venerdì 6 ottobre 2017

il manifesto 6.10.17
La terra di Bergoglio. Un messaggio contro la ubris del dominio sulla natura e sugli altri
di Guido Viale

Per Francesco la terra è innanzitutto il campo: la sede in cui si svolge e da cui dipende la vita di quei contadini di quei braccianti che, insieme ai recuperatori di rifiuti e di strutture abbandonate, costituiscono la base sociale principale dei movimenti popolari.
Quei movimenti radunati dal papa per offrire loro una sede dove coordinarsi, definire i propri obiettivi, far sentire la propria voce. A loro sono infatti rivolti tre dei principali discorsi che hanno caratterizzato la svolta che Francesco ha cercato di imprimere al ruolo della chiesa con il suo pontificato. Ma campo è inseparabile dal lavoro che lo rende fertile; e lavoro è un diritto di tutti, che va rivendicato con forza ed a cui va restituita la dignità negata dallo sfruttamento di un sistema fondato sul dominio incontrastato del dio denaro. Ed è inseparabile anche da tetto, il diritto a una casa, che fin dal suo primo discorso rivolto ai movimenti popolari Francesco declina nel senso di comunità, di vicinato, mutuo aiuto: il “fuori” senza il quale il “dentro” della casa si risolve in una prigione.
Ma Terra – questa volta con la maiuscola – è anche il pianeta in cui si svolge e da cui dipende la vita di noi tutti: un ambiente indissolubilmente trasformato dallo sviluppo storico, dalle opere, dai manufatti e dalle produzioni in cui si è concretizzata l’attività del genere umano, che è anche e soprattutto lavoro; come è inseparabile dal concetto di dimora: il luogo in cui le facoltà umane di ciascuno si possono sviluppare attraverso la convivenza e l’interscambio con il territorio e gli altri esseri umani che lo abitano.
In questa connessione tra il locale e il globale, tra il mondo del vissuto quotidiano e le prospettive dello sviluppo storico, tra il comportamento di ciascuno – analizzato fin nei minimi e apparentemente insignificanti particolari – e le scelte politiche da cui dipende il futuro dell’umanità e del pianeta sta la grandezza del pensiero di Francesco, che non ha eguali in nessuno dei leader politici e del personale di governo che oggi opprimono la popolazione del pianeta.
Francesco è un papa: si ritiene, e viene da molti considerato, il vicario di dio in terra; il suo pensiero è indissolubilmente legato al suo ruolo; e non potrebbe essere altrimenti. Per lui la Terra è parte del “creato”. Ma anche così, o proprio per questo, la Terra assume nel suo pensiero una propria autonomia e, attraverso i suoi cicli e i suoi equilibri, un ruolo regolativo nel definire che cosa è lecito e che cosa non è lecito nei comportamenti umani: non si può distruggere o sottrarre agli esseri umani campo, lavoro e tetto, ossia un ambiente sano, la possibilità di agire nella storia e le condizioni di una convivenza fondata sulla giustizia – che certo non esclude, ma anzi impone, il conflitto, e su questo Francesco è perentorio – senza far venir meno le possibilità di sopravvivenza per tutto il genere umano.
L’essere umano è per lui parte della Terra; non può contrapporsi più di tanto ai meccanismi che ne regolano cicli ed equilibri e ad essi si deve conformare. Non, quindi, la ubris del dominio sulla natura e sugli altri esseri, come per secoli è stato interpretato il messaggio biblico, bensì una consonanza con essi che fa del genere umano il custode, o uno dei custodi del, creato. Sono sanciti così sia l’abbandono di una concezione antropocentrica, prevalsa soprattutto con l’avvento dell’era moderna, sia l’adesione alla visione propria di quell’ecologia profonda che sta affermandosi, pur con grandi difficoltà, in molti campi della cultura e in gran parte dei movimenti autorganizzati del nostro tempo: una visione che Francesco abbraccia senza remore nell’enciclica Laudato sì.
È solo così, infatti, che si può riportare il lavoro, insieme alle sue finalità, ai suoi prodotti, ai suoi effetti sull’ambiente e sugli esseri umani, entro i limiti della sostenibilità, restituendo agli emarginati della Terra dignità e qualità della vita. Perché le vittime dell’aggressione alle risorse del pianeta sono soprattutto i poveri e sono loro, per forza di cose, quelli maggiormente interessati alla salvaguardia e al risanamento di tutto l’ambiente in cui vivono: dal “campo” al pianeta Terra; dall’aria che respiriamo e dal cibo che mangiamo – o che vorremmo mangiare – agli equilibri climatici globali. Per questo la giustizia sociale non è perseguibile al di fuori della giustizia ambientale, del rispetto della Terra, della salvaguardia dei suoi cicli e di tutto il vivente.
È in questo contesto che si situa l’impegno di Francesco a favore dell’accoglienza e dell’inclusione di tutti i migranti, che considera la conseguenza più evidente degli squilibri ambientali e sociali del mondo d’oggi: quelli che costringono milioni di esseri umani a fuggire da paesi che al momento, e forse per un lungo periodo, e forse anche per sempre, non danno loro più alcun accesso a un campo, a un tetto e a un lavoro, spingendoli a cercare queste cose in paesi lontani e sempre più ostili.
È un impegno non privo di ondeggiamenti e contraddizioni, come quelli testimoniati dagli scarti tra il discorso di Francesco in vista della giornata mondiale del migrante del 2018, e quel “primo, quanti posti ho?” pronunciato in aereo, di ritorno dall’America Latina, che ha dato modo a una parte della gerarchia ecclesiastica di fornire un assist immediato agli obbrobriosi respingimenti del ministro Minniti; per poi contraddirsi ancora nell’invito ad accogliere tutti i migranti “a braccia aperte”; aperte come il colonnato di san Pietro: quello sotto cui Francesco aveva invitato a trovar rifugio i senzatetto di Roma prima che le gerarchie vaticane li cacciassero di nuovo per non turbarne il decoro. Sono segni evidenti del fatto che quando dalle enunciazioni di principio si scende ai fatti, si aprono conflitti a tutto campo che non risparmiano nessuno, costringendo a continui ondeggiamenti.
Ma l’approccio che unisce giustizia sociale a giustizia ambientale resta comunque il tema di fondo che attraversa e domina tutta l’enciclica Laudato sì: un testo che riposiziona radicalmente le priorità e le prospettive della politica, della cultura e dell’agire quotidiano. Per i cattolici, nel solco di una continuità, che Francesco rivendica, con encicliche di precedenti pontefici; per i non credenti, in piena sintonia sia con il pensiero ecologista più radicale sia con le culture indigene, soprattutto quelle dell’America Latina, che hanno giocato un ruolo fondamentale in questa elaborazione.
La pubblicazione, per iniziativa del manifesto, di questo libro – che contiene, oltre ad alcune note di commento e di contestualizzazione, il testo integrale dei tre discorsi che Francesco ha rivolto al mondo in occasione degli incontri mondiali con i movimenti popolari – è anch’esso il segno di una volontà di rinnovare il proprio repertorio politico attingendo a fonti ed ambiti fino a pochi anni fa quasi impensabili.

La Stampa Vatican Insider 6.10.17
Il Papa alla Pontificia Accademia per la Vita: rispondere a chi intimidisce la generazione della vita
“Uomo e donna siano alleati. No all’utopia della sessualità neutra”
No alla negazione della differenza sessuale, l’«utopia del neutro»
Uomini e donne - che non devono essere subordinate - si alleino
Così all’Accademia guidata da Paglia: altrimenti la storia dell’uomo non sarà rinnovata
di Domenico Agasso jr

Città del Vaticano Maschi e femmine non devono solo «parlarsi d’amore»: l’alleanza «tra uomo e donna è chiamata a prendere nelle mani la regia dell’intera società». Lo afferma papa Francesco alla Pontificia Accademia per la Vita. Bisogna «contrastare le interpretazioni negative della differenza sessuale», di chi «vuole cancellare tale differenza». Il Pontefice attacca l’«utopia del neutro» che rimuove a un tempo sia la dignità umana «sia la qualità personale della trasmissione generativa della vita».

Parlando ai partecipanti alla XXIII assemblea generale dei membri della Pontificia Accademia per la Vita, guidata dal presidente monsignor Vincenzo Paglia, in corso in Vaticano dal 5 al 6 ottobre 2017, il Vescovo di Roma chiede che «le forme di subordinazione che hanno tristemente segnato la storia delle donne» vengano definitivamente abbandonate. Secondo il Papa, «un nuovo inizio dev’essere scritto nell’ethos dei popoli, e questo può farlo una rinnovata cultura dell’identità e della differenza». 
Per il Papa la questione della dignità della donna non si pone su un piano «semplicemente di pari opportunità o di riconoscimento reciproco». Il tema vero, ha spiegato, è quello di «una intesa degli uomini e delle donne sul senso della vita e sul cammino dei popoli». L’uomo e la donna non sono «chiamati soltanto a parlarsi d’amore, ma a parlarsi, con amore, di ciò che devono fare perché la convivenza umana si realizzi nella luce dell’amore di Dio per ogni creatura». Parlarsi e allearsi «perché nessuno dei due, né l’uomo da solo, né la donna da sola, è in grado di assumersi questa responsabilità».
Insieme donne e uomini «sono stati creati, nella loro differenza benedetta; insieme hanno peccato, per la loro presunzione di sostituirsi a Dio; insieme, con la grazia di Cristo, ritornano al cospetto di Dio, per onorare la cura del mondo e della storia che Egli ha loro affidato».
Per il Pontefice, «insomma, è una vera e propria rivoluzione culturale quella che sta all’orizzonte della storia di questo tempo. E la Chiesa, per prima, deve fare la sua parte. In tale prospettiva, si tratta anzitutto di riconoscere onestamente i ritardi e le mancanze».
Francesco ricorda che «il misterioso legame della creazione del mondo con la generazione del Figlio, che si rivela nel farsi uomo del Figlio nel grembo di Maria per amore nostro, non finirà mai di lasciarci stupefatti e commossi». Proprio «questa rivelazione illumina definitivamente il mistero dell’essere e il senso della vita».
L’alleanza «generativa dell’uomo e della donna è un presidio per l’umanesimo planetario degli uomini e delle donne, non un handicap. La nostra storia non sarà rinnovata se rifiutiamo questa verità». Evidenzia il Papa che «in quanto è ricevuta come un dono, la vita si esalta nel dono: generarla ci rigenera, spenderla ci arricchisce». Da qui il monito: «Occorre raccogliere la sfida posta dalla intimidazione esercitata nei confronti della generazione della vita umana, quasi fosse una mortificazione della donna e una minaccia per il benessere collettivo».
Non è «giusta l’ipotesi recentemente avanzata di riaprire la strada per la dignità della persona neutralizzando radicalmente la differenza sessuale e, quindi, l’intesa dell’uomo e della donna». Invece di «contrastare le interpretazioni negative della differenza sessuale, che mortificano la sua irriducibile valenza per la dignità umana, si vuole cancellare di fatto tale differenza, proponendo tecniche e pratiche che la rendano irrilevante per lo sviluppo della persona e per le relazioni umane».
Secondo Francesco, «l’utopia del neutro rimuove ad un tempo sia la dignità umana della costituzione sessualmente differente, sia la qualità personale della trasmissione generativa della vita». 
La manipolazione «biologica e psichica della differenza sessuale, che la tecnologia biomedica lascia intravvedere come completamente disponibile alla scelta della libertà, mentre non lo è, rischia di smantellare la fonte di energia che alimenta l’alleanza dell’uomo e della donna e la rende creativa e feconda». 
I l Papa denuncia anche l’«egolatria» e lo «spregiudicato materialismo» dell’«alleanza tra economia e tecnica», che propagano l’idea di «una vita come risorsa da sfruttare o da scartare in funzione del potere e del profitto». 
Francesco spiega inoltre che l’idea di «un benessere che si diffonderebbe automaticamente con l’ampliarsi del mercato» va di pari passo con l’allargamento «invece dei territori della povertà e del conflitto, dello scarto e dell’abbandono». 
Il Papa raccomanda «di ritrovare sensibilità per le diverse età della vita, in particolare per quelle dei bambini e degli anziani. Tutto ciò che in esse è delicato e fragile, vulnerabile e corruttibile, non è una faccenda che debba riguardare esclusivamente la medicina e il benessere. Ci sono in gioco parti dell’anima e della sensibilità umana che chiedono di essere ascoltate e riconosciute, custodite e apprezzate, dai singoli come dalla comunità». 
Una società «nella quale tutto questo può essere soltanto comprato e venduto, burocraticamente regolato e tecnicamente predisposto è una società che ha già perso il senso della vita. Non lo trasmetterà ai figli piccoli, non lo riconoscerà nei genitori anziani. Ecco perché, quasi senza rendercene conto, ormai edifichiamo città sempre più ostili ai bambini e comunità sempre più inospitali per gli anziani, con muri senza né porte né finestre: dovrebbero proteggere, in realtà soffocano».

Corriere 6.10.17
Il caso della lezione sul bondage all’Istituto Salesiano
Venezia, fa parte del master per psicologi. L’Università religiosa: «Tema attuale e di interesse scientifico»
di Gloria Bertasi

VENEZIA Corde e legature, sculacciate, collari e latex ma anche pratiche estreme di costrizione fisica. Non è la trama di un libro «hot», nemmeno la pubblicità di un sexy shop o di un orpello di piacere, è l’oggetto del convengo che si tiene domani a Mestre e, sorpresa delle sorprese, ad organizzarlo è l’Istituto Universitario Salesiano di Venezia (Iusve).
Esperti in psicologia, sessuologia e criminologia si alterneranno sul palco per parlare di «Bondage e masochismo, dominazione e sottomissione». Presso i Salesiani lagunari ci si laurea in Psicologia, Pedagogia e Criminologia e, unico nel suo genere, c’è un master universitario di secondo livello per psicologi e medici dedicato alla Sessuologia. Il convegno sul Bdsm, ossia quelle pratiche e fantasie erotiche che giocano sulla dominazione tra partner, è inserito proprio nell’ambito del master ma chiunque fosse interessato può partecipare.
Un tema insolito per un’università religiosa e probabilmente qualche fedele storcerà il naso o, quantomeno, si stupirà di vedere che un ambiente come quello dei Salesiani affronta un argomento che nemmeno tra i più laici è sdoganato. La società ne parla, sì, ma con molta circospezione.
Sicuramente ha sorpreso l’assessore regionale all’Istruzione Elena Donazzan: «Spero che sia uno scherzo di cattivo gusto, verificherò subito». Ma non è uno scherzo e domani, tra le 10 e le 17, si avvicenderanno esperti nel cercare di comprendere il limite tra piacere, sudditanza e crimine. La riflessione parte dall’ultima versione del Manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali del 2014 che derubrica il fenomeno del bondage e della dominazione-sottomissione a «parafilia», e cioè a una pulsione erotica, non una patologia. Quali i limiti leciti di queste pratiche, e, soprattutto in cosa consistono sarà approfondito da Iusve. «Alcuni esempi sono l’interesse intenso e persistente verso lo sculacciare, fustigare, tagliare, legare o strangolare un’altra persona — spiega letteralmente Salvo Capodieci, direttore del master in Sessuologia —. L’asticella che divide la normalità dalla perversione si sposta sempre più in basso e risulta difficile stabilire una demarcazione tra condotte ritenute accettabili o normali e quelle che non lo sono».
La mattina sarà dedicata all’approfondimento psicologico, il pomeriggio a questioni «vittimologiche» legate al Bdsm. A chi si chiede le ragioni di un seminario, che pochi si aspetterebbero di trovare in una scuola di formazione salesiana, risponde Nicola Giacopini, direttore del dipartimento di Psicologia, «L’interesse scientifico per il tema risponde ai bisogni formativi di professionisti e alla necessità di una riflessione antropologica e valoriale seria e profonda».

Repubblica 6.10.17
Il Vaticano, la Cina e la reciproca tolleranza
du Alberto Melloni

IL 18 OTTOBRE per la prima volta un papa parlerà al congresso del partito comunista cinese. Non andrà a Pechino, non usera la sua voce: ma lo farà con un’ intervista sui generis ad un gesuita cinese che esce domani su Civiltà Cattolica.
È la seconda volta che la rivista, le cui bozze vengono rilette sempre in Segreteria di Stato e talora a Santa Marta, porta un affondo politico di così grandi proporzioni.
Era già accaduto mesi fa col durissimo articolo sull’integrismo americano che ha fatto da prologo o da concausa all’uscita di Steve Bannon dalla Casa Bianca. Il conservatorismo statunitense s’è dimenato e ha rincarato la sua aggressività antibergogliana ma né carte inautentiche, né petizioni antipapali, né allusioni opache come quelle dell’ex revisore dei conti vaticano Libero Milone, hanno potuto evitare o vendicare l’escomio di Bannon.
Ora Civiltà Cattolica pubblica un’ intervista al gesuita cinese Joseph Shih: un prete novantenne, formatosi con Arrupe, per molti anni alla Radio Vaticana dell’era Tucci. “Con quella bocca può dire ciò che vuole”, recitava una antica réclame: e dalla bocca di Shih esce la posizione vaticana sulla Cina e sulla Chiesa in Cina, che è il grande orizzonte di questo papato e di questa segreteria di Stato.
L’ “intervista” contiene tre tesi decisive.
La prima è che in Cina esiste una Chiesa sola. La divisione tra la Chiesa patriottica e la Chiesa non riconosciuta è talora reale ed effettivamente dolorosa: ma non intacca, secondo questa “intervista”, una unità di fede più reale e più effettiva. Non è un fervorino: è la revoca della scomunica sui vescovi ordinati senza permesso papale. Che talora sono invertebrati (ce ne sono però anche fuori dalla Cina): ma talora sono preti generosi, con una comunione col Papa superiore a quella di tanti preti ecclesiastici. Preti che vivono con candore il dilemma che li attende. Passando nei seminari di Pechino e Shanghai (a me è capitato per qualche lezione) è facile vedere in quei volti docili coloro che un giorno dovranno decidere se prendersi cura di una diocesi, a rischio di non essere riconosciuti, o rifiutarsi: ed è arduo credere che lo Spirito non li assista mai.
La seconda è che esiste una formula di accordo fra Pechino e Vaticano ed è quella della “reciproca tolleranza”. Non un riconoscimento fra poteri come nei vecchi concordati: ma una distinzione di ordinamenti che non sono tenuti a riconoscere l’intrinseco valore dell’altro, ma a rispettarlo. Un modello che si potrebbe definire a-costantiniano. E di grande significato “politico” anche per quel corpo di eguali che è il cattolicesimo che può vivere la sua corporeità politica in due modi: o strusciandosi sul potere per avere sconti e favori, giustificando la propria intrinsichezza coi potenti in nome della libertas ecclesiae di Gregorio VII, dei valori non negoziabili di Benedetto XVI o perfino della ipocrita evocazione del “dare ai poveri”, come diceva Giuda Iscariota. Oppure può lasciarsi trovare nella Via (il primo nome dei cristiani), nel tentativo di vivere la forma del vangelo. Offrire reciproca tolleranza significa insomma che la Chiesa non vuole benedire né il partito né le politiche di un regime che, dice Shih «non cambierà per un lungo periodo» (cosa che tutti i regimi comunisti adorano sentirsi dire).
La terza tesi è la riabilitazione di monsignor Ma Daqin, vescovo di Shanghai agli arresti domiciliari nel seminario di Shanghai (che ho potuto solo vedere da un balcone in marzo, quando sono stato a far lezione a sei giovani studenti che avevano una traduzione in cinese dei dubia contro il Papa, finanziata dagli integristi americani...).
Monsignor Ma era stato scelto dopo che il predecessore era stato arrestato in modo molto “cinese”. Accusato di essersi dato appuntamento in un albergo (governativo) con una donna (moglie di un militare) di cui sarebbe stato amante (a detta della polizia). Era in effetti un piccolo capolavoro repressivo: il che lasciava la sua reputazione intatta a chiunque legga le cose, consentiva di arrestarlo senza perseguitare la Chiesa, e portava in sede un vescovo coraggioso e affidabile.
Tuttavia, al termine della sua consacrazione episcopale, monsignor Ma pronunziò un breve saluto e disse che per fare il vescovo si sarebbe dimesso da tutte le associazioni di cui faceva parte; inclusa quella dei cattolici “patriottici”. Forse spinto da un funzionario diabolico o da una angelica ingenuità o dalla umana stupidità. Fatto sta che la sera stessa è stato arrestato e non ha mai detto la sua prima messa in cattedrale.
L’ “intervista” a Shih dice che Ma non ha trattato né ha ritrattato, ma si è “svegliato”. E dunque può prendere possesso della diocesi senza bisogno d’altro — e con la benedizione papale.

La Stampa 6.10.17
In classe debutta il Corano
Nella scuola di Biella l’ora di religione è per tutti
Esperimento al via in un quartiere popolare
L’insegnante: “Così nessuno deve uscire dall’aula”
di Stefania Zorio

I bambini in classe leggono la Bibbia, ma anche il Corano. Succede alla scuola elementare di Chiavazza, uno dei quartieri più popolosi di Biella, dove c’è una grande concentrazione di case popolari e di immigrati. Qui l’insegnante di religione insegna ai suoi bambini il rispetto per il prossimo, ma soprattutto la necessità di conoscersi e di convivere, attraverso i fondamenti del cattolicesimo e delle altre religioni. Stefania Laveder è nella scuola da 20 anni. Oggi ha 11 classi e 250 allievi, con i quali ha un modo tutto suo di rapportarsi: «Non ho mai capito perchè durante l’ora di religione qualcuno debba essere lasciato fuori dalla classe. Tutti i bambini devono imparare a conoscersi e a stare insieme. In questa scuola ci sono tre o quattro allievi per classe che non sono italiani. Qualche anno fa erano anche di più, ma per via della crisi molti se ne sono andati». Stefania Laveder non vuole convertire nessuno: «Ognuno ha la propria cultura e deve farne tesoro – continua –. Ma è giusto che conosca anche quella del suo compagno. Il mio obiettivo è semplicemente fare trovare a questi bambini un punto di incontro, dando spazio a tutti. E in ogni caso, all’inizio dell’anno, spiego sempre ai genitori il mio programma, per chiedere loro se sono d’accordo».
Tra le esperienze che l’insegnante ha fatto vivere ai sui allievi c’è quella della «gita monoteista», come l’ha chiamata lei stessa. Partendo da scuola, i bambini in una giornata hanno visitato una chiesa cristiana, una sinagoga e una moschea. «Io stessa, per approfondire la mia conoscenza, sono andata in moschea per sapere qualcosa in più sulla religione islamica. Due mie allieve mi hanno anche regalato un Corano». A Natale gli studenti parlano della «nascita di Gesù», come la chiamano i musulmani. E i piccoli italiani sono molto incuriositi quando, parlando di sacramenti, l’insegnante spiega come avviene il battesimo nelle altre religioni: «I rituali sono molto diversi – racconta -. I musulmani ai neonati sussurrano le prime parole del Corano, affinchè la fede entri subito nel loro cuore. E i bambini sono inteneriti da questo». Nelle sue lezioni Stefania Laveder punta molto sulle letture ad alta voce, ma anche sui confronti e sui paralleli: «Ogni tanto, quando affrontiamo il tema della preghiera, cerco un bambino che non sia di religione cattolica, che non abbia timore e che sia disposto a leggerne una della sua fede davanti a tutti. Poi la mettiamo in relazione con il “Padre nostro”».

La Stampa 6.7.17
Colpo di spugna sul reato di stalking
Bastano 1500 euro per estinguerlo
Torino, il giudice: cifra congrua. La ragazza vittima aveva rifiutato il risarcimento
di Claudio Laugeri

L’operaio di 39 anni voleva conoscere la giovane venditrice ambulante di 24. Ha incominciato a seguirla in auto. Voleva capire dove andava, se era fidanzata. Una volta, due, tre. Il pedinamento non era certo un lavoro da professionista, la giovane ha chiesto aiuto in famiglia. Alla terza volta, l’operaio è stato bloccato dal padre e dal fratello di lei, che hanno chiamato i carabinieri. Arresto. Tre giorni di carcere. E processo con rito abbreviato per stalking.
La procedura
«L’accusa era comunque sproporzionata ai fatti», spiega l’avvocato Piersandro Adorno, difensore dell’operaio. È forte della decisione del giudice Rosanna La Rosa, che ha ritenuto «congrui» i 1500 euro consegnati dalla difesa come «riparazione» al danno subìto dalla giovane. Contattata dall’ufficiale giudiziario (come prevede la procedura), lei aveva rifiutato. La difesa dell’operaio, però, aveva versato quel denaro su un libretto di deposito giudiziario a nome della parte lesa, sempre come prevede la procedura. A questo punto, spettava al giudice valutare la congruità del risarcimento. E così è stato. Il giudice ha dichiarato «il reato estinto per condotte riparatorie».
La sentenza ha già fatto discutere, ma l’avvocato difende la decisione: «I fatti contestati erano davvero pochi e non ritengo fossero episodi di stalking. Il mio cliente ha avuto comportamenti sbagliati, inappropriati, ma non persecutori».
Nella denuncia, la giovane aveva parlato di più pedinamenti in meno di due mesi. «Tre episodi, lui aveva seguito la ragazza in auto. Voleva conoscerla, cercava di capire quali luoghi frequentasse, nulla di più. Ripeto, ha sbagliato, ma non voleva certo perseguitarla», aggiunge il legale. «Mai incontrata. Mai rivolto la parola. Mai toccata. Situazione ben diversa da molte altre, dove le molestie, le violenze fisiche e psicologiche sono pesanti, quotidiane».
Arresto e processo
Ancora l’avvocato Adorno: «Il mio cliente è rimasto in carcere tre giorni, il giudice ha imposto il divieto di avvicinamento alla ragazza e lui lo ha sempre rispettato. Ho scritto alla giovane per esprimere il rammarico dell’accusato e la disponibilità a un risarcimento. Mi ha risposo lei stessa, dicendo che non era interessata ai soldi».
La giovane non si è costituita parte civile e non ha mai incaricato un avvocato di assisterla nella vicenda. «Alla lettera ha risposto lei, senza intermediari. Ha rifiutato il risarcimento, come era suo diritto. Abbiamo seguito la procedura e il giudice ha valutato che la cifra fosse congrua per i fatti contestati», aggiunge il legale.
La vicenda, però, ha scatenato una ridda di polemiche politiche. In prima fila i deputati M5S in commissione Giustizia: «L’articolo sulla giustizia riparativa non doveva essere approvato in questo modo. Avevamo proposto che la vittima potesse opporsi alla decisione del giudice o che almeno venissero esclusi i reati contro la persona come lo stalking». Puntano il dito contro «il ministro Orlando e la stessa presidente (della commissione, ndr) Donatella Ferranti», che «avevano minimizzato». Ancora: «Tali autorevoli interpretazioni normative sono drammaticamente sconfessate dalla prima applicazione concreta della norma da parte del tribunale di Torino. Si dovrebbero vergognare e chiedere scusa alle vittime invece di scaricare la colpa sui giudici, è la norma e non l’interpretazione ad essere errata».

La Stampa 6.10.17
Il risultato
di una legge
sbagliata
di Linda Laura Sabbadini

Lo avevamo detto su questo giornale, lo avevano detto le donne dei sindacati e delle associazioni, purtroppo è successo ciò che non doveva succedere. Con un risarcimento di 1500 euro il reato di stalking si estingue. È l’effetto della riforma del codice penale che si applicava anche al reato di stalking, per la parte meno grave, e avevamo aspramente criticato.
Certo è avvenuto per un caso meno grave di stalking, per quelli gravi non sarebbe successo. Ma non va bene lo stesso. Primo, perché un caso meno grave per l’escalation della violenza può poi trasformarsi in uno grave. Secondo, perché si dà un messaggio terribile di ambiguità nei confronti della battaglia contro la violenza sulle donne. E cioè, un uomo stalker può farla franca con sole 1500 euro, senza essere condannato. Il nostro giornale aveva salutato positivamente la posizione assunta dal ministro della Giustizia Orlando che si era detto pronto a trovare adeguata soluzione. Ma purtroppo il tempo è passato e gli effetti di una norma errata cominciano a vedersi. Bisogna reinserire lo stalking anche non grave (a querela remissibile) tra i reati a cui non si applica la estinzione del reato mediante pagamento di un risarcimento. E dare un messaggio chiaro, univoco.
Chi è autore di stalking commette un reato, e questo non può essere estinto pagando. Quindi, lo stalker deve essere condannato. Ci vuole molto? No. Deve essere fatto per le 3 milioni e mezzo di donne che hanno subito stalking nel corso della vita. Per quelle che in gran parte non denunciano, l’85%, che spesso pensano che tanto non cambierebbe nulla e che adesso non denuncerebbero perché sanno che lo stalker potrebbe cavarsela pagando ridicoli risarcimenti.
La violenza contro le donne è uno dei reati più difficili da combattere, ci vuole tanto tempo, tanto impegno e tanta coerenza nei messaggi che si danno e nelle azioni che si fanno. Si può sbagliare, ma si deve correggere velocemente l’errore commesso.

La Stampa 6.10.17
Compleanno democratico tra sogni e paradossi
di Marcello Sorgi

Sabato prossimo, 14 ottobre, il Pd celebrerà al Teatro Eliseo di Roma il decennale della sua nascita. Già la scelta del luogo è significativa: all’Eliseo Berlinguer il 15 gennaio del 1977 proclamò la scelta dell’austerità - il dovere della sinistra di farsi carico del peso della crisi economica -, che preludeva al sostegno attivo, dalla «non sfiducia» all’ingresso in maggioranza, al governo guidato da Andreotti. Una prova di responsabilità che non fu capita: e infatti alle elezioni del ‘79 il Pci fu sconfitto e tornò all’opposizione.
Quanto a Veltroni, fondatore del Pd, 10 anni fa a Torino realizzò la svolta più coraggiosa mai impressa all’interminabile «stop and go» della storia della sinistra italiana. Nel tentativo di ricucire la separazione tra l’anima massimalista e quella riformista, delineò un partito «a vocazione maggioritaria», aspirante cioè a raccogliere i voti di tutti gli elettori di sinistra, e un programma che, rompendo con la tradizione di continuità, accettava per la prima volta di fare i conti seriamente con il capitalismo, la libertà d’impresa, i limiti da imporre al ruolo dei sindacati, le improcrastinabili riforme economiche dell’era della globalizzazione, la democrazia maggioritaria e la necessità di presentarsi con un candidato premier che sarebbe diventato capo del governo davanti agli elettori.
Dopo la sua sconfitta (seppure con quasi il 35 per cento dei voti) alle elezioni del 2008 e le sue dimissioni dalla segreteria nel febbraio 2009, alla guida del Pd sono stati: Franceschini per un breve interregno, Bersani eletto con le primarie, Epifani per un secondo interregno, e Renzi, eletto e rieletto con le primarie. La scissione di Mdp dello scorso febbraio, con l’uscita di dirigenti come lo stesso Bersani e D’Alema, che avevano condiviso la piattaforma programmatica della fondazione, e l’iniziativa «Campo democratico» di Pisapia, hanno messo in crisi l’idea del partito unico del centrosinistra. Così Renzi è al bivio tra ripresentarsi da solo, come Veltroni nel 2008, o tornare alla coalizione con tutte le diverse anime del centrosinistra, come Bersani nel 2013.
Ma il paradosso di questa vicenda, con tutto ciò che di bene e di male è accaduto nel decennio, è che il Pd, dopo essersi dilaniato dal 2007 al 2017, alla fine s’è spaccato perché è arrivato un segretario, come Renzi, che forse troppo spregiudicatamente e senza badare alle maggioranze con cui lo faceva, da presidente del consiglio ha cercato in tutti i modi, e in buona parte è riuscito, a realizzare il programma enunciato da Veltroni dieci anni fa.

Il Fatto 6.10.17
Lo spirito del 1948
Basta con le leggi elettorali pensate per zittire gli elettori
La petizione - Per un sistema che sia democratico
di Lorenza Carlassare

Ripubblichiamo parte dell’intervento che la professoressa Carlassare ha tenuto a Roma al convegno dei Comitati del No lunedì 2 ottobre
Da anni siamo costretti a parlare di leggi elettorali: i vertici politici, che non si rassegnano all’idea di doversi misurare continuamente con le istanze del corpo sociale, cercano di soffocarle con ogni artificio, contro l’ art. 1 “La sovranità appartiene al popolo” dove il verbo “appartiene” non è scelto a caso. I Costituenti dopo attenta discussione, lo sostituirono a “emana”, proposto inizialmente, per evitare il rischio che venisse interpretato nel senso che il popolo, attraverso il voto, trasferisce la sua sovranità. Era loro fermissimo intento affermare, senza equivoci, che la sovranità è del popolo e nel popolo continua a rimanere. Non è legittimo recidere i canali di trasmissione delle domande sociali alle istituzioni: alla legge elettorale non è consentito.
La Costituzione del 1948 è frutto dell’impegno collettivo di persone animate da grandi speranze e profondi ideali, unite nell’intento di dar vita a un sistema nuovo fondato sui valori di libertà e democrazia appena ritrovati, che si volevano salvaguardare in futuro. In una straordinaria stagione ricca di fermenti vitali ogni scoria del cupo passato era allontanata, così come ogni artificio antidemocratico di cui si era avvalso il regime: maggioranze truccate, premi per dominare schiacciando gli avversari politici, liste bloccate imposte agli elettori . L’obiettivo era la partecipazione “la partecipazione di tutti” come dice l’art. 3; e lo conferma l’art. 49: i cittadini, “Tutti i cittadini” – precisa la norma – hanno il diritto associarsi in partiti “per concorrere con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale”. Nessuno escluso.
Nello spirito del 1948 non poteva esserci che un sistema proporzionale con una modalità di voto in grado di tener saldo il rapporto fra elettori ed eletti: “La sovranità spetta tutta al popolo che è l’organo essenziale della nuova costituzione… l’elemento decisivo, che dice sempre la prima e l’ultima parola”. E dunque, il fulcro dell’organizzazione costituzionale è nel Parlamento “che non è sovrano di per se stesso; ma è l’organo di più immediata derivazione dal popolo”, si legge nella Relazione di Meuccio Ruini all’Assemblea costituente.
E il popolo è costituito da tutti i cittadini, altrimenti si ha una democrazia dimezzata. Secondo “la definizione minima” di Norberto Bobbio, per “regime democratico s’intende primariamente un insieme di regole e di procedura per la formazione di decisioni collettive, in cui è prevista e facilitata la partecipazione più ampia possibile degli interessati”. Era questo il pensiero dei Costituenti.
Durante i lavori della Commissione dei 75 (Seconda Sottocommissione, 7 novembre 1946), il grande costituzionalista Costantino Mortati propose di inserire in Costituzione il principio della rappresentanza proporzionale “perché costituisce un freno allo strapotere della maggioranza e influisce anche, in senso positivo alla stabilità governativa”. Prevalse invece l’idea di lasciare la materia elettorale alla legge ordinaria anche più tardi, quando se ne discusse in aula; un emendamento presentato dall’on. Giolitti non fu approvato.
Ma il suo contenuto, è importante ricordarlo, trasformato in ordine del giorno, venne invece approvato: “L’Assemblea costituente ritiene che l’elezione alla Camera dei deputati debba avvenire secondo il sistema proporzionale” (23 settembre 1947). È un impegno solenne. Non si può dunque affermare, come di recente Fusaro, che la Costituzione “nulla dice… su come trasformare i voti in seggi. Nulla. Ma proprio nulla di nulla”. Se la Costituzione non ne parla espressamente, il principio della rappresentanza proporzionale è implicito nel sistema complessivo oltre che in precise disposizioni: articolo 72 – le Commissioni in sede legislativa devono essere composte “in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari”; articolo 82 – ciascuna Camera, esercitando il potere parlamentare d’inchiesta, nomina “fra i propri componenti una Commissione formata in modo da rispecchiare la proporzione fra i vari gruppi”; art. 83 – all’elezione del presidente della Repubblica “partecipano tre delegati per ogni Regione, eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze”. Un sicuro “plurale” che non ha nulla di generico.
Il modello dei Costituenti, sottolineava Livio Paladin, è quello delle “democrazie di stampo liberale e dunque pluralistico che vuole temperare il principio maggioritario sia attraverso la rigidità della Costituzione e il controllo di costituzionalità sulle leggi, sia garantendo le libertà fondamentali, a cominciare dalla libertà di associazione e di manifestazione del pensiero”.
Le minoranze sono l’essenza del costituzionalismo liberale e sulla possibilità di far sentire la loro voce sono basati gli istituti giuridici posti a tutela dei diritti costituzionali , dai diritti di libertà ai diritti sociali. Per garantirli le Costituzioni esigono che la loro disciplina sia riservata alla legge, approvata dal Parlamento dove hanno voce anche le minoranze e non da fonti del governo dove la sola maggioranza è presente.
La distorsione della rappresentanza – dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale – alterando la composizione delle Camere si ripercuote pesantemente sulla vita dei cittadini: in assenza di voci in grado di difenderli i diritti sono gravemente incisi, il pensiero minoritario sacrificato. Ormai, che la norma sia fatta dal governo o dal Parlamento dove la maggioranza domina incontrastata, è la stessa cosa. Soffocate le minoranze, a nulla vale la rigidità della Costituzione; a tutelarla non bastano le garanzie giuridiche: se non sono accompagnate dalle garanzie politiche assicurate dal pluralismo risultano del tutto inefficaci. Una maggioranza artificialmente creata non trova più i limiti politici consueti in democrazia; le altre forze, ridotte all’irrilevanza, come possono svolgere un’opposizione efficace?

il manifesto 6.10.17
Il Rosatellum piegato ai più piccoli
Legge elettorale. Per venire incontro alle richieste di tutti e stendere una rete di protezione in vista dei voti segreti in aula, il nuovo sistema di voto smentisce gli annunci del Pd. Dall'abbassamento della soglia di sbarramento al recupero dei perdenti, i renziani inseguono Forza Italia e Alfano, ma anche governatori, micro partiti e singoli fuori controllo
di Andrea Fabozzi

Una fatica tenere in piedi il Rosatellum-bis. Malgrado l’alleanza a quattro tra Pd, Forza Italia, Lega e Ap possa contare su una circostanza fortunata. Alla camera, dove il regolamento consente i voti segreti (e saranno tanti, una novantina), ha dalla sua un margine ampio, circa 400 voti su 630. Al senato, dove invece i margini sono assai più stretti (una trentina di voti in più), niente scrutini segreti. Eppure condurre in porto una legge elettorale con il parlamento che vede ormai la fine è impresa complicata; in questa fase si fanno già le liste e ogni singolo deputato tende a guardare al suo destino prima e più che a quello del partito. Così anche il passaggio della nuova legge in commissione, in teoria senza problemi perché gli emendamenti sono pochi e la maggioranza è ampia, si rivela faticoso. Il Rosatellum deve cambiare e piegarsi per raccogliere il massimo di consensi trasversali. Il Pd si dimostra assai flessibile.
Una giornata intera di votazioni in commissione affari costituzionali non è bastata, oggi si replica e prima di sabato non si chiude. Tutto per mandare in aula martedì prossimo un testo a prova di franchi tiratori. Nuove norme discutibili entrano, vecchi difetti resistono e persino peggiorano. Eccoli.
Forza Italia ha ottenuto l’allargamento dei collegi proporzionali e di conseguenza la loro riduzione: prima erano quasi ottanta, adesso saranno 60 o un paio in più. Il numero esatto non si conosce, perché la legge fissa i criteri (abbastanza rigidi) ma tocca al governo e a una commissione provvedere al disegno concreto dei collegi. Il relatore Fiano (Pd) ha riformulato un emendamento Sisto (Fi) in modo che il partito di Berlusconi, che si sente forte solo in una parte del paese, il nord grazie all’accordo con la Lega, possa fare il pieno dei seggi nelle sue roccaforti. Ognuno dei 60 collegi eleggerà adesso fino a 8 deputati. Ma le liste bloccate per il proporzionale devono (lo ha imposto la Corte costituzionale) restare corte, massimo 4 nomi. Il che espone al rischio di liste insufficienti, con troppo pochi candidati rispetto agli eletti (successe nel 2001 per colpa delle liste civetta) se in un collegio una lista dovesse superare il 50% (è successo, e di nuovo bisogna tornare al 2001 quando si votò con il Mattarellum, cui questa legge si ispira). In questo caso si rimedierebbe pescando gli eletti in altri collegi o in altre liste, con tanti saluti alle intenzioni degli elettori. E non solo, perché il relatore Fiano potrebbe accogliere due emendamenti (Pd e Fi) che prevedono il recupero dei migliori perdenti nelle sfide uninominali. Un po’ com’era al senato nel Mattarellum. Ma così scolora ulteriormente quella quota di maggioritario (37%) che per i renziani è il vanto della legge.
I collegi grandi poi, in casi limite, potrebbero produrre un risultato paradossale. Perché i candidati per ogni lista così sono pochi: 240 al proporzionale e 231 all’uninominale. Considerando che si vuole allargare a quattro le possibilità di pluricandidature, in teoria un partito come Forza Italia potrebbe candidare alla camera anche solo 120 persone in tutto il paese. E 120 sono anche i seggi che, sulla base dei sondaggi, potrebbe conquistare. Ovvero tutti eletti. È un caso limite, lo ripetiamo, ma aiuta a sostanziare le accuse di chi parla di «fabbrica di nominati».
Altra novità è l’abbassamento della soglia di sbarramento. L’emendamento Lupi (Ap) sarà votato oggi e prevede che anche i partiti che restano sotto il 3% a livello nazionale possono conquistare seggi in senato se superano quel limite in almeno tre regioni. Dovranno essere regioni grandi per dare diritto a un seggio con una percentuale bassa. Alfano può contarci in Sicilia, Mdp probabilmente in Emilia, più che in Umbria. L’emendamento, che Forza Italia non voleva, potrebbe servire anche a una nascente lista di governatori regionali. Non a caso è stata respinta la proposta di buonsenso di estendere anche ai governatori l’incompatibilità con il mandato parlamentare che è già dei sindaci. Contemporaneamente il presidente pugliese Emiliano ha benedetto il tentativo di Renzi di ricostruire una coalizione. Resta comunque per tutte le prossime «false» coalizioni (perché senza simbolo né programma né leader comune) il vantaggio delle liste a perdere: quelle che con appena l’1% dei voti regaleranno consensi agli alleati maggiori.
Così come resta il divieto di voto disgiunto, una costante delle proposte renziane di questa stagione. Perché permette di fare campagna per il voto utile. In questo caso c’è una perversione in più, perché non si è trovato un meccanismo razionale per consentire il trasferimento del voto unico dal candidato uninominale alla lista di partito, se il candidato è sostenuto da una coalizione. La soluzione del Rosatellum è di dividere quel voto tra le liste della coalizione, proporzionalmente alla loro consistenza. Un sistema che abbiamo paragonato all’8 per mille che favorisce la Chiesa più grande. Invece di abolirlo, Pd e Forza Italia, golosi di quei consensi piovuti dall’alto, hanno escogitato una soluzione grottesca: questo complicato meccanismo sarà riportato all’esterno della scheda elettorale. In una formulazione che (al momento) occupa sei righe di testo. Così non saranno solo gli scrutatori a impiegare il doppio del tempo nelle operazioni di spoglio, anche i cittadini avranno bisogno di mettersi comodi nelle cabine elettorali. Un’assurdità, un’«imprudenza», anche per la minoranza orlandiana del Pd che chiede modifiche in aula. Eppure non è da questo genere di obiezioni politiche che il Rosatellum dovrà guardarsi, quanto invece dai franchi tiratori.

Il Fatto 6.10.17
Più “cacicchi” e nominati. Il Rosatellum-2 peggiora
Gli emendamenti per abbassare le soglie in Senato e “gestire” meglio i futuri eletti
di Tommaso Rodano

La maggioranza a guida Pd-Forza Italia-Alfano-Lega che porta avanti il Rosatellum sta riuscendo in un’impresa eroica: prendere gli aspetti più controversi della legge elettorale e renderli ancora peggiori, grazie a un’accurata selezione degli emendamenti in commissione Affari costituzionali. Gli obiettivi sono due: da una parte garantire il massimo della frammentazione, del trasformismo e il più alto numero di liste civetta; dall’altra ottenere il maggior controllo possibile sui nominati nei listini bloccati. Il patto sul Rosatellum bis è solido, la legge degenera: ieri alla Camera sono stati bocciati tutti gli emendamenti delle opposizioni che avevano l’obiettivo di introdurre le preferenze (sia facoltative che obbligatorie) e permettere il voto disgiunto (se si sceglie un candidato in un collegio uninominale, si può votare solo uno dei partiti che lo appoggia). È stata bocciata anche la proposta di Fratelli d’Italia di introdurre un premio di maggioranza per chi dovesse arrivare al 40%.
La maggioranza invece ha segnato una doppietta. Il primo emendamento è già approvato: diminuisce il numero dei collegi plurinominali e di conseguenza aumenta il controllo dei partiti sugli eletti nei listini bloccati. L’altro capolavoro invece è in gestazione: Pd, Forza Italia e Ap stanno lavorando a un emendamento ad hoc per aumentare l’importanza di liste civetta, capibastone locali e alleanze variabili al Senato. Vediamo nel dettaglio. Soglie di sbarramento. L’impianto originale del Rosatellum non cambia: la soglia rimane al 3%. La lista che non supera lo sbarramento ma riesce a racimolare l’1% a livello nazionale “devolve” i propri voti alla coalizione di appartenenza. Questa norma, come noto, favorisce chi ha la capacità di stipulare piccole alleanze territoriali: gli aggregatori delle cosiddette liste civetta.
Questo principio, per la maggioranza, va rafforzato. È pronto un emendamento che abbasserà ancora l’asticella. Lo chiamano “salva Alfano”, e in effetti il partito del ministro degli Esteri ne ha rivendicato la paternità con una nota: “Alternativa popolare chiede che i partiti che non raggiungono la soglia del 3% a livello nazionale, ma la raggiungono in almeno tre Regioni possano eleggere senatori in quelle, e solo in quelle, Regioni”. Traduciamo: basterebbe superare la soglia in Puglia, Sicilia e Lombardia (tre nomi a caso) per portare i propri uomini a Palazzo Madama (non alla Camera).
Sarebbe il trionfo delle alleanze variabili, Regione per Regione, dei notabili e delle clientele (soprattutto al Sud), la garanzia della proliferazione di liste civiche di qualsiasi tipo: cacicchi e capibastone vedrebbero schizzare il proprio valore nel mercato politico. Chi ha studiato le prime proiezioni di questa norma, sostiene che dalla “salva Alfano” potrebbero scaturire addirittura una trentina di senatori, quasi un decimo di Palazzo Madama. Sarebbero eletti sulla base di interessi e fedeltà locali, autonomi dalla coalizione che li ha portati in Parlamento e pronti a ogni grande coalizione a venire.
Meno collegi. Il relatore del Rosatellum, Emanuele Fiano, ha fatto approvare – con una nuova formulazione – un emendamento presentato mercoledì sera dal forzista Paolo Sisto. L’obiettivo è aumentare la grandezza dei collegi plurinominali e, di conseguenza, diminuirne il numero. Fino a ieri – con i criteri stabiliti nel testo originale – i collegi sarebbero stati tra i 75 e i 77. Con le nuove norme fissate dall’emendamento saranno invece circa 65. Sembra un dettaglio irrilevante, non lo è: avere meno collegi significa poterli gestire meglio, avere più controllo dei listini bloccati composti da 2-4 candidati. Per i partiti, insomma, sarà più facile determinare gli eletti: i nominati saranno più nominati.
Grande coalizione.A destra si è litigato per la bocciatura dell’emendamento di Fratelli d’Italia sul premio di maggioranza. Secondo l’ex berlusconiano Ignazio La Russa, con il suo voto contrario Forza Italia ha gettato la maschera: “Osservo che per FI è venuto meno il vincolo col centrodestra; per loro è più importante il vincolo con il Pd. Sembra quasi che cerchino a tutti i costi di perdere per poter poi fare governi con altri e non col centrodestra”.

il manifesto 6.10.17
L’antivirus si chiama proporzionale
Legge elettorale. L’Italicum, il Consultellum Camera, il Rosatellum nella versione originaria e nelle modifiche di cui si parla, sono in vario modo la medicina che uccide il malato
di Massimo Villone

Per capire meglio la colluttazione in atto nella Commissione affari costituzionali della Camera in tema di soglie di sbarramento e coalizioni bisogna tornare ai fondamentali. Proporzionale o maggioritario? Alcuni – tra cui io – insistono sul ritorno al proporzionale.
Passatisti ultras? Niente affatto. Il maggioritario in qualunque forma – uninominale di collegio o proporzionale con premio di maggioranza – funziona su un principio di base: sovra-rappresentare i soggetti politici vincenti, sotto-rappresentare i perdenti.
È proprio in questo l’incentivo alla cosiddetta governabilità: ai primi più seggi rispetto ai voti, ai secondi meno seggi. Basta guardare al Parlamento eletto con il Porcellum.
Il punto è che il maggioritario trova condizioni ideali di funzionamento – si fa per dire – se esistono due maggiori partiti e poco altro. In un contesto effettivamente bipolare è probabile che i due partiti siano quasi equivalenti nei voti, e che basti un piccolo margine di vantaggio dato dal sistema elettorale per costruire una maggioranza parlamentare, senza distruggere la rappresentatività dell’assemblea.
Il contrario accade in un sistema multipolare. Ad esempio, con tre partiti intorno al 30%, i – relativamente pochi -voti devono tradursi comunque in una maggioranza di seggi. Questo può accadere solo con una forte distorsione della rappresentatività. È il modello dei mega-premi di maggioranza che ha ispirato il Porcellum prima, l’Italicum poi, e ora anche il Consultellum Camera.
Il maggioritario per antonomasia – quello britannico – ha funzionato in maniera ritenuta accettabile da osservatori e studiosi fino a quando i due maggiori partiti hanno totalizzato gran parte dei voti espressi. Nell’immediato dopoguerra, giungevano intorno al 90%. La crisi è venuta quando il sistema politico non è stato più effettivamente bipolare. E si è giunti da ultimo alle esperienze di coalizioni necessarie, e persino precarie come quella in atto.
Esiste una interazione comunque ineliminabile tra sistema dei partiti e sistema elettorale. In una situazione multipolare l’incentivo maggioritario o non è sufficiente a garantire una maggioranza di seggi parlamentari e rimane dunque inutile, o raggiunge tale obiettivo negando la rappresentatività dell’assemblea elettiva e la sua aderenza rispetto al paese. Un esito politicamente e costituzionalmente inaccettabile. Inoltre, può paradossalmente produrre frammentazione, favorendo la nascita di mini-partiti, che pur con pochi voti siano determinanti per una coalizione nel vincere un collegio uninominale o conseguire un premio di maggioranza. È già successo con il Mattarellum e il Porcellum. In specie, quando il sistema politico è frammentato in una serie di potentati locali, legati alle dinamiche del territorio, si rafforza il “cacicchismo”.
Il Rosatellum bis prevede uno sbarramento al 3%, ma consente che i voti di liste tra l’1 e il 3% siano computati per la coalizione. Apparentemente strano: voti sì, seggi no. Ma con sindaci e governatori abbiamo già visto candidature assistite da un codazzo di liste, improbabili e palesemente destinate a non avere un consigliere. In tali casi, il corrispettivo è a parte, magari in qualche consiglio di amministrazione di società partecipata dopo il voto.
Ma chi si fida delle promesse? Ecco perché si collutta in Commissione sul se e come configurare la coalizione e consentire la distribuzione diretta di qualche seggio anche ai soggetti minori. Un obolo a cacicchi, capi e capetti. Può non interessare che questo vada a vantaggio o svantaggio di M5S, Pd, Fi, Mdp, Alfano, Pisapia o altri. Il punto è che favorisce l’ulteriore disfacimento del sistema politico, allontanando ancor più la ricostruzione di soggetti politici solidamente strutturati che oggi mancano. È qui il virus che corrode politica, istituzioni, governabilità.
È un virus che si combatte tornando al proporzionale con soglie di sbarramento ragionevoli ed effettive, alla necessaria ricerca di consensi reali, all’essere quel che dicono i voti ricevuti, in assemblee pienamente rappresentative e non popolate dalle anime morte dei nominati. Si vota, e la politica costruisce il dopo, in Parlamento.
L’Italicum, il Consultellum Camera, il Rosatellum nella versione originaria e nelle modifiche di cui si parla, sono in vario modo la medicina che uccide il malato.

Corriere 6.10.17
Il voto a marzo resta appeso all’accordo sulla riforma
di Massimo Franco

Tutto sembra spingere per un’approvazione rapida della riforma elettorale: al punto che si ipotizza lo scioglimento delle Camere entro fine anno, e si continua a indicare la data delle elezioni per il 4 o l’11 marzo. Nella maggioranza, queste scadenze sono già state discusse. Ma rimangono appese a quell’intesa. L’accelerazione si deve alla sensazione, non si sa quanto fondata, che il Movimento 5 Stelle sia in una fase calante; e che il centrodestra fatichi a ricompattarsi in tempi brevi. Il vertice del Pd sembra dunque convinto di avere la maggioranza relativa dei voti, se si fa presto.
Significherebbe poter chiedere al capo dello Stato, Sergio Mattarella, l’incarico di formare un governo dopo le Politiche. Gli emendamenti esaminati ieri, sulla soglia del 3% per entrare in Parlamento e sulla possibilità di eleggere senatori in tre regioni ripartendo i voti in modo diverso, è fatta per placare i centristi di Angelino Alfano; ma anche per attenuare l’ostilità del Mdp, finora fermamente ostile alla riforma che si va delineando con l’intesa Pd-FI-Lega-Ap. Se funziona, il Quirinale potrebbe finalmente chiudere la legislatura. A sentire il capogruppo dem Ettore Rosato, si tratta non di una norma «salva Ap», e cioè salva-Alfano. «In verità sarebbe salva-Mdp», ha detto, provocando l’irritazione del gruppo di Pier Luigi Bersani e di Massimo D’Alema, convinto di avere più del 3 per cento. E infatti, il «no» rimane arcigno. Ma non cambierebbe i rapporti di forza se l’asse tra Matteo Renzi, Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Angelino Alfano non si spezza. «L’accordo tiene», ha assicurato il capogruppo di FI, Renato Brunetta, dopo una giornata di trattative e di tensioni. I berlusconiani non vogliono concedere troppo all’ex alleato Alfano. E temono che il sistema in incubazione alla fine premi la Lega ma non loro: in particolare al Nord. La questione delle ricandidature è cruciale. Ci sono decine di parlamentari che sanno o hanno paura di non essere ricandidati o comunque rieletti. Ed è su questo che i leader di partito stanno cercando di rassicurarli uno a uno: vogliono essere sicuri di un «via libera» che blindi un eventuale accordo; e impedisca imboscate alle Camere sulla riforma del voto. Qualche incertezza rimane. Si assiste così a una situazione singolare. Ufficialmente, tutto sta filando liscio, e le probabilità di un «sì» sembrano crescere di ora in ora: se non altro perché non si capisce che cosa potrebbe bloccare un tentativo destinato a essere l’ultimo. Poi, però, uno dei potenziali beneficiari del nuovo sistema elettorale, Matteo Salvini, proietta sull’operazione un’ombra di incertezza. «Temo che le beghe del Pd facciano saltare tutto», avverte il leader leghista. E allora, riservarsi un ampio margine di cautela diventa doveroso.

Il Fatto 6.10.17
La “melina”
Tesi Madia, 200 giorni dopo l’ateneo non sa dire se fu plagio
L’alta scuola di Lucca si rifiuta di spiegare quando chiuderà l’indagine aperta ad aprile dopo l’inchiesta del Fatto. In Germania ci vollero due mesi e il ministro zu Guttenberg si dimise
Qualche differenza…
di Laura Margottini

Dopo 200 giorni di indagini, la Scuola Imt Alti studi di Lucca non ha ancora stabilito se Marianna Madia, ministra della Pubblica amministrazione dei governi Renzi e Gentiloni abbia copiato la tesi con cui si è dottorata nel 2008, come è emerso da un’inchiesta del Fatto dello scorso marzo. “La procedura è in fase conclusiva” ha spiegato al Fatto Pietro Pietrini, direttore di Imt. Alla domanda su quando si concluderà l’indagine – partita il 18 aprile scorso, quasi sei mesi fa – Pietrini si è rifiutato di rispondere.
Nel 2011, l’Università di Bayreuth, in Germania, revocò immediatamente il dottorato all’allora ministro della Difesa tedesco Karl-Theodor zu Guttenberg dopo che i giornali avevano svelato che un’ampia parte delle 475 pagine della sua tesi era stata copiata. In capo a due mesi, un’inchiesta interna dell’università confermò che si trattava di plagio.
La tesi della Madia (“Essays on the Effects of Flexibility on Labour Market Outcome”) è di 95 pagine (al netto di bibliografia e tabelle), cioè un quinto di quella di Guttenberg. Su 35 di esse il Fatto ha rilevato passaggi identici a quelli presenti in pubblicazioni di altri autori, senza virgolette né citazioni, per un totale di almeno 4 mila parole, con il risultato che non è possibile distinguere il testo originale della ministra da quello di altri autori. Per gli esperti sentiti dal Fatto, tra cui quelli che hanno analizzato la tesi di zu Guttenberg, i blocchi copiati sfiorano le 8 mila parole. Ben Martin, direttore di Research Policy, rivista di riferimento internazionale per gli standard accademici in materia di plagio, ha svolto un controllo indipendente sulla tesi: “Quello che abbiamo qui è un inaccettabile livello di plagio” ha dichiarato al Fatto il 31 marzo scorso.
Ci sono poi altri aspetti mai chiariti né da Imt né dai relatori della tesi, Fabio Pammolli (direttore di Imt nel 2008) e Giorgio Rodano, già professore ordinario di Economia all’Università Sapienza. Secondo la ricostruzione del Fatto, Madia si è dottorata il 22 dicembre 2008 (Imt non ha mai reso noto quale fosse la data esatta). Quel giorno il sito di Imt riporta che a discutere la tesi c’erano gli studenti Luigi Moretti e Valerio Novembre, ma non la futura ministra. Sul sito, il suo nome non compare in nessuna sessione di laurea. La tesi di Madia si sovrappone alla tesi di una collega, dottoranda a Imt nel 2008: Caterina Giannetti, che non ha mai risposto alle nostre domande. Per ragioni mai chiarite, è Giannetti ad aver creato il file pdf della tesi della ministra disponibile sul sito di Imt,
Dalle tesi di Giannetti e Madia uscirono anche alcune pubblicazioni: la Giannetti firma nel 2012 “Relationship Lendings and Firm Innovativeness”, pubblicato dal Journal of Empirical Finance. Con la Madia firma, nel 2013, “Work arrangements and firm innovation: is there any relationship?” sul Cambridge Journal of Economics.
Il Fatto ha riscontrato che i due articoli presentano una serie di passaggi identici tra loro e altri molto simili. In entrambi ci sono interi passaggi identici a quelli presenti nelle pubblicazioni di altri autori, senza virgolette e spesso senza citazione nel testo. Dopo le rivelazioni del Fatto, il Cambridge Journal of Economics (Cje), della casa editrice Oxford University Press (Regno Unito), ha avviato un’inchiesta interna. Il 30 settembre il comitato editoriale ha dichiarato al Fatto che “l’articolo contiene le necessarie citazioni e non c’è evidenza di plagio”. Eppure nell’articolo del Cje esistono ampi passaggi identici a quelli presenti in altre pubblicazioni che non vengono citate. Ce ne sono poi altri – ad esempio, in “Innovativity: A comparison across seven European countries”, a firma di Mohnen, Mairesse e Dagenais, pubblicato nel 2006 da Economics of Innovation and New Technology – inseriti senza virgolette e peraltro presenti anche nella tesi della Madia senza alcuna attribuzione nel testo. Il Fatto chiesto al Cje di chiarire questi punti e di poter visionare le risultanze della perizia, ma non ha ottenuto ulteriori risposte.
Nella tesi, Madia dichiara anche di aver trascorso un periodo di studi all’Università di Tilburg, in Olanda, dove ha condotto l’esperimento originale della sua ricerca. L’università ha ribadito che “Marianna Madia non è mai stata studente a Tilburg” e che pertanto “è altamente improbabile che l’esperimento sia mai stato condotto”. Non risulta alcun documento relativo all’esperimento. A Tilburg nel 2008 c’erano invece Caterina Giannetti e Maria Bigoni, che si sono dottorate all’Imt il 24 aprile 2008 (lo spiega il sito). La Madia le ringrazia nella tesi “per il loro aiuto nel condurre l’esperimento”. Madia ha annunciato querela contro il Fatto a fine marzo scorso. Querela che non è mai stata notificata.

Il Fatto 6.10.17
Economia. Il Paese è “in ripresa” solo su giornali e telegiornali. Tutto si tiene
di Pasquale Mirante

Da qualche tempo i mezzi di comunicazione, stampa e tv (i Tg in continuazione) ci dicono che è in atto la ripresa: i conti vanno meglio, la produttività sale e i disoccupati continuano a diminuire. Il Belpaese starebbe meglio, così dicono. Non ci dicono invece che alla Sanità saranno apportati nuovi e pesanti tagli che si rifletteranno inevitabilmente sulle classi medio-basse. Intanto la Sanità privata va a gonfie vele.
Sarebbe semplice rispondere con un’annotazione: diversi editori dei giornali hanno, alcuni perfino come attività prevalente, interessi diretti nel business della sanità privata controllando società che gestiscono cliniche e ospedali, e i vertici della Rai sono di nomina politica. La realtà è però, per così dire, anche più complessa e spiacevole: il sistema dell’informazione vive alla giornata, non c’è spazio per inquadrare i numeri in una prospettiva più ampia. Sbandierare che “il Prodotto interno lordo dell’Italia crescerà quest’anno più del previsto” non è formalmente sbagliato (i dati quello dicono), ma assumerebbe tutt’altra prospettiva se si spiegasse anche che è 6 punti percentuali sotto il picco pre-crisi del 2007 e che è il ritmo più lento tra le grandi economie della zona euro. La disoccupazione cala dello zero virgola ma è sempre intorno all’11%, livelli inaccettabili per un Paese che ha nella Costituzione l’obbligo di perseguire la piena occupazione. È vero, per dire, che gli occupati sono tornati più o meno ai livelli del 2008, ma – come ha sintetizzato bene l’ex ministro Enrico Giovannini – in termini di “unità di lavoro” (due occupati che lavorano metà tempo fanno una unità) siamo ancora un milione sotto. Per la sanità vale lo stesso: ogni anno le risorse pubbliche aumentano di poco, meno dell’1%, senza dire che solo per tecnologie e prezzi dei medicinali dovrebbe crescere almeno del 2% (e questo si chiama tagliare). Così si riduce lo Stato sociale.
Perché tg e giornali non ne parlano o ne parlano poco? Assumendo che non possono essere colti da una sciatteria collettiva, la risposta è che si segue una scelta deliberata. D’altronde parlare del Jobs act solo in termini di occupati serve a mascherare che il suo obiettivo, riuscito, è comprimere i salari. E raccontare solo gli sprechi nella Sanità, e non la riduzione spaventosa dei finanziamenti, crea la base ideologica per ridurre i servizi (sarà per questo che si decantano i miracoli del “welfare aziendale”). L’antidoto non è mettere in dubbio i numeri, ma fargli la tara. Anche a chi li riporta.

Il Fatto 6.10.17
Sinistra, il caos dei dirigenti che non diventano leader: da D’Alema il capotavola fino a Pisapia faro già spento
Il Lìder Maximo impalla tutti, Speranza l'eterno futuro, Bersani indispensabile che ha già fatto il suo: così l'ex sindaco di Milano ha scoperto che non basta dire "uniamoci" per unire Pd e gli altri e da possibile federatore è diventato punchin-ball. Per questo il sogno proibito di Bersani sarebbe Grasso. Preferito perfino da Vendola
di Diego Pretini

Federatori che non federano, nuovo che non avanza, leader di talento ingombranti ma consunti dalla storia, assi nelle maniche abbottonate. A sinistra, presto, a sinistra: ma la macchina pare inceppata. Ex comunisti con ex socialisti, ex vendoliani con ex democristiani, scissionisti della prima ora con scissionisti della seconda che si uniscono a quelli della terza. Il campo della sinistra del centrosinistra che non c’è più è come un’aia di campagna, dove ogni galletto va a beccare in un posto diverso. Alt, avvertono tutti in coro nelle interviste, prima di tutto i programmi. Ma ora che ci provano – il superticket, la povertà nella legge di bilancio – si accapigliano parlando solo di matrimoni, divorzi, coppie scoppiate. In comune hanno l’assillo della discontinuità con le riforme di Renzi e più precisamente proprio con Renzi. Ma ciascuno ha un joystick diverso. Per dire: lo sforzo per una cosa semplice come far guidare a Pisapia la delegazione di Mdp a Palazzo Chigi dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni è stato immane. Ma Tabacci, uno dei pochi che può parlare a nome dell’ex sindaco, lo descrive come amareggiato perché – dice – dentro Mdp vogliono confinarsi a una sinistra di testimonianza con Fratoianni e “quelli del Brancaccio” (cioè Tomaso Montanari e Anna Falcone, i reduci della vittoria del No), “bravissime persone che però non c’entrano nulla con la prospettiva di un centrosinistra in grado di competere”. Dall’altra parte rispondono che il centrosinistra non esiste perché è morto sotto i molti colpi inferti da Renzi: l’ultimo quando si è alleato con Alfano per sostenere Micari alle Regionali in Sicilia. Così si affollano a sinistra dirigenti che però non si sa dove dirigono, che restano a mezza altezza per motivi diversi: da Bersani a D’Alema, da Speranza a Enrico Rossi, fino a Nicola Fratoianni e Pippo Civati. Fino a Giuliano Pisapia, il cui ruolo è ridotto al lumicino ogni volta che parla D’Alema, già da quella volta – a inizio settembre – in cui lo definì “l’ineffabile avvocato”. E un po’ più in là, fino ai sogni che non sembrano solide realtà: Piero Grasso e Emma Bonino. Di seguito i più in vista.

D’Alema, l’attaccapanni che precede tutti
“Finché sarò vivo, Renzi non potrà stare sereno” disse a pochi mesi dal referendum costituzionale. Per Aldo Cazzullo (Corriere di ieri) è il più anti-renziano di tutti. Per Angelo Panebianco (Corriere di molti anni fa), “i leader autentici sono sempre, in ogni Paese, e anche in Italia, pochissimi. E D’Alema è uno di loro”. Per Renzi era il primo da rottamare e invece ha fatto come l’alligatore: è rimasto sott’acqua finché è servito, finché non ha capito che uscendo dall’acqua avrebbe divorato la preda. Non solo Renzi, ma anche il nuovo partito che lui ha annunciato per primo. I dalemiani sono rimasti di là, hanno indossato nuove maschere: Anna Finocchiaro, Gianni Cuperlo, Nicola Latorre, Marco Minniti, Matteo Orfini in ordine di crescente lealtà al nuovo capo. Lui non soffre di solitudine, capotavola è dove si siede lui, disse una volta. Dopo aver garantito che Speranza è un ottimo dirigente tra l’altro più giovane di Renzi e che chi sarebbe stato il capo si sarebbe deciso con le primarie, a luglio ha definito quella di Mdp una “gestione confusa e poco efficace”.

Ha dato la possibilità a Pisapia di sognare per un po’, di fare il federatore, sapendo già che avrebbe fallito. I due non sono diversi solo perché uno è figlio del partito e l’altro un borghese civico, come li ha descritti Cazzullo. Ma anche perché l’ex sindaco continua a inseguire i sogni, mentre l’ex presidente del Consiglio non ha mai cominciato, preferendo la disillusione. Per primo D’Alema ha annunciato che ci sarebbe stata la scissione dal Pd, per primo ha detto – andando ad ascoltare il discorso “di insediamento” di Pisapia – che alle elezioni avrebbero corso da soli e contro il Pd, per primo ha capito che una coalizione sarebbe stata impossibile. Per primo ha detto che con l’alleanza tra Pd e Alfano in Sicilia il centrosinistra era finito. Per primo ha chiesto a Pisapia “maggiore coraggio” per accelerare la nascita della forza a sinistra del Pd: un simbolo riconoscibile, temi ben chiari per segnare la “discontinuità” con il lavoro fatto dal governo delle intese medie negli ultimi 5 anni. In realtà non è mai chiaro se queste cose le dice per primo perché le prevede o perché poi le fa andare così lui. Per questo a Pisapia è partita la frizione chiedendogli di farsi da parte, subissato di fischi dei dalemiani rimasti e dal silenzio glaciale del Lìder Maximo.

Ha archiviato la terza via e il blairismo, nelle interviste cita Podemos e la Linke, se non fosse ambiguo si direbbe che si è radicalizzato. E’ una croce oltre che una delizia di un pezzo di sinistra perché il suo passato pesa e contro D’Alema se la prendono tutti, una specie di antistress: “E’ l’attaccapanni a cui attaccano tutte le tattiche avverse – ha detto Bersani qualche giorno fa – Ma lui è fatto così è una personalità ma le perplessità non si possono nascondere sempre dietro D’Alema”. Ma l’impresa è sempre spostarlo da davanti.

Bersani, quest’acqua qua
Lo paragonano a Bertinotti. Lui con la stessa espressione piena di fatica, di preoccupazione e di concentrazione che offrì da presidente incaricato nel primo incontro in streaming con i capigruppo dei Cinquestelle, nel 2013, oggi fa ancora scrosciare applausi negli studi televisivi e – racconta uno dei suoi fedelissimi, Davide Zoggia – anche nelle piazze in Sicilia. Avrebbe voluto essere Papa Roncalli, ha detto una volta, ma sembra più Papa Montini: a volte un po’ in anticipo per non rimanere schiacciato dal presente. Se avesse vinto, anziché “non vinto”, come prima cosa da capo del governo – ha ricordato di recente – avrebbe fatto lo Ius soli, su cui ora Renzi non ha nemmeno il coraggio di mettere la fiducia. Come seconda, una “norma secca anticorruzione“. Dalla corsa per il leader si è autoeliminato da tempo: la moglie ha minacciato di cacciarlo da casa se si ricandiderà a premier, ma non c’è rischio, tanto più che a questo giro il massimo del risultato può essere il quarto posto.

Ma la sua assenza ha messo davanti agli occhi dell’elettorato le alternative tipo Speranza e la platea ne è uscita terrorizzata. Quindi “quel pezzo di Ditta qua”, che in realtà crede che la Ditta sia stata scippata da un rapinatore, si aggrappa di nuovo a lui, diventato finalmente leader dopo una vita politica da gregario di lusso, competente, rasserenante. “L’eterno delfino che a 57 anni ha deciso di nuotare da solo – lo definì Fabio Martini sulla Stampa prima del congresso che avrebbe incoronato Bersani, già tre volte ministro – A forza di nascondersi, a forza di dire ‘Obbedisco’ al suo amico Massimo D’Alema che in passato lo ha ripetutamente invitato a non candidarsi, la rinuncia stava diventando la sua cifra politica. L’Amleto di Bettola”. “Bersani è un uomo di governo capace ed è sempre stato fuori dai conflitti personali all’interno del centrosinistra”: sembra la definizione più adatta e l’unico sospetto nasce perché a pronunciarlo fu proprio D’Alema.

Da solo, senza D’Alema, è quello che ha combattuto di più le politiche di Renzi, rottamatrici delle idee più che delle persone. Non c’è riuscito quasi mai anche perché, appunto, ha criticato troppo presto quello che altri nel partito hanno contrastato più tardi, a tempo scaduto, tipo Orlando. Come D’Alema, però, Bersani si porta il fardello di chi dice cose già dette e vede cose già viste: gli elettori di sinistra sono da tempo un po’ suscettibili, diversi da quelli di Forza Italia che vedono solo Berlusconi. Lo prendono in giro, ma Bersani insiste a credere di parlare la lingua del popolo così le metafore non sono mai uscite dal suo breviario. L’ultima l’altro giorno, con gli animali: “Se anche in Italia si tira la volata alla destra scimmiottandoli, balbettando in modo più politicamente corretto le stesse ricette, ad esempio su fisco e immigrati, la sinistra rischia di fare la fine del coniglio davanti al leone”. La penultima alcuni giorni prima, quella dell’acqua: “Renzi ha governato tre anni con i voti che ho preso io, ed ha ribaltato quasi del tutto le cose che avevo promesso agli elettori. Se questo porterà avanti il centrosinistra e metterà sotto destra e 5 stelle, avrà avuto ragione lui; altrimenti dovrà far due conti di quello che è successo. Di noi non si preoccupi: noi porteremo acqua al centrosinistra”.

Pisapia, il punching-ball arancione
“Giuliano Pisapia, convinto di essere un leader decisivo e destinato a saldare le varie sinistre di sorta, non sa che D’Alema non prevede per lui alcun ruolo, salvo quello di bella statuina”. Sembrava una cattiveria quella di Andrea Marcenaro sul Foglio di inizio estate. Quasi quattro mesi il basamento della statuina è quasi completato. Pisapia è stato posizionato sull’asta del gonfalone della sinistra che rimpiange Prodi e l’Ulivo, ma in realtà si ritrova a capo della Sinistra Arcobaleno. E forse nemmeno così a capo. Quando Bianca Berlinguer ha chiesto a D’Alema se è Pisapia il leader lui ha risposto: “Abbiamo detto di sì, il leader è lui”. Abbiamo detto di sì, noi, all’ineffabile avvocato, come l’ha chiamato una volta.

Altro che enzima che unisce tutto il centrosinistra, dai democristiani a Fratoianni. Piuttosto il punching-ball del luna park. A nulla è servita la lunga preparazione di Pisapia, iniziata con la scomparsa dalla scena politica alla Fanfani subito dopo aver la sciato Palazzo Marino. Credeva che tutti aspettassero qualcuno come lui che a Milano ha guidato la vittoria “arancione” e in Italia ne era il simbolo, senza accorgersi che quell’avventura è finita già da un pezzo, con lui, Zedda, De Magistris e Orlando in ordine sparso. A Milano aveva vinto perché è una persona per bene, carattere che rischia di diventare un handicap quando sei in un ambientino pieno di tigri dai denti a sciabola. Credeva che bastasse un paciere, scoprendo che servirebbe un miracolo: l’euforia iniziale che ha unito al suo fianco l’ex rifondato Ciccio Ferrara e l’ex dc Tabacci senza i marxisti – e ha fatto aleggiare i padri nobili Enrico Letta e Prodi – è diventata ora una bell’arietta emo.

Prende schiaffi da tutti, come una comparsa di Altrimenti ci arrabbiamo. “Pisapia cambia posizione abbastanza spesso – ha detto Orfini alcune settimane fa – Perché quando ha fatto la riunione con Mdp ha firmato un documento in cui si definiva alternativo al Pd – e immagino non ci si voglia alleare con forze alternative – poi ha lanciato le primarie”. Nicola Fratoianni, capo di Sinistra Italiana, si dice “non interessato alle smentite di Pisapia” e che “il tempo è scaduto”. Irrita Roberto Speranza: “Noi stiamo aprendo le porte nella maniera più convinta possibile a Giuliano Pisapia. Dopodiché a me non convince un ragionamento in cui tutto si riduce a un gioco di personalità”. Fa sdubbiare perfino Bersani: “Nessuno qui vuol dei partitini. Vogliamo tutti un partitone. Non è quello”. Litiga di brutto con Nichi Vendola: “Ha ragione Pisapia: D’Alema è divisivo, divide la sinistra dalla destra. Per Pisapia è sufficiente dividere la sinistra” dice l’ex presidente della Puglia. “Si può cambiare idea, ma non dimenticare: hai governato la Puglia in variegata compagnia. A Milano non c’era destra in giunta” risponde l’ex sindaco.

Nonostante l’abbraccio a Maria Elena Boschi davanti al quale Mdp reagì come se avesse commemorato Farinacci, è stato quasi ignorato dal Pd che parla di lui solo nei retroscena, “da Calenda a Pisapia”, o nei sogni di Rosato, “da Alfano a Pisapia”. Per restare attaccato almeno a Mdp, i suoi comunicati stampa sono esercizi di acrobazia. Fa fatica a farsi ascoltare perfino dai senatori che si autoproclamano esponenti di Campo Progressista: parlano a titolo personale, dice un portavoce di Pisapia. “No – ha risposto uno di loro – io parlo a nome di Campo Progressista Sardegna”. Mettete da parte i personalismi, ripete da mesi a due poco interessati ai personalismi come Renzi e D’Alema. Lui si è già messo da parte per esempio in Sicilia dove non sostiene né Micari col Pd né Fava con la sinistra.

Speranza, l’eterno futuro
L’eterno delfino, l’eterno futuro, l’eterno dialogante. Per Vauro “un giovane-vecchio”. A Roberto Speranza quasi tutti riconoscono che è serio, timido, mediatore, coerente, grande ascoltatore, persona perbene, che ha studiato, che ha fatto la gavetta. Più o meno così lo descriveva la Stampa già 4 anni fa, quando già lo indicavano come “futuro leader”. Nel frattempo risulta ancora difficile trovare chi lo consideri uno che riempie le piazze e le urne. Bersani se n’è dovuto andare per un po’ e poi è tornato e Speranza sempre lì è rimasto: sotto la sua ala protettiva. E’ lì sotto dal 2012 quando Speranza era uno dei coordinatori del comitato di Bersani alle primarie per le Politiche.

Spesso si sforza di essere incisivo: “Avevamo promesso più lavoro e stabilità e ci siamo ritrovati il boom dei voucher; avevamo promesso green economy e ci siamo ritrovati le trivelle e il ‘ciaone’; avevamo promesso equità fiscale e abbiamo tolto l’Imu anche ai miliardari”. Ma non se ne accorge nessuno. Fa cose di rottura, coraggiose: si dimise quando la Boschi pose la fiducia sull’Italicum che lui considerava incostituzionale (come poi confermò la Consulta). Ma non se lo ricorda nessuno.

Gli capita di prendere sberle a gratis anche quando non fa niente di che. “Hai la faccia come il culo” gli comunicò Roberto Giachetti quando a Speranza gli venne di proporre il Mattarellum. Mani tra i capelli di Renzi, grida in pé della senatrice Ricchiuti, via alla scissione. Un mesetto prima un tizio gli lanciò addosso un iPad durante la presentazione di un libro a Potenza: “Il Pd vende armi all’Isis!”. L’episodio più doloroso resta quando Repubblica chiese a Bersani se Speranza era l’anti-Renzi: “Lo stimo, non è un segreto. Ma al di là dei nomi serve un segretario che si occupi del partito sdoppiandolo dalla figura del premier e non escludiamo a priori di pescare da campi che non sono del tutto sovrapponibili alla politica. Qualcuno può escludere che in giro ci sia un giovane Prodi?”. Boom, Roberto, sei stato friendzonato. Sembra sempre il suo momento e il suo momento non arriva mai. Mesi fa aveva finalmente l’occasione per misurarsi (cioè schiantarsi) contro Renzi. Zampettava sui giornali e sulle televisioni dopo la vittoria del No al referendum, in quei giorni figlia del mondo intero. “Arriverà presto il congresso Pd e io ci sarò, mi batterò. Accetto la sfida e sono ottimista perché non sono solo”. E invece un attimo prima gli hanno tolto il partito, nel senso che i suoi tutori hanno deciso di andarsene a fare Mdp. Cos’è ora Speranza?, si chiedono ogni tanto l’un l’altro nelle redazioni. Capogruppo? Possiamo dire leader? No dai, leader no. Forse tipo coordinatore. Provate voi a coordinare ex vendoliani, ex bersaniani, pisapiani e D’Alema.

Grasso, che una mattina si svegliò “Metodo”
Una volta, raccontò, si addormentò Pietro e si svegliò “metodo”. Il “metodo Grasso” di cui parlarono i giornali all’indomani della sua elezione era quello che aveva fatto diventare lui presidente del Senato (spaccando il gruppo M5s alla prima votazione) e Laura Boldrini presidente della Camera. Il metodo lo inventò Pierluigi Bersani al quale nel 2013 venne l’idea di proporre a Grasso l’inizio della carriera politica dopo una vita nella lotta a Cosa Nostra. Ora può accadere di nuovo. A Napoli, alla festa di Mdp, Bersani aveva gli occhi a cuoricino mentre sentiva la seconda carica dello Stato raccontare che si sente ancora “ragazzo di sinistra” e come tale chiede “alla sinistra di non fare passi indietro sui principi”.

C’è quella bazzecola da superare che si chiama presidenza del Senato che lo terrà ingessato fino a primavera, ma Grasso per la terza volta potrebbe essere la soluzione ai problemi di Bersani. Grasso ha le sembianze quei tiri di carambola di certi circoli del biliardo con cui la biglia butta giù i birilli, sponda dopo sponda. Autorevole per curriculum, dialogante per carattere, è legalitario, ma non securitario, la giustizia sociale accanto a quella dei tribunali. Dice cose di sinistra, pronuncia spesso parole di verità, gli piace il genere antifà. Negli ultimi dieci giorni ha detto che: lo Ius soli va votato, il codice antimafia deve rimanere così perché era nel programma (del Pd), la sinistra non deve fare passi indietro sui suoi principi, che la prima regola della politica è l’etica (bisogna saper scegliere i candidati prima che arrivino le condanne). Ha detto che i partiti devono smetterla di scrivere le leggi elettorali solo per convenienza e ha fatto incazzare Orfini. Ha detto che dobbiamo dare l’asilo anche ai migranti economici perché lo dice la Costituzione e ha fatto incazzare la Lega Nord. Fa incazzare spesso il Pd, come quando si mise seduto in Aula tutto sorridente e decise per conto suo di far votare la richiesta d’arresto di Antonio Caridi, primo parlamentare accusato di associazione mafiosa (il Pd voleva trastullarselo fino a dopo il ddl editoria).

Non si contano le volte che ha fatto incazzare il M5s: i senatori grillini perdono la testa soprattutto quando loro si agitano rossi in volto – come per abitudine – e lui gli risponde col tono di un bonzo tibetano, con lo sguardo disincantato. La spalla preferita è il senatore Lello Ciampolillo. Una volta segnalò dei “pianisti”, quelli di Forza Italia cominciarono a tirargli palline di carta. Grasso lo rassicurò sulla sua incolumità: “Senatore Ciampolillo, la presidenza ha visto tutto. Ha visto anche che non l’ha colpito”. Stimato da destra, Vendola lo preferisce a Pisapia. “Grasso è una grande personalità – dice D’Alema – E’ stato un giovane militante di sinistra, l’abbiamo candidato e eletto presidente del Senato. Non è certo una new entry”. Un ineffabile presidente, in altre parole.

il manifesto 6.10.17
Bersani ricuce, con Pisapia è tregua. Ma il Pd punta tutto sulla rottura
«Insieme» ma non troppo. Assemblea del nuovo soggetto entro un mese Intanto Prodi tende una mano a Renzi. L’ex sindaco: avremo candidati in tutti i collegi Errani difende D’Alema: Massimo è una risorsa
di Daniela Preziosi

Con il Pd? «Avremo nostri candidati in tutti i collegi». Le alleanze a sinistra? «Si fanno sui programmi e sui progetti». Insomma il matrimonio con Mdp, Pisapia, lo vuole fare? «Io sono per il matrimonio, anche quello gay, ma anche per la poligamia: non chiudiamoci fra di noi». Applaudono con calore esagerato i militanti ex pd riuniti a Ravenna per il ’ritorno alla politica’ di Vasco Errani dopo le tribolazioni giudiziarie (assolto) e l’anno da commissario per la ricostruzione. La ’base’ acclama due ex presidenti di regione: c’è anche Pier Luigi Bersani. Non fa che ripetere all’indirizzo dell’ex sindaco «io sono d’accordissimo con Giuliano». Perché si celebra il rito della pace fra Mdp e il leader dopo le risse degli ultimi giorni. Pisapia ci sta, non si lascia andare del tutto al «volemose bene». Si fa l’assemblea costituente del nuovo soggetto, incalza Alessandro De Angelis, vicedirettore dell’Huffington post? Pisapia: «Dobbiamo proporre un grande appuntamento partecipativo, con sette punti condivisi. Non deve essere a due, ma deve essere a tanti». Bersani: «Benissimo entro un mese e mezzo dobbiamo dire una cosa chiara alla nostra gente: chiamiamola, partiamo da un concetto largo e vediamo chi non ci sta. Io non voglio una cosa rossa, ma non si pensi di sotterrare il rosso». Ci sono stati litigi alla camera sul Def? «Ex Pd ed ex Sel sono due aree culturalmente diverse. È fisiologico che ci siano delle differenze», rassicura Pisapia, ma «è importante che queste famiglie ritornino nella stessa casa. Il cammino è frastagliato, ma io ci credo». Anche Errani chiede di stringere i tempi: «Non ci interessa un partitino del 3 per cento, la nostra idea è essere l’innesco del cambiamento» ma «non possiamo continuare a pestare l’acqua».
La pace di Ravenna arriva, come da copione. Ma reggerà? Le tensioni fra Mdp e Campo progressista degli ultimi giorni non sono archiviate. Nel pomeriggio in Transatlantico c’è chi ci rimugina. «Nella riunione dei parlamentari eravamo tutti d’accordo, area Pisapia e area ex Pd, non è vero che D’Alema voleva far saltare i conti», c’è chi puntualizza. Anche Arturo Scotto giura che non c’è stato nessuno strappo: «Il voto favorevole allo scostamento, così come il mancato sostegno alla nota di aggiornamento del Def, non sono il frutto di incontri segreti o telefonate notturne. Così come la conseguente e definitiva rottura del vincolo di maggioranza». È vero che Roberto Speranza l’aveva annunciata domenica scorsa dal palco della festa di Napoli, seduto al fianco di Pisapia (che non ha fatto un plisset). Ma non è detto che le differenze non riesplodano sul voto finale sulla legge di bilancio. Le aperture di Padoan sono considerate tiepide, Mdp è orientata a votare no.
La rissa a sinistra è un assist formidabile per Matteo Renzi. Dal Nazareno c’è chi sfotte: quando sono scoppiate le liti a sinistra «abbiamo comprato i popcorn», «Pisapia ci sta di fatto aiutando a dimostrare qual è il vero progetto di D’Alema: distruggere il Pd. E Pisapia lo sta stoppando». Il segretario con i suoi scherza parecchio. Nella sua enews ovviamente invece si contiene: «Il Pd deve mantenere uno stile. Specie in questi momenti di incomprensibile rissa verbale a sinistra della nostra sinistra. Uno stile concentrato sui problemi degli italiani».
La presunta smarcatura di Pisapia dalla Ditta Bersani&D’Alema avrebbe fatto cambiare idea anche a uno dei primi suggeritori: Romano Prodi. La scorsa settimana il professore avrebbe telefonato a Renzi per ristabilire un contatto. Fra i due sarebbe finita l’era glaciale, dunque: l’ex premier riporta «la sua tenda» in zona dem, e comunque non presterà la sua faccia e il suo profilo a una campagna elettorale contro il Pd.
Anche la minoranza di Orlando guarda con soddisfazione le crepe aperte fra Campo progressista e Mdp: «Pisapia sembra deciso a rompere con D’Alema. Speriamo che vada fino in fondo».
Dal Pd, con diversi accenti a seconda della corrente di appartenenza, l’appoggio al progetto di aggregazione di Pisapia ha sempre avuto come obiettivo quello di costruire un alleato per il partito di Renzi. Ora il Rosatellum 2.0 potrebbe offrire lo strumento per «agganciare» l’alleato. «Si può riprendere un discorso di centrosinistra largo», viene spiegato.
Per ora Pisapia resta «Insieme» a Mdp e critica con durezza la legge elettorale. Giura che sarà alternativo al Pd. Ma alla camera c’è chi giura che almeno dieci dei suoi sono pronti a votare la legge. Con il suo imprimatur? Per ora Pisapia non lascia spazio alla speranza di essere ridotto a una lista-cespuglio del Pd.

Il Fatto 6.10.17
Pisapia si fa barricadero: “Ho condiviso il no al Def”
Dopo le polemiche a distanza dei giorni scorsi, l’ex sindaco di Milano sposa la linea anti-governo sul palco di Mdp con Bersani, che rincara: “Pronti a votare pure contro la manovra”
di Luca De Carolis

“Siamo pronti a non votare la legge di bilancio, ma con un limite: la troika non la facciamo venire”. Da un palco a Ravenna Pier Luigi Bersani lancia il suo avvertimento condizionato al governo. Ma soprattutto incassa l’appoggio di Giuliano Pisapia che, seduto accanto all’ex segretario del Pd, scandisce: “La scelta di non votare il Def uscendo dall’aula del Senato l’abbiamo condivisa pienamente”. Ed è la tregua.
Pisapia giura di aver appoggiato Articolo 1 – Mpd nel suo scontro con il governo, e buonanotte alle ricostruzioni sullo strappo nella cosa rossa. Così ora la rotta concordata è ottenere segnali dal governo, attenzione. Altrimenti saranno altri no, anche se la sinistra ex dem giura di non voler mandare a gambe all’aria i conti. Bersani e Pisapia lo assicurano nella serata davanti ai militanti di Articolo Uno. Sul palco con loro Vasco Errani e il vicedirettore dell’Huffington Post, Alessandro De Angelis, nel ruolo dell’intervistatore.
Si parte proprio con Errani come protagonista. “Vasco” gli urlano dalla platea. E l’ex commissario straordinario per il terremoto, già governatore dell’Emilia Romagna, quasi si commuove. In maniche di camicia, parla per primo: “Avevo fatto una scelta istituzionale difficile sul terremoto. Ma ora torno alla politica, che è la mia passione”. Tradotto, è pronto a ricandidarsi alle Politiche. Nell’attesa, sostiene: “Chiunque strumentalizzerà il sisma ne pagherà il prezzo”. Però il tema è sempre il no al Def. De Angelis ne chiede conto a Bersani, e lui rispiega la linea: “Siamo riformisti e vogliamo discutere di quello che non ci convince su lavoro, sanità, scuola e fisco. Chiediamo un segno”. E se non arrivasse, potreste votare contro sul bilancio? “Sì, ma con un limite. Non vogliamo la troika, e ci sono dei rimedi tecnici per evitarla. E poi un aiutino il governo può comunque trovarlo…”. L’aiutino è innanzitutto lui, Denis Verdini. E Bersani insiste: “Se invece di discutere con noi preferiscono prendere la scorciatoia di cercare voti da un’altra parte, vadano dove li porta il cuore…”. La platea batte le mani. Poi però ci sarebbe Pisapia.
E allora, questo no al Def? Il leader di Campo progressista la prende larga: “Siamo andati a Palazzo Chigi (quattro giorni fa, ndr) non per parlare di legge elettorale ma per chiedere risposte su temi fondamentali come sanità e lavoro. Ci hanno promesso segnali per l’indomani, e infatti il ministro dell’Economia Padoan ha detto alcune cose. Ci aspettiamo altri segnali”. Dododiché, “la scelta sul Def è stata pienamente condivisa, in Senato l’astensione è come il no, quindi siamo usciti dall’aula”. La platea, diffidente, respira di sollievo. Però poi De Angelis stuzzica l’ex sindaco: “Allora, il matrimonio tra Mdp e Campo progressista quando lo fate?”. E Pisapia respinge gli anelli: “Io sono favorevole al matrimonio, ma in politica preferisco la poligamia”. Se c’è Renzi però è complicato, gli fanno notare, mentre la sala rumoreggia.
Ma l’ex sindaco non sterza: “Dobbiamo mettere assieme tutte le case di sinistra, ci sono tre milioni e mezzo di voti da recuperare. Io voglio un nuovo centrosinistra. Certo, adesso nei confronti di Renzi sono sfidante…”. Un “adesso” che provoca qualche altro rumore. Ma Pisapia spiega la sua mappa, e in parte ricuce: “Dobbiamo elaborare sette punti di programma, e fare una campagna unitaria”. Per il 19 novembre rimane fissata la costituente “rossa”, e Bersani lo ricorda: “Abbiamo un mese e mezzo di tempo”. Però ribadisce: “Voglio un’alleanza con quest’uomo come leader”. E indica Pisapia. Per il resto, precisa, “sono d’accordo sui punti programmatici, non possiamo andare alla carlona”. Però rimane un tema, Massimo D’Alema. Errani va dritto: “D’Alema è una risorsa. E te lo dico Giuliano, si è parlato di passo di lato per lui, ma per me esiste solo il passo in avanti”. Ma Pisapia dribbla: “Certe polemiche, D’Alema o non D’Alema, interessano solo certa stampa”. E così sia.

Corriere 6.10.17
Pisapia da Mdp, ma Errani ruba la scena
L’ex sindaco applaudito a Ravenna. E a «Vasco» che lo incalza replica: il leader sei tu
di Monica Guerzoni

RAVENNA Succede tutto alla fine, quando Giuliano Pisapia con un sorriso enigmatico lancia Errani alla guida del centrosinistra in cantiere: «E poi, caro Vasco, stasera il leader è stato nominato da tutti i presenti e sei tu». Forse è solo una battuta, ma quell’attimo di silenzio in sala (e lo stupore dell’ex commissario alla ricostruzione) dicono la sorpresa e forse anche il timore che l’avvocato milanese stia ancora pensando di sfilarsi.
Eppure era andato tutto bene, forse anche troppo viste le tensioni di questi giorni tra Campo Progressista e Mdp. Sotto le alte capriate in legno dell’Almagià, antica fabbrica di zolfo e polvere da sparo, Pisapia arriva alle nove della sera, supera la prova dell’applausometro e sigla la pace con la base bersaniana. «Io sono sempre stato coerente — rivendica l’ex sindaco di Milano — Io con Renzi in questo momento sono sfidante, sono competitivo, ma i nostri avversari sono le destre, la Lega, il populismo». E se dubbi e malintesi ancora aleggiano e rischiano di far naufragare la barca unitaria, Pisapia fa chiarezza e assicura che sì, «ho condiviso la scelta di uscire dall’aula e non votare la nota di aggiornamento al Def».
Tra le bandiere di Mdp, i bersaniani di Ravenna festeggiano il ritorno in pista di Vasco Errani. È lui a scaldare i mille assiepati nella grande sala, a intonare accenti duri e radicali, a rubare la scena a Pisapia ricordandogli che «non c’è più tempo», che è ora di gettare le fondamenta della nuova casa comune: «Non ci interessa un partitino del 3 per cento, noi vogliamo essere l’innesco del cambiamento. Non possiamo continuare a rimestare l’acqua, basta sigle, politicismi, personalismi, rottamazioni, chiudiamo quel libro e andiamo ai contenuti». Ed è sempre lui, Errani, a difendere D’alema: «Dire che è un gruppettaro è una sciocchezza, D’Alema è una risorsa per noi. Nessun passo indietro Giuliano, per me conta solo il passo avanti». Applausi e «bravo!», un coro di emozioni contrastanti che spinge Pisapia a chiudere lo scontro: «D’Alema o non D’Alema, le polemiche interessano solo a certa stampa che vuole creare zizzania».
Tocca a Bersani, che gioca in casa e trascina i mille in platea e grida «non mi si dica di sotterrare il rosso, perché io non sarò mai d’accordo». Bersani all’attacco, Bersani barricadero. Il fondatore di Mdp è entrato in modalità campagna elettorale e non fa sconti a nessuno. Da Renzi a Gentiloni, il Pier Luigi duro e puro ne ha per tutti: «Noi non abbiamo votato il Def e ora vediamo cosa ci diranno sul bilancio. Ma volete mettere un segno di alt a questo insulto a una nuova generazione?».
Alessandro De Angelis domanda se Mdp abbia messo nel conto di non votare la manovra e Bersani, secco: «Sì, con un limite, noi la trojka non la facciamo arrivare, cerchiamo mica il freddo nel letto...».
Sintonia di accenti, comunione di intenti. Finché, sul finale, Errani lancia Pisapia come guida di un progetto collettivo e lo richiama, tra gli applausi di chi si è stufato di aspettare Godot, al tempo che sta per scadere: «Per me Giuliano è il nostro leader ma non ha la delega in bianco non è il capo non comanda da solo...». L’ex sindaco si alza con la faccia scura, prende Errani da parte e si vede che lo scambio di battute è teso. Cosa è successo? «Non capisco — fuma nervoso “Vasco” — Giuliano deve aver frainteso».
Eppure il passo avanti c’era stato, visto che Pisapia ha aperto a un «grande momento partecipativo» in cui mettere al centro «sette punti programmatici concreti per una campagna elettorale unitaria, capace di trasmettere idea che non vendiamo sogni». Ma una cosa Pisapia vuole che sia chiara. L’unione non può essere a due. «Io — strappa una risata — sono per il matrimonio anche omosessuale, ma in politica sono per la poligamia ».

Repubblica 6.10.17
Già pronto il piano B dei demoprogressisti: “Sinistra” nel simbolo
L’ultimatum di Bersani “Subito il nuovo partito o è meglio dividerci”
TOMMASO CIRIACO
ROMA.
«Giuliano, così non si può andare avanti. O remiamo nella stessa direzione, oppure per il bene di tutti è meglio dividere il nostro cammino. Ed è meglio farlo adesso». L’ultimatum di Pierluigi Bersani a Giuliano Pisapia parte da Ravenna. Occhi negli occhi, prima di salire sul palco per un’intervista a Ravenna. Dopo giorni di scontro furibondo a mezzo stampa. «Dobbiamo annunciare la data dell’assemblea fondativa entro una settimana», insiste l’ex segretario dem. «E dobbiamo chiudere con chiarezza a Renzi ». L’avvocato ascolta, ma alla fine non cambia strada. Non esclude un passo di lato. E ribadisce: «Gli avversari sono i populisti. E noi non possiamo rinchiuderci, né fare il partitino del 3%». Un fossato che non si colma. Non a caso, Bersani e D’Alema hanno già pronto il piano B: un nuovo simbolo e un nuovo brand, “Sinistra”. Per far capire al mondo che il progetto ulivista è ormai alle spalle e capitalizzare la battaglia senza quartiere al Pd. Con buona pace di Campo progressista.
Di fronte alla platea dei “compagni” romagnoli, il clima inizialmente è disteso. Bersani e Pisapia, d’altra parte, sono amici. Ma la sostanza non cambia. La parte del poliziotto cattivo tocca a Vasco Errani. Difende D’Alema, smonta i sogni di un “nuovo Ulivo” e chiede radicalità contro il renzismo. È una mossa concordata con Bersani, dopo una triangolazione con Massimo D’Alema e Roberto Speranza. E prevede un timing brusco, che proprio Speranza mette in chiaro: «Ora basta - confida a un collega alla Camera - in questo limbo ci facciamo tutti del male. Se il progetto comune si può fare, bene. Altrimenti ognuno per la sua strada, senza rancore».
Errani “provoca”, Pisapia schiva. Non regala la data dell’assemblea fondativa, né promesse su una battaglia senza quartiere al Pd che l’ex sindaco non vuole regalare a Lega e Cinquestelle. I rapporti restano complicati, a dire poco. «Non c’è più tempo da perdere – si preoccupa Guglielmo Epifani – se serve un giorno in più va bene, ma siamo già in ritardo ». Tutto è appeso a un filo. E molto dipenderà dall’atteggiamento di Matteo Renzi. Proprio oggi, il leader dem riunirà la direzione e batterà su un punto caro all’ex sindaco: «Il Pd è l’unico ostacolo che divide i populisti dal governo». Per il segretario, però, la battaglia di sinistra è una «questione di sigle che non interessa ai cittadini». Ma l’unità, quella con Pisapia naturalmente, resta una strada quantomeno da sondare.
Sia chiaro, Renzi non è convinto che il leader di Campo progressista sia pronto a rompere per davvero con gli scissionisti ex dem. Sa che il progetto dell’ex sindaco nasce anzi per spingere di lato anche la sua leadership. I suoi, però, puntano sui vantaggi di un’eventuale intesa: «Dobbiamo dialogare con Giuliano - gli ricordava l’altro ieri Lorenzo Guerini - perché senza di lui Mdp diventa solo una ridotta dei rancori... ». “Dalemizzare” la sinistra, insomma, per allargare il consenso del centrosinistra.
Molto dipenderà dalla legge elettorale. Il Rosatellum può davvero favorire l’unità tra i dem e Campo progressista, eppure non convince Pisapia. Gianni Cuperlo si è mosso per allettarlo con un meccanismo capace di garantire il voto disgiunto, ma il veto di Forza Italia ha frenato (almeno per il momento) l’operazione. «Però Giuliano - è stato il consiglio di Bruno Tabacci - dobbiamo migliorare la riforma, ma farla approvare ».
È l’opinione che va per la maggiore anche nel Pd non renziano. «Sulla legge elettorale è giusto assecondare Renzi», è la linea di Andrea Orlando. E di Dario Franceschini, faccia a faccia con Tabacci: «Facciamo il Rosatellum, poi vedrete che l’unità sarà inevitabile ». Quelli di Mdp diranno di no eccome, perché hanno in tasca proiezioni devastanti: con il 3% e senza un’intesa con il Pd che “copra” anche la quota uninominale, raccoglierebbero 14 miseri seggi. Altro discorso se il Pd e Campo progressista si ritrovassero uniti nei collegi. Forse è per questo che un pisapiano come Michele Ragosta si lascia sfuggire con Roberto Speranza questa previsione: «Almeno quindici dei nostri voteranno il Rosatellum».
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il manifesto 6.10.17
Sinistra e governo, essere divisivi è la premessa contro l’irrilevanza
di Michele Prospero

In certi momenti si deve essere divisivi, pena l’irrilevanza. Se non prevale nel Mdp chi spinge verso una nitida differenziazione, e prepara così le condizioni per uscire dal governo, si sprofonda in un chiacchiericcio che alla lunga stanca. I tempi stringono e, per aggregare le forze in un largo progetto unitario, serve una disincantata capacità di rottura. Senza operazioni costose (che attirano l’accusa prezzolata di essere per il tanto peggio) ma indispensabili di fuga, non si va lontano nella strategia.
Nessuna composizione di soggetti molteplici è destinata al successo se rimane il semplice frutto di una ingegneria elettorale. Se la lista comune si configura come un’alchimia di forze messe insieme da federatori peraltro riluttanti, il suo cammino stentato conduce al naufragio. E’ inevitabile disperdere ogni potenza dietro parole vacue di chi nello scontro si fa predicatore di unità, nel momento dell’abbandono recita la litania della responsabilità. Non si può lanciare una sfida rimanendo nell’indeterminatezza di una battaglia terminologica per stabilire se essere alternativi o sfidanti rispetto al Pd.
Deve essere chiara una regola elementare della lotta politica. Senza un movimento reale, cui dare uno sbocco nella rappresentanza politica, le sigle inventate alla vigilia del voto restano progetti evanescenti. Il problema è perciò di agganciare la proposta politica unitaria a un ventaglio con alcuni grandi temi che mobilitano i soggetti. Se questa individuazione di poche ma riconoscibili idee-forza manca, non si procede di un palmo nella conquista del consenso. L’irrilevanza sarà una conseguenza scontata di pure incollature di sigle con scarsa propensione al conflitto politico.
Due grandi questioni oggi continuano a creare fratture nella società e quindi a scatenare dissensi: la lotta alla precarietà, che il Jobs Act ha istituzionalizzato come condizione umana permanente, e la battaglia per una legge elettorale conforme alla costituzione, che il governo allontana con nuove manipolazioni truffaldine. Su queste due grandi cesure deve inserirsi la sinistra unita per cercare il suo spazio che in potenza, malgrado l’insipienza tattica diffusa, è ancora consistente.
Questi due assi programmatici invocano una coerente radicalità. Nulla è più dannoso di un continuo distinguo lessicale che tende ad ammorbidire i toni per paura di colpire nel segno. Se alle parole di rottura e autonomia felicemente sfuggite di senno si affiancano suggestioni per il gran ritorno a casa, il progetto crolla all’istante, perché minato da una contraddizione insanabile. Non c’è più tempo per rinvii: quando serve, bisogna graffiare. La chiarezza della proposta, e la risolutezza nelle operazioni che la sorreggono, è la condizione per il successo.
Chiunque comprende che una sinistra autonoma, per decollare come credibile candidatura riconosciuta da una fetta di società, deve essere percepita come divisiva. Staccare una delle sue componenti dal governo, è un’operazione inevitabile, se si intende crescere nello spazio politico affollato.
Esitare nel taglio con l’esecutivo equivale a perire nella assoluta irrilevanza. Positive sono per questo le dimissioni di Bubbico, le limpide parole di Speranza e D’Alema. Non si deve tornare indietro rispetto all’abbandono della maggioranza. Se a marzo il Mdp arriva come passiva componente del governo in carica, la lista unitaria è spacciata.
Se si balbetta nel seguire la geometrica condotta indispensabile per raccogliere i frutti di una radicalizzazione che ha giustificato una scissione, si smarriscono energie vitali.
Incomprensibile, per chi cerca l’autonomia, sarebbe rimanere ancora agli ordini del governo che medita alchimie elettorali per sbarazzarsi degli sfidanti. Bisogna essere divisivi, non ci sono alternative all’attacco frontale.
Persino Berlusconi ha sfiorato un inopinato successo nel 2013 quando ha differenziato, prima del letargo imposto dal generale inverno, le sue sorti da quelle del governo Monti. Essere responsabili significa oggi abbandonare il governo della precarietà e della manipolazione della costituzione per condurre le battaglie che aspettano interpreti credibili perché fortemente divisivi.

Il Fatto 6.10.17
Giudice sbagliato: il processo Cucchi slitta ancora
Nel collegio che giudicherà i carabinieri c’è una magistrata incompatibile
Giudice sbagliato: il processo Cucchi slitta ancora
di Valeria Pacelli

Il rischio prescrizione incombe sul processo Cucchi. Il reato di calunnia contestato a tre carabinieri si prescriverà tra un anno esatto, a ottobre del 2018. È l’ennesimo intoppo sull’infinita vicenda giudiziaria nata sulla morte di Stefano Cucchi, deceduto il 22 ottobre 2009 nell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dopo l’arresto per possesso di droga. Sono passati otto anni dal giorno della morte del geometra e dopo una prima inchiesta finita con una sfilza di assoluzioni definitive per i medici, la fine sembra lontana. Con l’indagine bis, nata a settembre del 2015, la Procura di Roma ha intanto messo sotto accusa per la prima volta i carabinieri che arrestarono il giovane: in cinque sono stati rinviati a giudizio.
La prima udienza fissata per il 13 ottobre, però, rischia di slittare per incompatibilità del giudice designato dal Tribunale, allungando così ancora i tempi, mentre alcuni dei reati contestati sono già prescritti (come l’abuso di autorità contro arrestati e detenuti) mentre per altri (la calunnia) manca poco. Restano in piedi i reati più gravi, il falso in atto pubblico e l’omicidio preterintenzionale, quest’ultimo contestato ad Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e al vicebrigadiere Francesco Tedesco, che nel 2009 erano in servizio presso il Comando Stazione di Roma Appia. I tre militari – secondo il pm Giuseppe Musarò – avrebbero colpito Stefano con “calci, pugni e schiaffi” provocandone “una rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale” cagionando lesioni “che, unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che lo avevano in cura al Pertini, ne determinavano la morte”.
Tedesco è accusato anche di calunnia perché come testimone davanti alla Corte d’Assise avrebbe dichiarato il falso sugli agenti di polizia penitenziaria imputati sulla base della prima inchiesta (poi sono stati tutti assolti in maniera definitiva). Lo stesso reato – a rischio prescrizione – è contestato anche al maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l’arresto di Cucchi, e a Vincenzo Nicolardi.
L’udienza del 13 ottobre potrebbe saltare per un meccanismo automatico del Tribunale, che ha assegnato il processo alla III Corte d’Assise di Rebibbia presieduta dal magistrato Evelina Canale. È già stata presidente del collegio che nel primo processo Cucchi assolse gli agenti di polizia penitenziaria e gli infermieri, condannando invece i medici (poi assolti in appello). Per questo ieri l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, ha presentato un’istanza al Tribunale, sollevando la questione dell’incompatibilità. “Apprendo che l’udienza – ha scritto Ilaria Cucchi su Facebook – non si terrà perché assegnata alla stessa presidente, Evelina Canale, del primo processo la quale si dovrà astenere con ulteriore slittamento di un dibattimento che avrebbe dovuto iniziare otto anni fa”.
Per la Cucchi il problema è l’intero sistema giudiziario: “Sembra che alla giustizia non interessi nulla. È noto che i carabinieri imputati contano sulla prescrizione. Era necessario far passare questi mesi senza fare nulla per sostituire il giudice incompatibile? Ci sentiamo presi in giro”.
Che il processo Cucchi, al di là dell’assegnazione a una nuova sezione, si preannunci lungo è evidente pure dalle liste testi che contano circa 200 persone. Non mancheranno i volti noti: il legale dei Cucchi vuole convocare in aula l’ex ministro Ignazio La Russa per le affermazioni fatte in passato in difesa dei carabinieri.

Il Fatto 6.10.17
Province al collasso, oggi lo sciopero dei 20mila dipendenti

“Evitiamo il baratro. Siamo al collasso delle Province e delle Città Metropolitane, servono risorse per consentire l’erogazione dei servizi fondamentali ai cittadini e per tutelare i diritti dei lavoratori, a partire dal pagamento degli stipendi”. Con queste motivazioni Fp Cgil, Cisl Fp e Uil Fpl hanno chiamato per oggi allo sciopero gli oltre 20mila dipendenti di Province e Città Metropolitane. A Roma, davanti a Montecitorio ci sarà un sit-in a partire dalle 10 che vedrà la presenza delle segreterie nazionali di Fp Cgil, Cisl Fp e Uil Fpl”. Secondo la Cgil i diversi passaggi dalla legge Delrio a oggi hanno portato gli enti al collasso causando “una migrazione forzata di oltre 16 mila dipendenti verso altri enti, una riduzione di spesa pari a 4,3 miliardi dal 2013 a oggi, con 38 province ordinarie in un pericoloso stato di squilibrio economico, organici ridotti all’osso per il blocco del turn over confermato anche per quest’anno”. Il recente decreto enti locali ha stanziato un contributo “straordinario2 di 73 milioni per evitare il dissesto delle 38 Province. Di queste, però, 6 non hanno ricevuto nulla per errori di procedura, mentre altre 32 hanno ricevuto 72 milioni pur registrando un fabbisogno complessivo di 207 milioni.

il manifesto 6.10.17
Catalogna: danni, opportunità e pericoli
Indipendenza. Il settore che vuole continuare a promuovere la separazione ne è uscito rafforzato, ma ora deve giocare le proprie carte con intelligenza e senza avventurismi, per evitare che la tensione finisca per sfociare nella socializzazione del conflitto ben oltre gli spazi istituzionali e pubblici
di Joan Subirats

La data del referendum del 1 ottobre in Catalogna è trascorsa. I danni sono importanti. Circa novecento feriti per mano della polizia e della guardia civile che hanno cercato di far fallire il referendum. Scuole e altri spazi elettorali danneggiati nelle stesse circostanze. Danni significativi anche per la credibilità del governo e la possibilità di dialogare con un Partito popolare (Pp) che si chiude davanti a qualunque soluzione, salvo colpire con il pretesto della legalità.
Quel che è certo è che il voto di domenica, con tutti gli ostacoli subiti e con tutti gli incidenti avvenuti, difficilmente può servire a far avanzare la proclamazione di indipendenza prevista; più che di un processo elettorale con garanzie, si è trattato di un trionfo della determinazione politica dei suoi promotori e del movimento sociale che li sostiene.
In questi momenti la coalizione sovranista costruita intorno alla difesa della democrazia, alla risposta alla repressione e alla necessità di una consultazione effettiva, può indebolirsi se cerca di bruciare le tappe senza riflettere e senza tener conto della quantità di persone che non sono mobilitate e che su quanto sta accadendo hanno opinioni diversificate. Occorre essere coscienti del fatto che una pluralità di posizioni politiche e di sentimenti esisteva in Catalogna prima del 1 ottobre e continua a esistere oggi.
È importante considerare che la giornata di domenica 1 ottobre e lo sciopero generale di martedì contro la repressione durante le operazioni di voto, non sono stati solo l’espressione della volontà di votare sì o no all’indipendenza. Sono la voce di una gran parte della società catalana che non vuole essere assoggettata e che chiede rispetto. Una società che ha guadagnato empowerment e che vuol essere soggetto, non oggetto delle decisioni politiche altrui. L’emozione di costruire insieme, e di farlo con le proprie forze e risorse, dal basso, è stata evidente. I corpi delle persone di fronte alle armi della polizia. La preoccupazione, le cure e le attenzioni che la gente si scambiava erano molto lontane dalle scene delle normali elezioni. Anziani, bambini, donne erano oggetti di attenzioni speciali. Si sono viste immagini più significative di quelle cui siamo solitamente abituati con i politici ai seggi. E anche questo è stato un elemento da sottolineare, del 1 ottobre.
Quali cambiamenti ha prodotto la celebrazione di questo referendum? Il problema che avevamo in Catalogna è diventato più evidente. Ormai è impossibile prescinderne sia a livello dello Stato spagnolo che dell’Unione europea, come dimostrano le reazioni di portavoce ufficiali di vari governi, le prime pagine dei principali quotidiani di tutto il mondo e il dibattito che si è svolto mercoledì al Parlamento europeo.
Il settore che vuole continuare a promuovere la soluzione indipendentista ne è uscito rafforzato, ma ora deve giocare le proprie carte con intelligenza e senza avventurismi, per evitare che la tensione finisca per sfociare nella socializzazione del conflitto ben oltre gli spazi istituzionali e pubblici.
Occorre anche vedere se nell’insieme della Spagna la capacità di mobilitazione inizia a crescere, per affrontare l’immobilismo del Pp e dei suoi alleati, e per trovare un’alternativa al regime del 1978 che ormai dà il peggio di sé. E in questo contesto, il Partito socialista può avere un ruolo fondamentale, malgrado la delusione prodotta dalle dichiarazioni del leader del Psoe Pedro Sánchez nella notte di domenica, quando ha mostrato una grande ambiguità. Le persone più sensibili all’espressione della volontà popolare, hanno cominciato a generare divisioni tra i dirigenti socialisti e tra chi è coinvolto più da vicino in ciò che succede, come i sindaci e le sindache della Catalogna, manifestando opinioni molto diverse da quelle di Sánchez.
L’intervento del re ha suscitato molta delusione: egli si è semplicemente messo al servizio della posizione del governo, rafforzandone l’atteggiamento legalista e autoritario, e senza dimostrare alcuna empatia nei confronti dei feriti e della popolazione colpita. La tattica del negare la realtà da parte del Pp e dei suoi alleati ha portato a questo punto. Si tratta ora di sapere se sarà possibile andare avanti mantenendo la forza trasformatrice e ampia del movimento sociale in marcia, cercando alleanze all’interno e all’esterno.
La dinamica azione-repressione che si è innescata ha favorito l’appoggio sociale alle scelte indipendentiste, ben oltre il loro ambito effettivo. Ma questa strategia non può rimanere in piedi a lungo perché inizia a destare preoccupazioni e un sentimento di insicurezza in molte persone, e può finire nello sfociare in situazioni di tensione sociale – se ne sono visti alcuni accenni.
Nei prossimi giorni un elemento chiave potrebbe essere il concretizzarsi dell’opzione di mediazione e dialogo proposta dalle sindache di Madrid, Manuela Carmena, e di Barcellona, Ada Colau. L’accoglienza è stata un ottima accoglienza. Ma è preoccupante la visione angusta e rigida del governo di Madrid il quale continua a sostenere un intervento giudiziale punitivo, mentre l’Unione europea dal canto suo che si è limitata a esprimere preoccupazione per la violenza e insistere che si tratta di una questione interna spagnola. Sono concezioni diverse della democrazia. Da un lato, quelli che pensano che è democratico solo ciò che è legale, e che si fa politica solo nelle istituzioni. Dall’altro, quelli per i quali la grande virtù della democrazia è proprio la capacità di accettare il conflitto come leva per l’innovazione e la trasformazione, se avviene in modo pacifico e con la volontà e il coinvolgimento diretto della cittadinanza.

La Stampa 6.10.17
L’immobile Rajoy assediato dagli alleati
“Ora agisci o è la fine”
di F. Oli.

La pressione aumenta man mano che arrivano i dispacci dalla provincia ribelle: «Mariano fai qualcosa». Sono mesi che lo tirano per la giacca e ora non c’è davvero un minuto da perdere: il parlamento della Catalogna ha preparato (quasi) tutto per dichiarare l’indipendenza e bisogna muoversi prima che la situazione precipiti ulteriormente. Re Filippo d’altronde è stato chiaro nel suo messaggio alla nazione: in Catalogna bisogna ripristinare l’ordine costituzionale. Detto dal capo delle forze armate, è sembrato a tutti un messaggio al governo, un via libera per gli interventi che si rendono necessari: sospensione parziale dei poteri dell’autonomia catalana e accelerazione sulle inchieste della magistratura, con tutte le conseguenze possibili, compreso l’arresto del presidente (esistono già vari dossier su come portare a termine l’eventuale operazione). Il dispiegamento di forze sul campo resta poderoso: gli oltre diecimila agenti di polizia rimangono a presidiare un territorio ormai sfuggito di mano. I rinforzi sono pronti: mercoledì sono partiti dei sostegni logistici alla polizia da parte dell’esercito, mentre ieri la ministra della Difesa, Maria Dolores de Cospedal, costituzione alla mano, ricordava che «le forze armate hanno il compito di garantire l’integrità territoriale del Paese». Ma il ministro degli Esteri Dastis dice: «Non manderemo l’esercito».
Il premier però non abbandona la prudenza, «l’immobilismo di Mariano» d’altrone è ormai quasi una categoria della politica e intorno a lui cresce l’insofferenza. Una successione non si intravede, almeno nel partito. Anche se a destra in molti apprezzano, almeno per questa battaglia, i movimenti di Albert Rivera, il giovane (e catalano) leader dei centristi di Ciudadanos.
Ieri è stata l’ennesima giornata in cui, nella capitale spagnola tutti aspettavano una mossa concreta, e invece dal premier è arrivato un ulteriore, e probabilmente inutile appello: «Fermatevi prima che arrivino mali maggiori». Ma, si nota nei settori critici: «È la stessa frase, con le stesse parole che va ripetendo da mesi senza alcun effetto».
L’ultimo a uscire allo scoperto è anche il più autorevole, almeno tra gli elettori del Partito Popolare, José Maria Aznar. L’ex premier ieri faceva pubblicare sul sito della sua potente Fondazione Faes un comunicato secco con il premier, il cui senso è: o fa qualcosa di concreto in Catalogna oppure si faccia da parte. La soluzione più verosimile è chiamata semplicemente con un numero: 155, ovvero l’articolo della costituzione che consentirebbe allo Stato di scavalcare l’autorità locale per ristabilire la legge. Uno è il caso concreto che tornerebbe utile: Madrid potrebbe prendere il comando dei Mossos, la polizia catalana che domenica scorsa non ha eseguito gli ordini, facilitando la celebrazione del referendum illegale.
A Madrid esiste quello che il vicedirettore del quotidiano catalano «La Vanguardia», Enric Juliana ha ribattezzato il «club del 155», un circolo le cui fila si ingrossano di nuovi e potenti soci: politici di destra e di centro (Ciudadanos), ministri, imprenditori, giornali (praticamente senza eccezioni) e larga fetta dell’opinione pubblica spagnola. Ieri si è aggiunta un’istituzione culturale come l’Accademia reale di Spagna, che ha chiesto di far fronte immediatamente al secessionismo.
Nel club però ancora non c’è Mariano Rajoy né Soraya Saenz de Santamaria, la vicepresidente mente della campagna catalana, oggi indebolita dallo sviluppo dei fatti. La linea del premier per ora non cambia: aspettare la proclamazione dell’indipendenza, lunedì o quando sarà, per passare all’azione un minuto dopo. Nel frattempo l’azione giudiziaria fa il resto, portando avanti le molte inchieste aperte contro i secessionisti. Ma il club del 155 lo assedia: «Fai qualcosa o la Spagna si spacca».

Corriere 6.10.17
Iglesias: con atti unilaterali diventeremo la Turchia
«Abbiamo ancora pochi giorni per evitare il disastro e abbiamo il dovere di provarci». Pablo Iglesias, tra i fondatori di Podemos di cui è segretario, l’erede del movimento degli Indignati anti austerità, parla al Corriere . «Potremmo vedere la Spagna trasformarsi in una Turchia dentro la Ue».
di Andrea Nicastro

MADRID «Abbiamo ancora pochi giorni per evitare il disastro e abbiamo il dovere di provarci. Con la dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte catalana e la prevedibile durissima reazione del governo centrale potremmo vedere la Spagna trasformarsi in una Turchia dentro l’Ue. Ci risveglieremmo con un governo come quello di Erdogan, che mostra una parvenza di democrazia, ma che è di fatto autoritario e repressivo». Pablo Iglesias è il codino ribelle della politica spagnola, l’erede del movimento degli Indignati anti austerità. Alle elezioni del 2015 ha mancato per un soffio lo storico sorpasso sui socialisti proprio perché, secondo alcuni, aveva appoggiato il diritto a un referendum legale in Catalogna inimicandosi l’elettorato della Spagna profonda. La sindaca di Barcellona, Ada Colau, fa parte della sua galassia politica e come lei anche a livello nazionale Podemos è a favore di un referendum legale per la secessione dalla Spagna, ma non a una dichiarazione unilaterale di indipendenza.
Iglesias, lei ha già provato a mediare, senza risultato.
«Non è esatto. Mercoledì ho parlato ai due presidenti, lo spagnolo Rajoy e il catalano Puigdemont. Assieme a molte altre forze ho proposto loro almeno di sedersi per individuare un mediatore di comune fiducia. Puigdemont mi ha inviato un messaggio su WhatsApp con una parte del discorso che avrebbe fatto in tv: aperto ad ogni mediazione, ma avanti verso l’indipendenza».
Poco, ma almeno qualcosa. E il premier Rajoy?
«Prima mi ha ringraziato, ma dopo le dichiarazioni di Puigdemont ha ribadito che la sua precondizione al dialogo è la rinuncia alla dichiarazione di indipendenza».
I catalani però non intendono rinunciarci.
«Anch’io lo penso, ma so anche per certo che a Barcellona sono consapevoli di cosa comporti: non tanto e non solo l’articolo 155 della Costituzione che permetterebbe di prendere il controllo della Generalitat, quanto l’applicazione dell’articolo 116 che significa “stato di emergenza”: sospensione delle libertà pubbliche che sono il fondamento della democrazia».
Il coprifuoco nella città della movida?
«In Catalogna l’85% della popolazione vuole votare. Significa metterli tutti fuori legge. In politica si sa come cominciano le cose, ma non come finiscono. Fino ad ora non c’è stato l’incidente irreparabile, ma se si prosegue verso la distruzione dello Statuto di Catalogna e il conflitto tra istituzioni, chi lo sa?».
Siamo alla vigilia di una nuova guerra civile?
«Non immagino la Spagna come la Jugoslavia, ma se a Barcellona i rappresentanti democraticamente eletti finiscono in cella è un dramma. Non è fantapolitica. Il comandante dei Mossos d’Esquadra rischia 15 anni per sedizione».
E la vostra mediazione?
«Stiamo mettendo sul tavolo dei nomi all’altezza: ex presidenti, ecclesiastici, impresari, figure internazionali. C’è convergenza su uno in particolare, ma non voglio bruciarlo. I telefoni restano accesi. Per fortuna anche la Chiesa cattolica sta lavorando sotto traccia, con il prestigio e la discrezione che le è propria, ma sta lavorando».
È l’ultima spiaggia?
«C’è anche la via della mozione di sfiducia a Rajoy. Se Pedro Sánchez del Partito socialista volesse, i numeri per scalzare il premier ci sono. Psoe, Podemos, nazionalisti catalani e baschi possono fare una maggioranza di salute pubblica. Dipende solo da Sánchez. Penso sia schiacciato tra la base che vorrebbe avvicinarsi a noi e la vecchia guardia che punta su un governo di grande coalizione con il Pp».
La secessione si fermerebbe?
«Per salvare la democrazia spagnola è necessario portare il Pp all’opposizione. Hanno utilizzato il governo per proteggere i loro politici corrotti e hanno utilizzato il conflitto catalano come cortina di fumo, trasformando la politica in un derby tra Barça e Real Madrid. La Catalogna vuole allontanarsi dal governo Rajoy, non dalla Spagna. Il rapporto tra le élite madrilene e catalane ha funzionato per decenni anche tra partiti conservatori. Persino la destra può capire la pluralità della Spagna, ma quando il Pp si è convertito in una forza marginale in Catalogna, il sistema ha perso coesione. E questi sono i risultati».
C’è il re garante di unità.
«Il suo discorso di martedì sera è stato un errore storico. Ha parlato da re del Partido Popular e ha cominciato a smettere di essere il re di Spagna. Lo dico come uno che considera che Felipe VI abbia molte più virtù di Juan Carlos, ma con quel discorso ha legato il suo futuro al Pp. Un capo di Stato non eletto deve tenere un ruolo indipendente o almeno parlare a tutti».
Gliel’ha detto in faccia?
«No, perché non mi ha chiamato. Suo padre telefonava ai nazionalisti baschi, lui no. Suo padre telefonava ai comunisti che avevano un terzo dei nostri voti, lui no. Avrebbe dovuto chiamare Puigdemont, la sindaca Colau, non l’ha fatto ed è un ulteriore segno di debolezza da parte di Rajoy. I giocatori di scacchi lo sanno molto bene, quando devi muovere il re vuol dire che stai perdendo la partita».
(Ha collaborato Belen Campos Sanchez)

Corriere 6.10.17
La crisi catalana rivela un’europa in ostaggio degli Stati-nazione
di Donatella Di Cesare

Si può forse comprendere l’imbarazzo degli altri Stati europei verso quel che accade in Spagna, nella cui possibile implosione leggono i presagi di un pericolo che incombe anche sul loro futuro. Più difficile è accettare invece quel silenzio dell’Unione Europea divenuto poi difesa esplicita dello «Stato di diritto». Questa difesa vuol dire nei fatti sostegno allo Stato spagnolo, senza aperture (a parte la denuncia delle violenze) alle rivendicazioni del popolo catalano. Ma non si auspicava la creazione, con l’Europa, di una nuova forma politica post-nazionale? Rinunciando a svolgere un ruolo attivo di mediazione, in un frangente così drammatico, l’Ue sembra confermare, con la sua posizione, di essere il custode rigido degli Stati-nazione. Nulla di più. Il che non può non deludere profondamente i cittadini europei. E a proposito di cittadinanza: non si sperava forse, dopo tutti i disastri del secolo scorso, che si potesse essere «cittadini europei» senza appartenere necessariamente a uno Stato-nazione? I catalani sarebbero allora cittadini europei anche se non dovessero più essere cittadini spagnoli. Altrimenti dovremmo pensare che il passaporto europeo non sia che un duplicato di quello nazionale. Al contrario di quel che credono i sovranisti, il limite dell’Europa non è quello di aver messo in questione la sovranità dei singoli Stati-nazione, bensì di non essere riuscita a scardinare dal fondo questa vecchia finzione, da tempo in crisi, più esangue che mai e perciò tanto più avvinghiata al potere. L’Europa è rimasta ostaggio delle nazioni. La crisi catalana, che non può essere ridotta allo scontro simmetrico fra due nazionalismi – già solo perché da una parte c’è un apparato statale – porta alla luce, oltre alla deleteria finzione dello Stato-nazione, che ovunque minaccia di implodere, l’incapacità dell’Europa di costruire forme nuove di cittadinanza e di coabitazione. E non è difficile prevedere che altre crisi simili si ripeteranno e finiranno per pregiudicare, se non ci sarà un’altra politica, il precario equilibrio europeo.

Il Fatto 6.10.17
1968, la rivoluzione è diventata un cold case
A distanza - A Valle Giulia c’erano tutti, ma 50 anni dopo, cosa (e chi) è rimasto del movimento che avrebbe dovuto cambiare il Paese?
di Mario Portanova

Immaginate una giornata di scontri di piazza durissimi: botte, sassi, molotov, almeno 400 feriti. Al posto dei black bloc, però, ci sono Giuliano Ferrara, Paolo Liguori, Paolo Mieli, Ernesto Galli della Loggia, Paolo Flores d’Arcais, Claudio Petruccioli, Bernardo Bertolucci, Massimiliano Fuksas… E sul fronte opposto, sotto il casco da “celerino”, Michele Placido. Sono solo alcuni dei futuri famosi che il primo marzo 1968 presero parte alla battaglia di Valle Giulia, quella che poi Pasolini eternò nei versi sui poliziotti figli del popolo, schierandosi contro gli studenti “borghesi”. Versi periodicamente riesumati, da destra e non solo, quando volano manganellate. Alcuni di quei famosi ricostruiscono, mezzo secolo dopo, quella giornata storica in un’inchiesta di Fq MillenniuM, il mensile del Fatto diretto da Peter Gomez, da domani in edicola con un numero largamente dedicato al ’68. “Mi ricordo un dibattito piuttosto divertente sulle azioni da compiere: qualcuno propose di cominciare a lanciare i sassi, ma poi si disse che i sassi ce li avrebbero rilanciati. Allora si decise per le uova, perché una volta lanciate non potevano tornare indietro”, ricorda per esempio l’odierna archistar Fuksas.
Fq MillenniuM approfondisce un aspetto dimenticato: la presenza a Valle Giulia di gruppi di fascisti (capitanati da un altro famoso, il leader di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie) che si diedero parecchio da fare nelle azioni più violente (sulle prove tecniche di strategia della tensione dei “neri”, Fq MillenniuM pubblica un’inchiesta di Gianni Barbacetto). E Pasolini? A parte che nessuno ricorda il brano di quella stessa poesia in cui l’intellettuale chiarisce “siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia”, la sua presa di posizione divide ancora oggi. “Inopportuna”, secondo Lanfranco Pace, oggi giornalista, allora in piazza a Roma e poi fra i leader di Potere operaio. “La distanza tra molti degli studenti e quei poliziotti era palese”, afferma invece Galli della Loggia, oggi commentatore del Corriere della Sera. “I volti degli uomini in divisa erano davvero volti di contadini”. Per Liguori, che poi andò in Lotta Continua e oggi dirige Tgcom24, fu invece “una risposta viscerale di un intellettuale che ci voleva bene”. “E quanto son cambiato allora”, canta Francesco Guccini in Eskimo. Il grande cantautore e scrittore scrive per Fq MillenniuM un testo che dal suo ’68 arriva ai giorni nostri: “Non feci mai parte di nessun gruppetto o movimento”, rievoca. “Ho un ricordo lontano di un sentimento di sospetto verso il Partito comunista. Del resto nutrivo una certa simpatia, anche se un po’ superficiale, per alcune frange anarchiche”. Il ’68 italiano esplode in realtà il 27 novembre 1967, con l’occupazione di palazzo Campana a Torino. Fq MillenniuM torna sul luogo del “delitto” con lo storico Giovanni De Luna, a riscoprire vecchie scritte preservate dalle ristrutturazioni (“Il potere politico sta nelle canne dei fucili”, Mao Tse-tung) e a rivivere il clima di quegli anni. A partire dal baronaggio spietato (oggi tutt’altro che scomparso, dicono le cronache), come quello di un grande italianista che agli esami faceva indossare le pattine per non rovinare il parquet e ti bocciava se incespicavi.
Ha senso rivangare il ’68, oggi, quando i suoi protagonisti sono per lo più incanutiti, imborghesiti, accomodati? Fq MillenniuM cerca di raccontare, come si fa con un cold case, un momento storico che ha scosso il mondo. E di sgomberare il campo dalle opposte retoriche che, come spesso succede, annebbiano i fatti.

La Stampa 6.10.17
L’altra faccia dell’intelligenza
“Non solo una debolezza, ma un’abilità sociale”
Gli studiosi: così il pettegolezzo ci ha fatto evolvere
di Maria Corbi

Roma Il pettegolezzo salverà il mondo? Forse no, ma ha reso l’uomo «intelligente». La pratica più diffusa e nello stesso tempo disprezzata dell’umanità interessa da tempo gli studiosi della mente, che sono d’accordo ormai sul fatto che sia un’abilità sociale evoluta e che non si possa liquidare come una debolezza dell’animo umano. Anzi, secondo lo psicologo evoluzionista Robin Dunbar, il gossip è stata la forza della nostra specie.
L’intelligenza dei primi uomini si sarebbe sviluppata attraverso i racconti intorno al fuoco che coinvolgevano le persone della tribù, in parte veri e in parte falsi. Ossia gossip. E adesso esce una nuova ricerca dall’Università di Ottawa che conferma: il pettegolezzo è un’abilità sociale altamente evoluta e una tattica di concorrenza intrasessuale. Lo studio ha coinvolto 290 studenti eterosessuali di età compresa tra i 17 ei 30 anni, che hanno compilato tre questionari. Il primo ha misurato la competizione tra persone dello stesso sesso, con particolare attenzione a quella «amorosa». Gli altri questionari hanno misurato, invece, la tendenza dei partecipanti a fare pettegolezzi su altri, il valore sociale percepito dei pettegolezzi e il giudizio sull’attitudine a parlare degli altri dietro le spalle.
Il risultato confermerebbe uno «stereotipo» odioso, ossia che le donne sono più inclini all’arte del «taglia e cuci», anche se per una finalità «sociale» e non semplicemente ludica. Concentrandosi sulle caratteristiche fisiche delle loro «competitor», mentre i maschi tra loro «sparlano» dei risultati ottenuti dal rivali, riguardo l’aspetto fisico e i risultati professionali. Insomma, oggetto del pettegolezzo sarebbero «le armi» non tanto segrete con cui per millenni si è combattuta la guerra della seduzione: la bellezza delle donne e il potere degli uomini. Adam Davis, che ha condotto lo studio canadese non ha dubbi: «I risultati dimostrano che i pettegolezzi sono intimamente legati alla concorrenza sentimentale e non sono perciò da liquidare come il prodotto di uno stereotipo femminile di genere da biasimare o un difetto di carattere».
«L’etimologia della parola «pettegolezzo» spiegherebbe la nascita di questa abitudine universale e sicuramente seccante per chi ne è oggetto (su questo gli studi non possono fare grandi «revisioni»). Deriverebbe dal termine «pithecus», scimmia. Il che confermerebbe la teoria di Dunbar che associa le «chiacchiere» al «grooming» dei primati. Le scimmie, spulciandosi reciprocamente, riescono a mantenere le relazioni con la loro cerchia (una cinquantina di individui). Mentre l’uomo moderno per ottenere lo stesso risultato rispetto a cerchie molto più vaste (circa 160 individui) farebbe le «pulci» con il pettegolezzo, una sorta di collante sociale. 
Tutto giusto, per carità, ma vallo a spiegare alle vittime del «bullismo pettegolo», soprattutto adolescenti, che ogni giorno soffrono per questa pratica «altamente evoluta». Eppure la rivalutazione del gossip dilaga. Secondo Kathryn Waddington, a capo del dipartimento di psicologia dell’Università di Westminster, per esempio, nel mondo del lavoro il gossip sarebbe fondamentale: una strategia di creazione di consenso, un modo di comunicare e gestire le emozioni, un meccanismo per fronteggiare l’incertezza e un mezzo di sabotaggio e resistenza. Una rivoluzione rispetto all’etica protestante, secondo cui chi lavora non ha tempo di fare chiacchiere.
Il gossip come l’altra faccia dell’intelligenza, dunque, almeno quella evolutiva. La cui potenza, però, può fare danni irreparabili. E non ci voleva la scienza per capire che spesso le «voci» rimangono cucite addosso per sempre. Ma in ogni caso un gruppo di ricercatori del Max-Planck-Institut per la biologia evolutiva a Plön, in Germania, hanno confermato la «forza» del pettegolezzo che riesce a condizionare i comportamenti di chi ne è a conoscenza, anche quando ha accesso all’informazione corretta e all’origine della diceria. Citando liberamente Mark Twain: un pettegolezzo fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo, mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe.

Corriere 6.10.17
L’editore pugile voleva donare 200 mila libri. Tutti al macero
Napoli, i volumi di Tullio Pironti distrutti dal Comune che li ospitava
di Fulvio Bufi

NAPOLI Un editore, un presidente di municipalità e duecentomila libri andati al macero. Perché erano «ospitati» in un deposito comunale, e però quel luogo ora serviva ad altro, ad accogliere biciclette elettriche. E tra mobilità ecosostenibile e cultura è stata preferita la prima. Non dall’editore, ovviamente: dal presidente di municipalità.
Raccontata ieri dal Mattino , questa storia avviene nel pieno centro di Napoli: piazza Dante, con i decumani alle spalle e via Toledo davanti, lunga e dritta fino a piazza del Plebiscito. Insomma, più Napoli di così non si può.
Ed è un simbolo di Napoli anche uno dei protagonisti, l’editore: Tullio Pironti, ottant’anni portati da metterci la firma, un passato da pugile, un Nobel (Nagib Mahfuz) e migliaia di scrittori in catalogo, una grande amicizia con Fernanda Pivano, e un’onorificenza conferitagli dal sindaco de Magistris proprio in occasione dell’ottantesimo compleanno.
L’altro protagonista, Francesco Chirico, ha certamente un curriculum di altra natura — è un politico e anche abbastanza giovane — ma presiedendo la seconda municipalità, tra l’altro una delle più importanti, è a pieno titolo un rappresentante delle istituzioni.
Tra i due non c’è polemica, non ci sono scontri verbali. Chirico dice: «Io a Tullio voglio un gran bene», ma comunque difende la sua scelta. E Pironti, che è uomo anche di profonda ironia, reagisce regalando all’altro la sua autobiografia, che si intitola non a caso Libri e cazzotti . Però chiarisce: «Nessun sottinteso, questo è un regalo pacifico».
E di libri lui avrebbe voluto regalarne molti di più e a qualsiasi napoletano o turista presente in città. Diciamo che ne avrebbe regalati anche duecentomila, proprio quelli che grazie all’ospitalità offertagli direttamente dal sindaco, aveva accatastato nel deposito ora destinato ad accogliere bici elettriche. Quell’infinità di pacchi di volumi incellofanati avrebbe voluto riportarli in piazza Dante, farne una montagna e lasciare che chiunque passasse ne prendesse qualcuno. Aveva fatto qualcosa del genere anche il giorno del suo compleanno, e aveva distribuito così circa duemila libri.
Ma spostarne duecentomila era molto più complicato, e l’appuntamento con la grande montagna di carta e cultura alla fine non era stato mai fissato. «Noi lo avevamo avvertito che quei libri si stavano danneggiando e che se non li avesse recuperati saremmo stati costretti a mandarli al macero», spiega Chirico. E aggiunge: «Purtroppo Pironti l’evento in cui intendeva distribuire i volumi non è riuscito a organizzarlo ed è arrivato un momento in cui abbiamo dovuto procedere allo sgombero del deposito». Sono arrivati i camion dell’Asia (l’azienda che cura a Napoli lo smaltimento dei rifiuti), è stato utilizzato un muletto, e pacco dopo pacco quel grande spazio che nel secolo scorso fu rifugio in tempo di guerra e poi sala cinematografica, è tornato a essere un posto vuoto. In attesa di accogliere bici elettriche che però, per adesso ancora non si vedono.
Forse prima o poi arriveranno davvero. E forse prima o poi si farà davvero anche la montagna di libri in piazza Dante. Perché Pironti ha ancora migliaia di volumi sparsi in diversi depositi, e il progetto di regalarli a chiunque li voglia non lo ha affatto abbandonato. Certo, quei duecentomila lì a pochi metri dal centro della piazza non ci sono più, e quindi sarà un po’ più complicato organizzarsi per il trasporto, ma «se de Magistris riuscisse a darmi una mano, io la montagna di libri vorrei proprio riuscire a farla». Ed è facile che ci riesca. Perché di arrendersi non gli è mai capitato nella vita e certo non comincerà a ottanta anni.