lunedì 30 ottobre 2017

internazionale 28.10.2017
Le opinioni 
Quando le donne si ribellano 
di Laurie Penny

La dissonanza cognitiva è una droga diabolica. Soffoca i sensi delle società che dichiarano di disprezzare i predatori sessuali ma continuano a premiarli e a eleggerli. In questo momento, in tutto il mondo, sull’onda delle accuse contro Harvey Weinstein, tantissime donne e ragazze stanno finalmente trovando il coraggio di denunciare gli uomini che le hanno ferite e umiliate per tanto tempo. La resistenza alla cultura dello stupro sta diventando virale. E la buona società reagisce con un certo scetticismo: è possibile che sia successo a tante donne? E allora perché non hanno parlato prima? Non staremo esagerando? Sappiamo che esistono uomini come Weinstein, ma sicuramente sarà un caso isolato, un raro esemplare di mostro umano! Naturalmente tutti abbiamo sentito le voci che giravano. Tutti conosciamo un tipo all’antica che dopo qualche bicchiere allunga le mani. Ma pensiamo: non è uno stupratore. È un collega, un familiare, un amico. Com’è possibile? Ebbene sì, mi dispiace per voi, ma è possibile. Questa non è una moda né una reazione eccessiva. È una ribellione. È una ribellione perché comporta un rischio. Ci vuole coraggio per denunciare chi ha abusato di noi. Significa dimenticare tutto quello che ci hanno insegnato e abbiamo interiorizzato su quello che succede alle donne che creano problemi. Parlare sinceramente di violenza sessuale, chiamare lo stupro e l’aggressione con il loro nome, significa sfidare il potere degli uomini negando che possano ignorare i danni che provocano. E questa sfida comporta sempre qualche conseguenza. Se ti ribelli alla persona che ti ha stuprato, rischi di essere tagliata fuori dal mondo professionale, di essere chiamata pazza e bugiarda, di essere umiliata in pubblico e punita in privato. È così che funziona l’oppressione: esime quasi tutte le persone coinvolte dal prendere coscienza di quello che stanno facendo. Il motivo per cui tanti uomini possono dire di non essersi resi conto delle dimensioni del fenomeno degli abusi sessuali è che le donne e i bambini li hanno protetti da quelle informazioni. La cultura dello stupro è questa. Non è solo un sistema che permette ai violentatori di farla franca, li fa anche sentire a posto con la loro coscienza. Sulla scala delle comode illusioni, “non sapevamo che nel mondo ci fosse tanta violenza sessuale” sta a metà strada tra “quel tizio non arriverà mai alla Casa Bianca” e “è solo uno sfogo”. Sono sicura che molti di noi non sapevano veramente. Non sapere veramente è il passatempo preferito di quasi tutti i cittadini di una società oppressiva. Mi torna in mente un passo di They thought they were free (Pensavano di essere liberi), il racconto di Milton Mayer sulla vita degli iscritti al partito nazista di una piccola cittadina tedesca tra il 1933 e il 1945. Nessuno di loro sapeva quello che stavano facendo agli ebrei. Avevano sentito delle voci. Si erano accorti che alcuni vicini erano scomparsi. Nessuno sapeva e, al tempo stesso, tutti sapevano. Non sapevano perché avevano scelto di non sapere, perché era comodo non unire i puntini. E poi, come aveva detto un ex nazista a Mayer: “Un giorno, troppo tardi, i tuoi princìpi, se mai ne hai avuti, ti precipitano addosso. Il fardello dell’illusione diventa troppo pesante e improvvisamente crolla tutto. Vedi quello che sei, quello che hai fatto o, meglio, quello che non hai fatto. Perché alla maggior parte di noi veniva chiesto solo questo: di non fare niente”. Questo è esattamente il tipo di inconsapevolezza che permette a predatori come Weinstein di farla franca. Hollywood non sapeva, come la Silicon valley non sapeva, come tutta l’amministrazione Trump non sapeva. Sapere avrebbe significato dover agire secondo la propria coscienza. Perciò nessuno sapeva. E al tempo stesso tutti sapevano. Parlare era troppo doloroso e il rischio era troppo grande, quindi tutti si sono girati dall’altra parte. Finché non hanno più potuto farlo. Mettiamola in un altro modo. Pensate a questo momento in termini hollywoodiani. Verso la ine di ogni classico ilm di protesta c’è un momento in cui – proprio quando sembra che i cattivi abbiano vinto – improvvisamente, una persona si alza e dice che no, non è giusto. Dice “io sono Spartaco” o “capitano, mio capitano”. Mette giù i suoi attrezzi o il fucile. La macchina da presa inquadra la faccia terrorizzata di quella persona mentre si rende conto delle conseguenze della cosa stupida e folle che ha appena fatto. A quel punto qualcuno tra la folla si fa avanti e dice qualcosa che equivale a un “anch’io”. E poi un altro. E un altro ancora, e improvvisamente tutti si alzano e il regista inquadra l’intera folla ribelle che si alza e dice “anch’io”. E tutti noi: l’ingiustizia trionfa da troppo tempo e ne abbiamo avuto abbastanza. Lungo la schiena ci scorre un brivido di emozione, il volume della musica aumenta e quelle persone si rendono conto di non essere più sole. Tutti ci ricordiamo una scena così. È la scena che stiamo vivendo adesso. Quello che succederà dopo dipende da noi.  


LAURIE PENNY è una giornalista britannica. È columnist del settimanale New Statesman e collabora con il Guardian. In Italia ha pubblicato Meat market. Carne femminile sul banco del capitalismo (Settenove 2013).