internazionale 21.10.2017
Da sapere
Bambini senza futuro
I circa cinquemila figli dei combattenti del gruppo Stato islamico non hanno una patria né una nazionalità
di Martin Chulov, The Guardian, Regno Unito
In un angolo di un campo profughi a una sessantina di chilometri da Raqqa, un gruppo di donne e bambini vive separato dagli altri. Alle spalle di un edificio blu bambini biondi e castani corrono tra le lenzuola che le madri hanno appeso per creare delle specie di porte davanti alle stanze piccole e umide. Gli altri ospiti del campo di Ain Issa li chiamano “quelli del Daesh”: sono i familiari dei combattenti del gruppo Stato islamico (Is). Le donne sono le vedove dei combattenti jihadisti. Sono tutte straniere, e il loro futuro è molto cupo, anche rispetto a quello dei circa 12mila sfollati siriani e iracheni ospitati nel campo. Queste donne sono arrivate ad Ain Issa insieme alla folla di persone che ha abbandonato Raqqa dall’inizio di maggio del 2017. I loro volti e quelli dei loro figli hanno tratti molto diversi da quelli degli abitanti del posto, che le hanno consegnate subito ai funzionari curdi che amministrano il campo. I familiari dei jihadisti sconfitti che potevano fornire informazioni preziose sono stati rinchiusi da un’altra parte, le famiglie rimaste ad Ain Issa sono considerate meno utili. Mentre l’Is si dissolve, queste persone sono sempre più esposte. Nel nord della Siria e in Iraq le donne e i bambini del gruppo terrorista non sanno più dove nascondersi. Le organizzazioni umanitarie internazionali non riescono a stabilire il numero esatto delle vedove e degli orfani a rischio, respinti dalle comunità o finiti nelle mani di rapaci funzionari locali. “Nessuno vuole avere a che fare con loro”, dice Ahmed al Raqqawi, un uomo di 25 anni che ha combattuto contro l’Is nel centro di Raqqa. “Quando comandavano loro, si credevano dei re. Anche le donne”. Secondo alcune stime, negli ultimi quattro anni circa cinquemila donne hanno avuto figli con dei combattenti jihadisti. Alcune stanno chiedendo ai paesi d’origine dei mariti morti di accoglierle insieme ai loro bambini. Finora non hanno ottenuto risposta. Dal Regno Unito alla Francia all’Australia, nessuno ha ancora deciso come procedere, soprattutto per quanto riguarda i bambini. “Le donne che hanno scelto di lasciare il Regno Unito per andare in Siria devono assumersi la responsabilità delle loro scelte. Non torneranno a casa”, ha dichiarato un funzionario britannico. “I bambini però meritano compassione”. Il 6 ottobre la ministra della difesa francese Florence Parly ha dichiarato che i figli dei jihadisti francesi morti potrebbero essere accolti, ma non le madri. Negli ultimi tre mesi le Nazioni Unite hanno fatto pressioni sui paesi d’origine dei combattenti jihadisti affinché trovino una soluzione. “L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani è molto preoccupato per il destino dei bambini, che rischiano di diventare apolidi”, ha dichiarato Rula Amin, portavoce dell’Unhcr per il Medio Oriente e il Nordafrica. “Chiediamo ai governi dei paesi coinvolti di registrare le nascite di questi bambini e di assicurarsi che abbiano una nazionalità”. Negli orfanotrofi In Iraq, a sud di Mosul, la città riconquistata a luglio dalle forze del governo di Baghdad, il vicecomandante di una divisione dei reparti antiterrorismo Abdul Wahab al Saadi confessa di essere confuso. I suoi uomini tengono rinchiusi 1.800 donne e bambini, quasi tutti stranieri, in edifici fatiscenti. “In base alla legge irachena”, spiega, “non si possono perseguire i familiari di una persona che ha commesso dei reati. Ma è proprio quello che stiamo facendo. Il problema è che le tradizioni e i valori iracheni ostacolano il perdono di queste famiglie. La comunità internazionale deve intervenire. La società civile irachena, in collaborazione con le autorità locali, dovrebbe lanciare dei programmi di riabilitazione per queste persone”. Ma è improbabile che le comunità locali lo facciano. Su un volantino distribuito ai familiari dell’Is si legge: “I vostri figli dell’Is hanno fatto del male alla gente buona e pacifica di questa città. Ve ne dovete andare, qui non c’è posto per voi e la nostra pazienza sta per finire. Fate in modo di non trovarvi sulla traiettoria dei proiettili destinati ai vostri figli sciagurati. Voi non avete nulla, se non vergogna e disgrazia, i nostri martiri invece avranno la gloria eterna”. La funzionaria irachena Sukaina Mohammed Younes ha ricevuto dalle autorità di Mosul l’incarico di trovare una soluzione per i bambini in difficoltà che vivono nella sua zona: “Più di 1.500 familiari di combattenti dell’Is sono originari di quest’area, e vivono nei campi di Hamam al Alil, Jadaa e Qayyara. Poi ci sono i siriani, i russi, i ceceni e le persone di altre nazionalità. Di recente sono riuscita a trasferire in un orfanotrofio tredici figli di combattenti dell’Is. E poi sono riuscita a mandare un po’ di orfani a scuola, anche se sono apolidi e non hanno documenti di identità. Alcuni, però, non hanno neppure le scarpe. Questi bambini sono delle vittime”. “I bambini iracheni vivono separati da quelli stranieri”, continua Sukaina. “Non sappiamo cosa ne sarà degli uni e degli altri. Non ci sono piani a lungo termine. Di recente quattro bambini ceceni sono stati prelevati da un leader ceceno. Una bimba russa è stata presa in carico da una delegazione di Mosca. Gli iracheni se la passano peggio. Nessuno li vuole e non riesco a immaginare come farli tornare nelle città di nascita. Ma come si fa a dare la colpa ai bambini? Se non ci prenderemo cura di loro, iracheni o stranieri che siano, cresceranno e diventeranno peggio dell’Is”. Ogni giorno ad Ain Issa arrivano nuovi furgoni carichi di profughi siriani. A Raqqa gli ultimi abitanti rimasti in città si spostano dai quartieri controllati dai jihadisti alle zone in mano ai curdi. “Non gli facciamo niente di male, li mandiamo dalle forze di sicurezza”, dice Elyas, che comanda una squadra sulla linea del fronte. “Vengono trattenuti per circa un mese, dopo di che molti tornano liberi”. Questo non vale per gli stranieri che vivono nei campi profughi. Sulla parete di una stanza una donna ha scritto una frase in arabo: “Oh signore, lascia che la pioggia cada sul mio cuore e sommerga tutte le mie pene”.