medaglia Fields, la matematica era un po’ come “perdersi nella giungla e cercare di usare tutte le conoscenze che hai per trovare qualche nuovo trucco”. “Con un po’ di fortuna, potresti trovare una via d’uscita”, diceva. Mirzakhani, che è morta il 14 luglio all’età di quarant’anni, si era avventurata più a fondo degli altri nella giungla della matematica. Ma tutti noi ci siamo avvicinati abbastanza da averne almeno un’idea. Sembra sempre più probabile che l’essere umano sia l’unico animale dotato della capacità cognitiva per orientarsi in quel sottobosco. Ma da dove viene questa capacità? Perché l’abbiamo sviluppata? E a cosa serve? Provare a rispondere a queste domande significa entrare in uno dei dibattiti più accesi della neuroscienza e ripensare da capo cos’è la matematica. Il mondo naturale è un luogo complesso e imprevedibile. Gli habitat cambiano, i predatori sono in agguato, il cibo finisce. La sopravvivenza di un essere vivente dipende dalla capacità d’interpretare la realtà che lo circonda, per esempio contando le ore che mancano al tramonto, trovando il modo più rapido per sfuggire al pericolo o cercando di capire dov’è più probabile trovare da mangiare. Tutto questo significa fare matematica, dice Karl Friston, neuroscienziato e fisico dell’University college London. “Nella matematica ci sono una semplicità, una parsimonia e una simmetria tali che, se la consideriamo dal punto di vista del linguaggio, vince a mani basse su tutti gli altri modi di descrivere il mondo”, dice Friston. Dai delfini ai funghi mucillaginosi, tutti gli organismi cercano d’interpretare il mondo matematicamente, decifrando schemi e regolarità per riuscire a sopravvivere. Secondo Friston, ogni sistema autorganizzato – e quindi ogni forma di vita – che interagisce con il suo ambiente ha bisogno di un modello implicito di quell’ambiente per funzionare. L’idea risale agli anni settanta e al teorema del “buon regolatore” sviluppato dal pioniere della cibernetica Ross Ashby insieme a Roger Conant. Per esercitare un controllo efficace, dice il teorema, il cervello di un robot deve avere un modello interno del suo corpo meccanico e del suo ambiente. “Questo principio è sempre più formalizzato nell’apprendimento delle macchine e nell’intelligenza artificiale”, spiega Friston. Il corollario è che anche il cervello di un animale deve costruire un modello del suo corpo e del mondo in cui si muove. Pensiero non richiesto La cosa sorprendente è che nessuna di queste creature è consapevole di quello che fa. Anche noi essere umani, quando corriamo per prendere una palla o sfrecciamo in mezzo al traffico, eseguiamo senza rendercene conto calcoli matematici molto complessi. Il nostro cervello usa costantemente modelli per prevedere cosa ci succederà, dice la teoria, e questi modelli vengono tenuti aggiornati attraverso il confronto tra le previsioni e le sensazioni concrete. Senza dubbio queste funzioni matematiche sono svolte da particolari settori del nostro cervello, dice Andy Clark, Filosofo cognitivo dell’università di Edimburgo. Ma questo non significa che nel cervello ci siano moduli specializzati simili ai tasti di una calcolatrice, che possiamo chiamare a comando per fare le moltiplicazioni o per risolvere equazioni. anche se cercano di assicurare la nostra sopravvivenza in un mondo complesso che risponde alle leggi della fisica, questi modelli, per la necessità di tenerci in vita, a volte devono scendere a compromessi quanto a correttezza. Prendiamo la fallacia dello scommettitore, la convinzione errata che se la pallina della roulette continua a cadere sul rosso, la cosa migliore è scommettere sul nero. In realtà la probabilità è identica, ma i modelli costruiti dal nostro cervello ci rendono ciechi di fronte a questa semplice osservazione statistica: forse, in origine era un modo per comunicare ai nostri antenati quando spostarsi da un terreno di caccia infruttuoso. oppure prendiamo la legge di Weber Fechner, che descrive la nostra reazione agli stimoli esterni. applicabile a tutti e cinque i sensi, la legge stabilisce che la nostra capacità di percepire la differenza tra grandezze simili diminuisce all’aumentare delle grandezze. Quindi, se è facile distinguere tra un peso di un chilo e uno di due chili, è molto più dificile distinguere tra uno di 21 e uno di 22 chili. Lo stesso vale per la luminosità, per il volume dei suoni e per il numero di oggetti che riusciamo a vedere. anche se il cervello umano condivide queste anomalie con quello di altri animali, la nostra specie ha sviluppato la capacità di individuare e correggere alcuni errori. Soprattutto, abbiamo inventato i numeri: un sistema di notazione che ci permette di dedurre istantaneamente che tra 21 e 22 c’è la stessa distanza che c’è tra 1 e 2. La creazione di questo complesso linguaggio simbolico ci permette non solo di superare certe limitazioni del nostro subconscio, ma anche di esplorare in profondità concetti astratti e comunicarli agli altri. Ma come abbiamo sviluppato gli strumenti per capire a livello cosciente quello che il nostro corpo fa istintivamente? Secondo una teoria consolidata, l’essere umano ha una consapevolezza innata dei numeri come ce l’ha dei colori. Nel suo libro Il pallino della matematica (Raffaello Cortina Editore 2010), Stanislas Dehaene ipotizza che l’evoluzione abbia dato agli esseri umani e ad altri animali la capacità di percepire in modo immediato il numero di oggetti in una sequenza. In altre parole, tre biglie rosse comunicano il senso del numero 3 proprio come comunicano il senso del colore rosso. Dehaene scrive che questa capacità è esatta per i numeri sotto al 4 e diventa più sfumata dopo, ma che è comunque innata. Grazie a questo istinto, il nostro sentiero nella giungla della matematica ci sembra subito più chiaro. Il senso della quantità Da allora gli elementi a sostegno di questa tesi “innatista” si sono accumulati. Elizabeth Spelke del Massachusetts institute of technology (Mit) e i suoi collaboratori hanno dimostrato che i bambini di sei mesi sono in grado di distinguere tra una sequenza di 8 punti e una di 16. Dehaene e il suo gruppo di lavoro hanno documentato che gli indiani munduruku della foresta amazzonica brasiliana, che non hanno vocaboli per indicare i numeri maggiori di 5, sono in grado di discernere in modo approssimativo quantità molto più grandi, a dimostrazione che questa capacità è indipendente dai fattori culturali. altri studi suggeriscono che l’essere umano si raffiguri istintivamente i numeri nello spazio su una linea immaginaria che cresce da sinistra a destra. Ci sono addirittura indizi che gli animali abbiano la capacità di distinguere tra i piccoli numeri di cui parla Dehaene. Tutto questo fa pensare a un senso innato dei numeri, che millenni di cultura hanno contribuito a sviluppare. Presto, però, alcuni ricercatori hanno cominciato a dubitare delle conclusioni di questi studi. È possibile, per esempio, che i soggetti distinguano tra due sequenze di puntini non in base al loro numero, ma ad altri attributi come la distribuzione nello spazio o la superficie occupata? “Sono elementi che spesso sono correlati ai numeri, quindi sarebbe poco saggio non usarli”, dice Tali Leibovich dell’università di Haifa, in Israele. “Se un animale selvatico deve cacciare qualcosa e deve fare in fretta, è meglio usare tutti gli elementi a sua disposizione”. Effettivamente, da esami più approfonditi risulta che l’essere umano si affida anche a questi elementi non numerici. Quindi si è fatta strada un’ipotesi diversa: forse, più che nascere con il senso dei numeri, nasciamo con il senso delle quantità – come la grandezza e la densità – che sono correlate con il numero delle cose. “Ci vogliono tempo ed esperienza per sviluppare e capire la correlazione”, dice Leibovich. Test cognitivi più mirati sui bambini tendono a confermare quest’ipotesi. Per esempio, i bambini sotto i quattro anni non riescono a capire che cinque arance e cinque angurie hanno una cosa in comune: il numero 5. Per loro, un po’ di angurie sono semplicemente “più roba” rispetto allo stesso numero di arance. anche insegnare ai bambini piccoli a riconoscere l’ordine dei numeri – a contare sulle dita – non basta a fargli capire immediatamente il significato dei numeri, dice lo psicologo dello sviluppo Daniel Ansari della University of Western Ontario, in Canada. Il significato lo apprendono in modo informale stando a contatto con genitori e fratelli. “È un segno della forte influenza delle pratiche culturali sull’apprendimento della rappresentazione esatta dei numeri”, spiega. Lo studio degli aspetti culturali della cognizione numerica è stato viziato da alcuni pregiudizi, dice Ansari: non è stata dedicata abbastanza attenzione ai dati provenienti da culture non industrializzate. Questi dati, dice, gettano seri dubbi sull’ipotesi innatista. Prendiamo gli yupno, un popolo della Papua Nuova Guinea. Rafael Núñez della University of California di San Diego ha scoperto, tra le altre cose, che non usano la linea numerica mentale che noi consideriamo universale. Inoltre, nella loro lingua non ci sono comparativi per dire che una cosa è più grande o più piccola di un’altra. Ma quella degli yupno non è una lingua primitiva, tutt’altro. Prendiamo gli aggettivi dimostrativi. In inglese ce ne sono solo quattro: questo, quello, questi e quelli, per esprimere la vicinanza o la lontananza di cose e persone. Gli yupno, invece, usano parole diverse per dire se qualcosa è più in alto o più in basso rispetto a loro (in linea con la natura montagnosa del territorio in cui vivono) e termini più sfumati per esprimere non solo se una cosa è vicina o lontana, ma anche di quanto. Gli yupno non sono i soli ad avere una lingua che non dà particolare rilevanza ai numeri. Núñez cita uno studio su 189 lingue aborigene australiane: tre quarti di queste lingue non usano parole per i numeri sopra il 4, mentre altre 21 non vanno oltre il 5. Secondo Núñez questo significa che il senso esatto del numero è un tratto culturale che emerge quando lo richiedono le circostanze, per esempio l’agricoltura e il commercio. “Centinaia di migliaia di persone usano lingue a volte anche molto complesse e raffinate, ma che non hanno una capacità di quantificazione esatta”, dice. anche le lingue che ce l’hanno, come l’inglese e il francese, arrivano fino a un certo punto. Nel 2016 Dehaene e la sua allieva Marie Amalric hanno pubblicato i risultati della scansione del cervello di 15 matematici e di 15 non matematici dello stesso livello professionale. hanno scoperto che nella testa dei matematici c’è una rete di regioni cerebrali legate al pensiero matematico che si attiva quando riflettono su problemi di algebra, di geometria e di topologia, ma non quando pensano ad argomenti non matematici. Nei non matematici questa distinzione non è visibile. Particolare fondamentale, questa “rete della matematica” non corrisponde alle regioni cerebrali legate al linguaggio. Significa che una volta appreso il loro linguaggio simbolico, i matematici cominciano a pensare in un modo che non è collegato al linguaggio normale. “Sembra strano, ma è un po’ come scaricare un’intuizione in un altro mondo, il mondo della matematica, fare un passo indietro e lasciarla parlare”, dice Friston. Meccanismi nascosti Questo sofisticato linguaggio matematico sicuramente si sviluppa in parte dal nostro senso innato dei numeri e delle grandezze, per quanto possa essere impreciso alla nascita. Ma probabilmente dipende anche da molte altre funzioni: il linguaggio per comunicare le idee, la memoria di lavoro per fermare e manipolare i concetti e anche il controllo cognitivo per superare pregiudizi come la fallacia dello scommettitore. Non sappiamo esattamente quando la cultura abbia trasformato i nostri istinti in una capacità matematica riconoscibile. Una delle prime tracce del rapporto tra l’essere umano e i numeri è stata rinvenuta nella Border cave sui monti Lebombo, in Sudafrica. all’interno della grotta gli archeologi hanno scoperto ossa di 44mila anni fa con incise delle tacche: sul perone di un babbuino ce ne sono addirittura 29. Secondo gli antropologi, questi oggetti servivano per contare e sono la prova di una prima interpretazione simbolica collegata alla rappresentazione e alla manipolazione consapevole dei numeri. La capacità di far di conto e misurare fece un salto di qualità intorno al quarto millennio aC. nella raffinata cultura mesopotamica della valle del Tigri e dell’Eufrate, nell’attuale Iraq. Eleanor Robson, dell’università di oxford, sostiene che in Mesopotamia la matematica fu un’invenzione culturale che si rese necessaria per contare i giorni, i mesi e gli anni, per misurare la superficie del terreno e le quantità di grano, e forse anche per i pesi. Quando l’essere umano cominciò ad andare per mare e a studiare il cielo, sviluppò le capacità matematiche necessarie per navigare e per descrivere il corso degli oggetti celesti. Ma tutto è nato sempre da un bisogno culturale. E se pensate che la matematica commerciale appartenga al passato sbagliate: alcuni degli strumenti matematici più evoluti sono sviluppati per scambiare azioni e obbligazioni a Wall street. Con l’aiuto degli strumenti matematici fondamentali l’essere umano ha costruito una gigantesca piramide di conoscenza. Negli ultimi cinquemila anni la matematica ha sconfinato in campi sempre più astratti, apparentemente sempre più lontani dai processi che governano il mondo che ci circonda. Eppure, più comprendiamo i meccanismi nascosti dell’universo, più queste innovazioni matematiche sembrano descrivere le cose che vediamo. Per esempio, quando David Hilbert sviluppò un’algebra estremamente astratta, che funziona in un numero infinito di dimensioni invece che nelle consuete tre dimensioni dello spazio, nessuno poteva prevedere che avrebbe trovato applicazione nel campo emergente della meccanica quantistica. Poi si è scoperto che questa struttura algebrica, detta spazio di Hilbert, era lo strumento migliore per descrivere lo stato di un sistema quantistico, e la matematica su cui si basava è ancora fondamentale per interpretare il mondo quantistico. Una scoperta L’ubiquità di questi collegamenti tra matematica e fisica spinse il fisico Eugene Wigner a parlare dell’“irragionevole efficacia della matematica” nel descrivere il mondo naturale. oggi molti fisici pensano che il successo del linguaggio matematico sia il riflesso del suo primato nell’organizzazione dell’universo. Tra questi c’è Max Tegmark dell’Mit. Secondo Tegmark, l’universo è una struttura matematica nel senso che ha solo proprietà matematiche: poco a poco ne scopriamo la struttura, rimuovendo i vari strati di polvere per svelare i teoremi e le dimostrazioni che descrivono la realtà. “Prima era facile elencare le poche cose in natura che si potevano descrivere con la matematica. ora è molto facile elencare le poche cose che non si possono descrivere”, dice Tegmark. anche la biologia, che ha resistito a lungo al rigore matematico, sta lentamente soccombendo, come dimostra la diffusione a macchia d’olio della matematica nella genomica o nella neuroscienza computazionale. Da questo punto di vista, più che un’invenzione la matematica è una scoperta. Per i ricercatori come Núñez, tuttavia, è una distinzione troppo semplicistica. “Quando ci si fa la domanda se la matematica sia stata inventata o scoperta, si parte dal presupposto che una cosa escluda l’altra. Se è stata inventata non è stata scoperta, e viceversa”. Ma le cose non stanno in questi termini, afferma. Prendiamo gli Elementi del matematico greco Euclide, che unificò tutte le conoscenze matematiche del tempo e codificò le leggi della geometria. L’opera di Euclide si basa su una serie di regole o assiomi, come quello secondo cui due rette parallele non s’incontrano mai. Nel corso dei secoli, i modelli ricorrenti, le regolarità e le relazioni che emergevano da questi assiomi “inventati” furono esplorati da altri matematici e dimostrati sotto forma di teoremi. In un certo senso, questi matematici “scoprirono” l’architettura della geometria euclidea. Ma poi, migliaia di anni dopo, altri matematici hanno deciso di partire da assiomi che contraddicevano quelli di Euclide. Per esempio, la geometria riemanniana, che deve il suo nome al matematico tedesco dell’ottocento Bernhard Riemann, si fonda esplicitamente sull’ipotesi che due linee parallele possano in realtà incontrarsi. Questo punto di partenza non ortodosso portò alla scoperta di un ricco filone di matematica a cui Albert Einstein attinse per formulare la teoria generale della relatività e descrivere la curvatura dello spazio-tempo. “Il mondo che ci circonda ha una serie di modelli ricorrenti, regolarità e modi di comportarsi, e ogni essere vivente che costruisce un modello matematico deve necessariamente partire dalle regolarità che restringono i comportamenti di tutto ciò che incontra”, dice Andy Clark. Ma a prescindere da quali siano gli assiomi di partenza, forse la matematica non è un sistema di pensiero completo come ci piace immaginare. Dobbiamo questa intuizione al teorema di incompletezza del logico austriaco Kurt Gödel. Gödel dimostrò che all’interno dei confini di qualsiasi sistema formale di assiomi e teoremi è possibile fare affermazioni che non possono essere né dimostrate né confutate. In altre parole, ci sono questioni che la matematica può porre, ma che non avrà mai gli strumenti per risolvere. In questo caso, forse è troppo presto per sbilanciarsi sulla verità universale della matematica. alla fine chi può dire se il nostro piccolo angolo di giungla sia rappresentativo della sua totalità? Ma i fisici come Tegmark sono ottimisti. Per lui, il più grande ostacolo alla costruzione di una teoria matematica del tutto è descrivere la coscienza, l’origine della nostra capacità numerica. La matematica può spiegare le sue stesse origini? “Sarà la prova finale dell’ipotesi che tutto è matematica”, dice.