il manifesto 7.10.17
L’ultima volta del Che
Che Guevara 50° anniversario della morte. Dal reportage dalla Bolivia di Franco Pierini su "L'Europeo" del 26 ottobre 1967
di Federico Cartelli
Roberto
Guevara non voleva crederci, per lui non esisteva alcuna prova che suo
fratello Ernesto fosse stato ucciso durante o dopo la cattura. Proprio
per questo era giunto a La Paz, per poterne vedere il corpo e così
capacitarsene; ma le autorità militari non glielo consentirono. La loro
versione fu anzi lapidaria: il cadavere era stato già cremato. Le cose,
in realtà, stavano diversamente: dopo un tentativo malriuscito
d’incenerirlo con la benzina, il corpo semicarbonizzato, tenuto nascosto
in una cassa, era stato seppellito in un luogo segreto vicino a
Vallegrande, a sette giorni dalla morte avvenuta in circostanze cruente.
Ernesto Guevara detto il “Che” (esclamazione usata dallo stesso per
porre l’attenzione su qualcosa), ritenuto dai soldati che gli davano la
caccia un rivoluzionario di professione, venne freddato all’alba del 9
ottobre di cinquant’anni fa con una rivoltellata dritta al petto, come
conseguenza rabbiosa di uno schiaffo mollato sulle labbra di un
ufficiale che da ore lo stava sfinendo con domande inquisitorie. Dopo 16
ore di sofferenza a causa delle ferite riportate nello scontro a fuoco
del giorno prima con i rangers boliviani (il corpo speciale
dell’esercito addestrato a Panama da marines americani) e
dell’interrogatorio cui era stato sottoposto fin dalla notte, Guevara
con le energie residue, disteso su una barella, aveva reagito al
colonnello Andres Selnich, capo di un raggruppamento tattico di truppe.
Alla scena si erano trovati ad assistere alcuni soldati feriti. La sua
fine, schiaffo o non schiaffo, era scritta comunque. E dunque non morì
per le ferite della sparatoria fra guerriglieri e soldati a Quebrada de
Churo, sulle montagne. Si trattò invece di un assassinio avvenuto nel
villaggio di La Higuera dove era stato condotto dopo la cattura. Agenti
del servizio informazioni degli Usa, per accertarne l’identità, giunsero
sul posto in quella stessa mattina. La guerriglia in Bolivia, con gli
ultimi seguaci del “Che” (meno di una decina) ormai dispersi, poteva
considerarsi conclusa.
E’ questo il succo del resoconto
giornalistico di Franco Pierini, inviato del settimanale “L’Europeo”
nella provincia di Vallegrande, in Bolivia, durante quei giorni che già
allora, vivendoli, sembravano appartenere alla storia. Il settimanale
italiano era stato uno dei primi al mondo a raccogliere testimonianze
dirette dalle zone della guerriglia in cui era stato preso il “Che”. “La
verità è questa: Guevara è stato ucciso con un colpo al cuore dopo che
aveva schiaffeggiato un colonnello”, asseriva in forma didascalica il
catenaccio della corrispondenza dell’”Europeo” del 26 ottobre 1967.
Nella quale veniva indicato il capitano Gary Prado Salmon, dei rangers,
come esecutore dell’uccisione di Guevara. (Ma l’ufficiale negò
ovviamente di esserne il responsabile). Già ferito alle gambe e al
torace non era stato complicato per Prado e i suoi uomini far
prigioniero Guevara, che subito dichiarò la propria identità, alla
confluenza di due canaloni che scendevano dalle alture in dei profondi
burroni. A nulla era valso il tentativo del combattente che si faceva
chiamare Willy, ultimo compagno d’avventura rimastogli, ucciso poi nello
scontro, di caricarselo sulle spalle per un’improbabile fuga. In sei,
fra i guerriglieri, erano stati i caduti nell’estremo conflitto a fuoco
che avrebbe segnato la fine del disegno rivoluzionario in Bolivia per
rovesciare il regime di quei militari che venivano definiti “mercenari
dell’imperialismo americano”. Di questi, furono almeno una sessantina i
caduti nel corso delle operazioni di repressione della guerriglia. Il
presidente della repubblica di Bolivia René Barrientos intendeva
liberarsi al più presto e in modo definitivo, una volta finito in
trappola, di un personaggio scomodo come Guevara: le idee che andava
diffondendo apparivano troppo rischiose per la stabilità politica
dell’intera America latina. Stabilità che gli Stati Uniti stavano
appoggiando con profonda dedizione, a tutela di propri interessi. Nei
riguardi del “Che”, illusosi di essere più utile da vivo che da morto,
se catturato, c’era comunque rispetto da parte degli stessi militari i
quali, nominandolo, dicevano “el senor” o “el doctor” Guevara.
La
lotta armata era iniziata nel marzo dello stesso anno con una forza d’un
centinaio di guerriglieri provenienti soprattutto da Cuba, Argentina,
Venezuela e Perù. Guevara, entrato clandestinamente in Bolivia sotto
falso nome, possedeva un passaporto uruguaiano. Proprio perché
stranieri, i campesinos, contadini e pastori, si erano mostrati
riluttanti a fornire appoggi. Il 90 per cento della popolazione
boliviana era d’origine india: in pochi parlavano la lingua spagnola; in
molti vivevano racchiusi in vallate di montagne desolate. Pertanto non
poteva sorprendere la diffidenza verso quegli infiltrati che compivano
fulminee imboscate nel loro territorio. Probabilmente era stato questo
uno dei motivi del fallimento della guerriglia che un rivoluzionario a
tutto tondo come il “Che” aveva cercato di esportare nei paesi del Terzo
mondo. E tuttavia, stando alle dichiarazioni a Pierini di un ufficiale
boliviano, colonnello Joaquin Zenteno Anaya, i militari non possedevano
alcuna certezza in quel 1967 della presenza di Guevara, “el jefe (il
capo) de los bandidos”, in Bolivia. Ci pensarono due dei loro, che
avevano partecipato alla lotta armata, a fornirla. Due intellettuali
come il giornalista scrittore francese Régis Debray e l’artista pittore
argentino Ciro Bustos. I quali vennero arrestati quasi all’inizio
dell’impresa boliviana, in aprile. Nel processo a suo carico che si
svolse a Camiri, Debray (futuro protagonista del maggio sessantottino a
Parigi) sostenne, difendendosi, che si trovava nel paese sudamericano
esclusivamente in veste di reporter per ricavare un’intervista dal
“Che”. Bustos invece all’interrogatorio rispose con dei ritratti:
disegnò a memoria i volti di alcuni guerriglieri, fra cui quello di
Ramon (nome di battaglia) che corrispondeva esattamente alla fisionomia a
tutti nota di Ernesto Guevara. La caccia partì da quelle dichiarazioni e
da quelle prove: quanto bastava per ritenere che era stata tradita,
secondo il colonnello Zenteno Anaya, la causa rivoluzionaria del “Che”.