Il Sole Domenica 8.10.17
Pollock, l’Icona dell’incertezza
Il
pittore americano «diventava una sola cosa con le sue opere, mentre le
costruiva», seguendo «regole e caso» come accade nella vita reale
di Armando Massarenti
Nei
quadri di Pollock le sgocciolature si susseguono con un margine di
casualità, ma poi il risultato finale «non poteva che essere quello».
Nella vita delle persone il caso via via si riduce, se guardiamo la vita
a posteriori, quando siamo diventati vecchi e ci sembra che la nostra
vita «doveva» essere quella. Questo è l’effetto che Robert Musil, lo
scrittore del romanzo-saggio L’uomo senza qualità, chiama «carta
moschicida»: «le persone adottano la persona che è venuta loro, la cui
vita s’è incorporata alla loro vita, giudicano le sue vicende ed
esperienze ormai come le espressioni delle loro qualità, e il suo
destino diventa merito o disgrazia loro. Qualcosa ha agito nei loro
confronti come la carta moschicida nei confronti di una mosca: qui ha
imprigionato un peluzzo, là ha bloccato un movimento, e a poco a poco li
ha avviluppati, finché sono sepolti in un involucro spesso che
corrisponde solo vagamente alla loro forma originale».
Analogo
effetto si può ritrovare in un quadro di Pollock con una semplice prova
che ho ripetuto più volte con la Foresta incantata. Se vi avvicinate
molto al quadro, circa dieci centimetri, potete perdere la visione
d’insieme e seguire la traiettoria di una sola sgocciolatura nera. Essa
si presenta come un segno autonomo, con il suo destino. Se vi
allontanate gradualmente, essa subisce l’effetto «carta moschicida»
perché interseca molte altre linee ed è intersecata creando un effetto
di destino comune, ben noto in percezione. Così, alla fine, quella
porzione di quadro è vincolata, non c’è più nessuna casualità. Non
poteva essere in altro modo, perché ogni linea ha incontrato le altre
che hanno innescato, appunto, il destino comune.
La realtà emerge
dal caos delle possibilità, le possibilità che Pollock ha fatto sue,
come nel montaggio di un film, dove quel che si scarta, prima della
scelta, aveva la possibilità di far parte della storia tanto quanto quel
che è diventato, alla fine, il film. Terminato il montaggio, tutte le
altre possibilità scompaiono e ogni traccia di casualità è scomparsa.
I
quadri di Pollock, gesto dopo gesto, sono come un film di cui non si è
visto il montaggio, sono l’unica realtà. E tuttavia, se esiste il senso
immediato di questa nuova realtà, come dice Musil nell’Uomo senza
qualità, deve esistere anche il senso della possibilità, dove regna la
volontà di costruire: «Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta
aperta deve tener presente il fatto che gli stipiti sono duri: questa
massima alla quale il vecchio professore si era sempre attenuto è
semplicemente un postulato del senso della realtà. Ma se il senso della
realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia
giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso
delle possibilità [...]. Un’esperienza possibile o una possibile verità
non equivalgono a un’esperienza reale e a una verità reale meno la loro
realtà, ma hanno, almeno secondo i loro devoti, qualcosa di divino in
sé, un fuoco, uno slancio, una volontà di costruire, un consapevole
utopismo che non si sgomenta della realtà bensì la tratta come un
compito e un’invenzione».
I quadri di Pollock costruiti con il
dripping ci mostrano l’intreccio tra la realtà finale del quadro e le
possibilità via via scelte nella costruzione, l’effetto di un
consapevole utopismo che non si sgomenta della realtà perché ne crea una
nuova. I gesti del dripping circoscrivono lo spazio delle possibilità,
secondo l’effetto «carta moschicida».
Se c’era stata incertezza,
questa non c’è più nell’opera terminata. C’è solo forza, emozione. È la
stessa forza con cui noi affrontiamo gli altri e la vita. In certi
momenti questa forza si coagula, si concentra, e illumina un pezzo della
realtà che assorbe le nostre emozioni. Allora il nostro mondo si
espande, il nostro io evapora, scompaiono i nostri gesti, non ci sono
più scelte personali, scelte decise da noi. Siamo catturati da
«chiamate», e quello che «chiama» lo abbiamo incontrato nel mondo: un
quadro, una persona, un libro. Tutte le nostre risorse cognitive ed
emotive sono assorbite da quel punto nello spazio, fuori dal tempo.
Dobbiamo immergerci in quel pezzo di mondo che ci comanda con un ordine
definitivo, finale, ineludibile, impellente.
Non siamo noi ad
avergli rivolto l’attenzione, è il mondo che l’ha richiesta. La cultura
dominante presuppone una dicotomia tra la testa che risolve, bene o
male, i problemi preesistenti e la descrizione delle «chiamate»,
delegata a teologi o a letterati. Soltanto lì trovate un abbozzo di
«teoria delle chiamate». Alcune s’inverano all’istante come nel racconto
Feuille d’Album di Katherine Mansfield. Si narra del pittore Ian,
sereno e solo: «Ian fissava il palazzo dall’altra parte della strada
[...]e all’improvviso, come in risposta al suo sguardo, i due battenti
di una finestra si aprirono e una ragazza uscì sul minuscolo balcone
[...]il cuore di Ian cadde giù dalla finestra del suo studio, e finì sul
balcone 19 del palazzo di fronte». Ecco una chiamata improvvisa e la
simultanea risposta. Altre volte una chiamata resta sospesa per tutta la
vita nel cuore della protagonista del racconto.
Alice Munro
termina così Ortiche: «Un amore non utilizzabile, che sapeva stare al
suo posto [...]un amore che non rischia niente, ma che si mantiene vivo
come una goccia di miele, una risorsa sotterranea». Altre volte, infine,
costretti dalle circostanze e dal mondo a cui apparteniamo,
abbandoniamo la chiamata. Un esempio di questo tipo di storia è in Le
nostre anime di notte di Kent Haruf. Il protagonista lascia l’amante
Tamara. Torna al suo mondo: «Ma penso di avere più rimorsi per il male
che ho fatto a Tamara che non a mia moglie. Ho tradito la mia natura, o
qualcosa del genere. È come se non avessi risposto a una chiamata, a
essere qualcosa di più di un mediocre insegnante di inglese in una
cittadina polverosa».
L’unico abbozzo di teoria psicologica delle
«chiamate» parte dalla nozione di «invito» usata per spiegare situazioni
in cui gli oggetti della quotidianità «chiedono» di eseguire
un’operazione con essi. Per esempio, un nuovo tipo di schiaccianoci, mai
visto prima, «chiede» di essere preso per i manici; un sasso
tondeggiante e piatto chiede di diventare un sedile, e così via. Anche
gli oggetti d’arte possono invitare: nel giardino della Collezione Peggy
Guggenheim, a Venezia, c’è una sorta di trono antico che invita ogni
bambina o bambino a sedersi per trasformarsi, per un istante, in una
regina o un re. Quello che fanno i quadri di Pollock, in questa
prospettiva, è un invito alle nostre emozioni «pure», prive di funzioni
strumentali, come avviene quando una nuova realtà, incontrata per la
prima volta, chiama.