il manifesto 6.10.17
La terra di Bergoglio. Un messaggio contro la ubris del dominio sulla natura e sugli altri
di Guido Viale
Per
Francesco la terra è innanzitutto il campo: la sede in cui si svolge e
da cui dipende la vita di quei contadini di quei braccianti che, insieme
ai recuperatori di rifiuti e di strutture abbandonate, costituiscono la
base sociale principale dei movimenti popolari.
Quei movimenti
radunati dal papa per offrire loro una sede dove coordinarsi, definire i
propri obiettivi, far sentire la propria voce. A loro sono infatti
rivolti tre dei principali discorsi che hanno caratterizzato la svolta
che Francesco ha cercato di imprimere al ruolo della chiesa con il suo
pontificato. Ma campo è inseparabile dal lavoro che lo rende fertile; e
lavoro è un diritto di tutti, che va rivendicato con forza ed a cui va
restituita la dignità negata dallo sfruttamento di un sistema fondato
sul dominio incontrastato del dio denaro. Ed è inseparabile anche da
tetto, il diritto a una casa, che fin dal suo primo discorso rivolto ai
movimenti popolari Francesco declina nel senso di comunità, di vicinato,
mutuo aiuto: il “fuori” senza il quale il “dentro” della casa si
risolve in una prigione.
Ma Terra – questa volta con la maiuscola –
è anche il pianeta in cui si svolge e da cui dipende la vita di noi
tutti: un ambiente indissolubilmente trasformato dallo sviluppo storico,
dalle opere, dai manufatti e dalle produzioni in cui si è concretizzata
l’attività del genere umano, che è anche e soprattutto lavoro; come è
inseparabile dal concetto di dimora: il luogo in cui le facoltà umane di
ciascuno si possono sviluppare attraverso la convivenza e
l’interscambio con il territorio e gli altri esseri umani che lo
abitano.
In questa connessione tra il locale e il globale, tra il
mondo del vissuto quotidiano e le prospettive dello sviluppo storico,
tra il comportamento di ciascuno – analizzato fin nei minimi e
apparentemente insignificanti particolari – e le scelte politiche da cui
dipende il futuro dell’umanità e del pianeta sta la grandezza del
pensiero di Francesco, che non ha eguali in nessuno dei leader politici e
del personale di governo che oggi opprimono la popolazione del pianeta.
Francesco
è un papa: si ritiene, e viene da molti considerato, il vicario di dio
in terra; il suo pensiero è indissolubilmente legato al suo ruolo; e non
potrebbe essere altrimenti. Per lui la Terra è parte del “creato”. Ma
anche così, o proprio per questo, la Terra assume nel suo pensiero una
propria autonomia e, attraverso i suoi cicli e i suoi equilibri, un
ruolo regolativo nel definire che cosa è lecito e che cosa non è lecito
nei comportamenti umani: non si può distruggere o sottrarre agli esseri
umani campo, lavoro e tetto, ossia un ambiente sano, la possibilità di
agire nella storia e le condizioni di una convivenza fondata sulla
giustizia – che certo non esclude, ma anzi impone, il conflitto, e su
questo Francesco è perentorio – senza far venir meno le possibilità di
sopravvivenza per tutto il genere umano.
L’essere umano è per lui
parte della Terra; non può contrapporsi più di tanto ai meccanismi che
ne regolano cicli ed equilibri e ad essi si deve conformare. Non,
quindi, la ubris del dominio sulla natura e sugli altri esseri, come per
secoli è stato interpretato il messaggio biblico, bensì una consonanza
con essi che fa del genere umano il custode, o uno dei custodi del,
creato. Sono sanciti così sia l’abbandono di una concezione
antropocentrica, prevalsa soprattutto con l’avvento dell’era moderna,
sia l’adesione alla visione propria di quell’ecologia profonda che sta
affermandosi, pur con grandi difficoltà, in molti campi della cultura e
in gran parte dei movimenti autorganizzati del nostro tempo: una visione
che Francesco abbraccia senza remore nell’enciclica Laudato sì.
È
solo così, infatti, che si può riportare il lavoro, insieme alle sue
finalità, ai suoi prodotti, ai suoi effetti sull’ambiente e sugli esseri
umani, entro i limiti della sostenibilità, restituendo agli emarginati
della Terra dignità e qualità della vita. Perché le vittime
dell’aggressione alle risorse del pianeta sono soprattutto i poveri e
sono loro, per forza di cose, quelli maggiormente interessati alla
salvaguardia e al risanamento di tutto l’ambiente in cui vivono: dal
“campo” al pianeta Terra; dall’aria che respiriamo e dal cibo che
mangiamo – o che vorremmo mangiare – agli equilibri climatici globali.
Per questo la giustizia sociale non è perseguibile al di fuori della
giustizia ambientale, del rispetto della Terra, della salvaguardia dei
suoi cicli e di tutto il vivente.
È in questo contesto che si
situa l’impegno di Francesco a favore dell’accoglienza e dell’inclusione
di tutti i migranti, che considera la conseguenza più evidente degli
squilibri ambientali e sociali del mondo d’oggi: quelli che costringono
milioni di esseri umani a fuggire da paesi che al momento, e forse per
un lungo periodo, e forse anche per sempre, non danno loro più alcun
accesso a un campo, a un tetto e a un lavoro, spingendoli a cercare
queste cose in paesi lontani e sempre più ostili.
È un impegno non
privo di ondeggiamenti e contraddizioni, come quelli testimoniati dagli
scarti tra il discorso di Francesco in vista della giornata mondiale
del migrante del 2018, e quel “primo, quanti posti ho?” pronunciato in
aereo, di ritorno dall’America Latina, che ha dato modo a una parte
della gerarchia ecclesiastica di fornire un assist immediato agli
obbrobriosi respingimenti del ministro Minniti; per poi contraddirsi
ancora nell’invito ad accogliere tutti i migranti “a braccia aperte”;
aperte come il colonnato di san Pietro: quello sotto cui Francesco aveva
invitato a trovar rifugio i senzatetto di Roma prima che le gerarchie
vaticane li cacciassero di nuovo per non turbarne il decoro. Sono segni
evidenti del fatto che quando dalle enunciazioni di principio si scende
ai fatti, si aprono conflitti a tutto campo che non risparmiano nessuno,
costringendo a continui ondeggiamenti.
Ma l’approccio che unisce
giustizia sociale a giustizia ambientale resta comunque il tema di fondo
che attraversa e domina tutta l’enciclica Laudato sì: un testo che
riposiziona radicalmente le priorità e le prospettive della politica,
della cultura e dell’agire quotidiano. Per i cattolici, nel solco di una
continuità, che Francesco rivendica, con encicliche di precedenti
pontefici; per i non credenti, in piena sintonia sia con il pensiero
ecologista più radicale sia con le culture indigene, soprattutto quelle
dell’America Latina, che hanno giocato un ruolo fondamentale in questa
elaborazione.
La pubblicazione, per iniziativa del manifesto, di
questo libro – che contiene, oltre ad alcune note di commento e di
contestualizzazione, il testo integrale dei tre discorsi che Francesco
ha rivolto al mondo in occasione degli incontri mondiali con i movimenti
popolari – è anch’esso il segno di una volontà di rinnovare il proprio
repertorio politico attingendo a fonti ed ambiti fino a pochi anni fa
quasi impensabili.
La Stampa Vatican Insider 6.10.17
Il Papa alla Pontificia Accademia per la Vita: rispondere a chi intimidisce la generazione della vita
“Uomo e donna siano alleati. No all’utopia della sessualità neutra”
No alla negazione della differenza sessuale, l’«utopia del neutro»
Uomini e donne - che non devono essere subordinate - si alleino
Così all’Accademia guidata da Paglia: altrimenti la storia dell’uomo non sarà rinnovata
di Domenico Agasso jr
Città
del Vaticano Maschi e femmine non devono solo «parlarsi d’amore»:
l’alleanza «tra uomo e donna è chiamata a prendere nelle mani la regia
dell’intera società». Lo afferma papa Francesco alla Pontificia
Accademia per la Vita. Bisogna «contrastare le interpretazioni negative
della differenza sessuale», di chi «vuole cancellare tale differenza».
Il Pontefice attacca l’«utopia del neutro» che rimuove a un tempo sia la
dignità umana «sia la qualità personale della trasmissione generativa
della vita».
Parlando ai partecipanti alla XXIII
assemblea generale dei membri della Pontificia Accademia per la Vita,
guidata dal presidente monsignor Vincenzo Paglia, in corso in Vaticano
dal 5 al 6 ottobre 2017, il Vescovo di Roma chiede che «le forme di
subordinazione che hanno tristemente segnato la storia delle donne»
vengano definitivamente abbandonate. Secondo il Papa, «un nuovo inizio
dev’essere scritto nell’ethos dei popoli, e questo può farlo una
rinnovata cultura dell’identità e della differenza».
Per il Papa
la questione della dignità della donna non si pone su un piano
«semplicemente di pari opportunità o di riconoscimento reciproco». Il
tema vero, ha spiegato, è quello di «una intesa degli uomini e delle
donne sul senso della vita e sul cammino dei popoli». L’uomo e la donna
non sono «chiamati soltanto a parlarsi d’amore, ma a parlarsi, con
amore, di ciò che devono fare perché la convivenza umana si realizzi
nella luce dell’amore di Dio per ogni creatura». Parlarsi e allearsi
«perché nessuno dei due, né l’uomo da solo, né la donna da sola, è in
grado di assumersi questa responsabilità».
Insieme donne e uomini
«sono stati creati, nella loro differenza benedetta; insieme hanno
peccato, per la loro presunzione di sostituirsi a Dio; insieme, con la
grazia di Cristo, ritornano al cospetto di Dio, per onorare la cura del
mondo e della storia che Egli ha loro affidato».
Per il
Pontefice, «insomma, è una vera e propria rivoluzione culturale quella
che sta all’orizzonte della storia di questo tempo. E la Chiesa, per
prima, deve fare la sua parte. In tale prospettiva, si tratta anzitutto
di riconoscere onestamente i ritardi e le mancanze».
Francesco
ricorda che «il misterioso legame della creazione del mondo con la
generazione del Figlio, che si rivela nel farsi uomo del Figlio nel
grembo di Maria per amore nostro, non finirà mai di lasciarci stupefatti
e commossi». Proprio «questa rivelazione illumina definitivamente il
mistero dell’essere e il senso della vita».
L’alleanza
«generativa dell’uomo e della donna è un presidio per l’umanesimo
planetario degli uomini e delle donne, non un handicap. La nostra storia
non sarà rinnovata se rifiutiamo questa verità». Evidenzia il Papa che
«in quanto è ricevuta come un dono, la vita si esalta nel dono:
generarla ci rigenera, spenderla ci arricchisce». Da qui il monito:
«Occorre raccogliere la sfida posta dalla intimidazione esercitata nei
confronti della generazione della vita umana, quasi fosse una
mortificazione della donna e una minaccia per il benessere collettivo».
Non
è «giusta l’ipotesi recentemente avanzata di riaprire la strada per la
dignità della persona neutralizzando radicalmente la differenza sessuale
e, quindi, l’intesa dell’uomo e della donna». Invece di «contrastare le
interpretazioni negative della differenza sessuale, che mortificano la
sua irriducibile valenza per la dignità umana, si vuole cancellare di
fatto tale differenza, proponendo tecniche e pratiche che la rendano
irrilevante per lo sviluppo della persona e per le relazioni umane».
Secondo
Francesco, «l’utopia del neutro rimuove ad un tempo sia la dignità
umana della costituzione sessualmente differente, sia la qualità
personale della trasmissione generativa della vita».
La
manipolazione «biologica e psichica della differenza sessuale, che la
tecnologia biomedica lascia intravvedere come completamente disponibile
alla scelta della libertà, mentre non lo è, rischia di smantellare la
fonte di energia che alimenta l’alleanza dell’uomo e della donna e la
rende creativa e feconda».
I l Papa denuncia anche l’«egolatria»
e lo «spregiudicato materialismo» dell’«alleanza tra economia e
tecnica», che propagano l’idea di «una vita come risorsa da sfruttare o
da scartare in funzione del potere e del profitto».
Francesco
spiega inoltre che l’idea di «un benessere che si diffonderebbe
automaticamente con l’ampliarsi del mercato» va di pari passo con
l’allargamento «invece dei territori della povertà e del conflitto,
dello scarto e dell’abbandono».
Il Papa raccomanda «di ritrovare
sensibilità per le diverse età della vita, in particolare per quelle
dei bambini e degli anziani. Tutto ciò che in esse è delicato e fragile,
vulnerabile e corruttibile, non è una faccenda che debba riguardare
esclusivamente la medicina e il benessere. Ci sono in gioco parti
dell’anima e della sensibilità umana che chiedono di essere ascoltate e
riconosciute, custodite e apprezzate, dai singoli come dalla comunità».
Una società «nella quale tutto questo può essere soltanto
comprato e venduto, burocraticamente regolato e tecnicamente predisposto
è una società che ha già perso il senso della vita. Non lo trasmetterà
ai figli piccoli, non lo riconoscerà nei genitori anziani. Ecco perché,
quasi senza rendercene conto, ormai edifichiamo città sempre più ostili
ai bambini e comunità sempre più inospitali per gli anziani, con muri
senza né porte né finestre: dovrebbero proteggere, in realtà soffocano».
Corriere 6.10.17
Il caso della lezione sul bondage all’Istituto Salesiano
Venezia, fa parte del master per psicologi. L’Università religiosa: «Tema attuale e di interesse scientifico»
di Gloria Bertasi
VENEZIA
Corde e legature, sculacciate, collari e latex ma anche pratiche
estreme di costrizione fisica. Non è la trama di un libro «hot», nemmeno
la pubblicità di un sexy shop o di un orpello di piacere, è l’oggetto
del convengo che si tiene domani a Mestre e, sorpresa delle sorprese, ad
organizzarlo è l’Istituto Universitario Salesiano di Venezia (Iusve).
Esperti
in psicologia, sessuologia e criminologia si alterneranno sul palco per
parlare di «Bondage e masochismo, dominazione e sottomissione». Presso i
Salesiani lagunari ci si laurea in Psicologia, Pedagogia e Criminologia
e, unico nel suo genere, c’è un master universitario di secondo livello
per psicologi e medici dedicato alla Sessuologia. Il convegno sul Bdsm,
ossia quelle pratiche e fantasie erotiche che giocano sulla dominazione
tra partner, è inserito proprio nell’ambito del master ma chiunque
fosse interessato può partecipare.
Un tema insolito per
un’università religiosa e probabilmente qualche fedele storcerà il naso
o, quantomeno, si stupirà di vedere che un ambiente come quello dei
Salesiani affronta un argomento che nemmeno tra i più laici è sdoganato.
La società ne parla, sì, ma con molta circospezione.
Sicuramente
ha sorpreso l’assessore regionale all’Istruzione Elena Donazzan: «Spero
che sia uno scherzo di cattivo gusto, verificherò subito». Ma non è uno
scherzo e domani, tra le 10 e le 17, si avvicenderanno esperti nel
cercare di comprendere il limite tra piacere, sudditanza e crimine. La
riflessione parte dall’ultima versione del Manuale diagnostico e
statistico delle malattie mentali del 2014 che derubrica il fenomeno del
bondage e della dominazione-sottomissione a «parafilia», e cioè a una
pulsione erotica, non una patologia. Quali i limiti leciti di queste
pratiche, e, soprattutto in cosa consistono sarà approfondito da Iusve.
«Alcuni esempi sono l’interesse intenso e persistente verso lo
sculacciare, fustigare, tagliare, legare o strangolare un’altra persona —
spiega letteralmente Salvo Capodieci, direttore del master in
Sessuologia —. L’asticella che divide la normalità dalla perversione si
sposta sempre più in basso e risulta difficile stabilire una
demarcazione tra condotte ritenute accettabili o normali e quelle che
non lo sono».
La mattina sarà dedicata all’approfondimento
psicologico, il pomeriggio a questioni «vittimologiche» legate al Bdsm. A
chi si chiede le ragioni di un seminario, che pochi si aspetterebbero
di trovare in una scuola di formazione salesiana, risponde Nicola
Giacopini, direttore del dipartimento di Psicologia, «L’interesse
scientifico per il tema risponde ai bisogni formativi di professionisti e
alla necessità di una riflessione antropologica e valoriale seria e
profonda».
Repubblica 6.10.17
Il Vaticano, la Cina e la reciproca tolleranza
du Alberto Melloni
IL
18 OTTOBRE per la prima volta un papa parlerà al congresso del partito
comunista cinese. Non andrà a Pechino, non usera la sua voce: ma lo farà
con un’ intervista sui generis ad un gesuita cinese che esce domani su
Civiltà Cattolica.
È la seconda volta che la rivista, le cui bozze
vengono rilette sempre in Segreteria di Stato e talora a Santa Marta,
porta un affondo politico di così grandi proporzioni.
Era già
accaduto mesi fa col durissimo articolo sull’integrismo americano che ha
fatto da prologo o da concausa all’uscita di Steve Bannon dalla Casa
Bianca. Il conservatorismo statunitense s’è dimenato e ha rincarato la
sua aggressività antibergogliana ma né carte inautentiche, né petizioni
antipapali, né allusioni opache come quelle dell’ex revisore dei conti
vaticano Libero Milone, hanno potuto evitare o vendicare l’escomio di
Bannon.
Ora Civiltà Cattolica pubblica un’ intervista al gesuita
cinese Joseph Shih: un prete novantenne, formatosi con Arrupe, per molti
anni alla Radio Vaticana dell’era Tucci. “Con quella bocca può dire ciò
che vuole”, recitava una antica réclame: e dalla bocca di Shih esce la
posizione vaticana sulla Cina e sulla Chiesa in Cina, che è il grande
orizzonte di questo papato e di questa segreteria di Stato.
L’ “intervista” contiene tre tesi decisive.
La
prima è che in Cina esiste una Chiesa sola. La divisione tra la Chiesa
patriottica e la Chiesa non riconosciuta è talora reale ed
effettivamente dolorosa: ma non intacca, secondo questa “intervista”,
una unità di fede più reale e più effettiva. Non è un fervorino: è la
revoca della scomunica sui vescovi ordinati senza permesso papale. Che
talora sono invertebrati (ce ne sono però anche fuori dalla Cina): ma
talora sono preti generosi, con una comunione col Papa superiore a
quella di tanti preti ecclesiastici. Preti che vivono con candore il
dilemma che li attende. Passando nei seminari di Pechino e Shanghai (a
me è capitato per qualche lezione) è facile vedere in quei volti docili
coloro che un giorno dovranno decidere se prendersi cura di una diocesi,
a rischio di non essere riconosciuti, o rifiutarsi: ed è arduo credere
che lo Spirito non li assista mai.
La seconda è che esiste una
formula di accordo fra Pechino e Vaticano ed è quella della “reciproca
tolleranza”. Non un riconoscimento fra poteri come nei vecchi
concordati: ma una distinzione di ordinamenti che non sono tenuti a
riconoscere l’intrinseco valore dell’altro, ma a rispettarlo. Un modello
che si potrebbe definire a-costantiniano. E di grande significato
“politico” anche per quel corpo di eguali che è il cattolicesimo che può
vivere la sua corporeità politica in due modi: o strusciandosi sul
potere per avere sconti e favori, giustificando la propria
intrinsichezza coi potenti in nome della libertas ecclesiae di Gregorio
VII, dei valori non negoziabili di Benedetto XVI o perfino della
ipocrita evocazione del “dare ai poveri”, come diceva Giuda Iscariota.
Oppure può lasciarsi trovare nella Via (il primo nome dei cristiani),
nel tentativo di vivere la forma del vangelo. Offrire reciproca
tolleranza significa insomma che la Chiesa non vuole benedire né il
partito né le politiche di un regime che, dice Shih «non cambierà per un
lungo periodo» (cosa che tutti i regimi comunisti adorano sentirsi
dire).
La terza tesi è la riabilitazione di monsignor Ma Daqin,
vescovo di Shanghai agli arresti domiciliari nel seminario di Shanghai
(che ho potuto solo vedere da un balcone in marzo, quando sono stato a
far lezione a sei giovani studenti che avevano una traduzione in cinese
dei dubia contro il Papa, finanziata dagli integristi americani...).
Monsignor
Ma era stato scelto dopo che il predecessore era stato arrestato in
modo molto “cinese”. Accusato di essersi dato appuntamento in un albergo
(governativo) con una donna (moglie di un militare) di cui sarebbe
stato amante (a detta della polizia). Era in effetti un piccolo
capolavoro repressivo: il che lasciava la sua reputazione intatta a
chiunque legga le cose, consentiva di arrestarlo senza perseguitare la
Chiesa, e portava in sede un vescovo coraggioso e affidabile.
Tuttavia,
al termine della sua consacrazione episcopale, monsignor Ma pronunziò
un breve saluto e disse che per fare il vescovo si sarebbe dimesso da
tutte le associazioni di cui faceva parte; inclusa quella dei cattolici
“patriottici”. Forse spinto da un funzionario diabolico o da una
angelica ingenuità o dalla umana stupidità. Fatto sta che la sera stessa
è stato arrestato e non ha mai detto la sua prima messa in cattedrale.
L’
“intervista” a Shih dice che Ma non ha trattato né ha ritrattato, ma si
è “svegliato”. E dunque può prendere possesso della diocesi senza
bisogno d’altro — e con la benedizione papale.
La Stampa 6.10.17
In classe debutta il Corano
Nella scuola di Biella l’ora di religione è per tutti
Esperimento al via in un quartiere popolare
L’insegnante: “Così nessuno deve uscire dall’aula”
di Stefania Zorio
I
bambini in classe leggono la Bibbia, ma anche il Corano. Succede alla
scuola elementare di Chiavazza, uno dei quartieri più popolosi di
Biella, dove c’è una grande concentrazione di case popolari e di
immigrati. Qui l’insegnante di religione insegna ai suoi bambini il
rispetto per il prossimo, ma soprattutto la necessità di conoscersi e di
convivere, attraverso i fondamenti del cattolicesimo e delle altre
religioni. Stefania Laveder è nella scuola da 20 anni. Oggi ha 11 classi
e 250 allievi, con i quali ha un modo tutto suo di rapportarsi: «Non ho
mai capito perchè durante l’ora di religione qualcuno debba essere
lasciato fuori dalla classe. Tutti i bambini devono imparare a
conoscersi e a stare insieme. In questa scuola ci sono tre o quattro
allievi per classe che non sono italiani. Qualche anno fa erano anche di
più, ma per via della crisi molti se ne sono andati». Stefania Laveder
non vuole convertire nessuno: «Ognuno ha la propria cultura e deve farne
tesoro – continua –. Ma è giusto che conosca anche quella del suo
compagno. Il mio obiettivo è semplicemente fare trovare a questi bambini
un punto di incontro, dando spazio a tutti. E in ogni caso, all’inizio
dell’anno, spiego sempre ai genitori il mio programma, per chiedere loro
se sono d’accordo».
Tra le esperienze che l’insegnante ha fatto
vivere ai sui allievi c’è quella della «gita monoteista», come l’ha
chiamata lei stessa. Partendo da scuola, i bambini in una giornata hanno
visitato una chiesa cristiana, una sinagoga e una moschea. «Io stessa,
per approfondire la mia conoscenza, sono andata in moschea per sapere
qualcosa in più sulla religione islamica. Due mie allieve mi hanno anche
regalato un Corano». A Natale gli studenti parlano della «nascita di
Gesù», come la chiamano i musulmani. E i piccoli italiani sono molto
incuriositi quando, parlando di sacramenti, l’insegnante spiega come
avviene il battesimo nelle altre religioni: «I rituali sono molto
diversi – racconta -. I musulmani ai neonati sussurrano le prime parole
del Corano, affinchè la fede entri subito nel loro cuore. E i bambini
sono inteneriti da questo». Nelle sue lezioni Stefania Laveder punta
molto sulle letture ad alta voce, ma anche sui confronti e sui
paralleli: «Ogni tanto, quando affrontiamo il tema della preghiera,
cerco un bambino che non sia di religione cattolica, che non abbia
timore e che sia disposto a leggerne una della sua fede davanti a tutti.
Poi la mettiamo in relazione con il “Padre nostro”».
La Stampa 6.7.17
Colpo di spugna sul reato di stalking
Bastano 1500 euro per estinguerlo
Torino, il giudice: cifra congrua. La ragazza vittima aveva rifiutato il risarcimento
di Claudio Laugeri
L’operaio
di 39 anni voleva conoscere la giovane venditrice ambulante di 24. Ha
incominciato a seguirla in auto. Voleva capire dove andava, se era
fidanzata. Una volta, due, tre. Il pedinamento non era certo un lavoro
da professionista, la giovane ha chiesto aiuto in famiglia. Alla terza
volta, l’operaio è stato bloccato dal padre e dal fratello di lei, che
hanno chiamato i carabinieri. Arresto. Tre giorni di carcere. E processo
con rito abbreviato per stalking.
La procedura
«L’accusa
era comunque sproporzionata ai fatti», spiega l’avvocato Piersandro
Adorno, difensore dell’operaio. È forte della decisione del giudice
Rosanna La Rosa, che ha ritenuto «congrui» i 1500 euro consegnati dalla
difesa come «riparazione» al danno subìto dalla giovane. Contattata
dall’ufficiale giudiziario (come prevede la procedura), lei aveva
rifiutato. La difesa dell’operaio, però, aveva versato quel denaro su un
libretto di deposito giudiziario a nome della parte lesa, sempre come
prevede la procedura. A questo punto, spettava al giudice valutare la
congruità del risarcimento. E così è stato. Il giudice ha dichiarato «il
reato estinto per condotte riparatorie».
La sentenza ha già fatto
discutere, ma l’avvocato difende la decisione: «I fatti contestati
erano davvero pochi e non ritengo fossero episodi di stalking. Il mio
cliente ha avuto comportamenti sbagliati, inappropriati, ma non
persecutori».
Nella denuncia, la giovane aveva parlato di più
pedinamenti in meno di due mesi. «Tre episodi, lui aveva seguito la
ragazza in auto. Voleva conoscerla, cercava di capire quali luoghi
frequentasse, nulla di più. Ripeto, ha sbagliato, ma non voleva certo
perseguitarla», aggiunge il legale. «Mai incontrata. Mai rivolto la
parola. Mai toccata. Situazione ben diversa da molte altre, dove le
molestie, le violenze fisiche e psicologiche sono pesanti, quotidiane».
Arresto e processo
Ancora
l’avvocato Adorno: «Il mio cliente è rimasto in carcere tre giorni, il
giudice ha imposto il divieto di avvicinamento alla ragazza e lui lo ha
sempre rispettato. Ho scritto alla giovane per esprimere il rammarico
dell’accusato e la disponibilità a un risarcimento. Mi ha risposo lei
stessa, dicendo che non era interessata ai soldi».
La giovane non
si è costituita parte civile e non ha mai incaricato un avvocato di
assisterla nella vicenda. «Alla lettera ha risposto lei, senza
intermediari. Ha rifiutato il risarcimento, come era suo diritto.
Abbiamo seguito la procedura e il giudice ha valutato che la cifra fosse
congrua per i fatti contestati», aggiunge il legale.
La vicenda,
però, ha scatenato una ridda di polemiche politiche. In prima fila i
deputati M5S in commissione Giustizia: «L’articolo sulla giustizia
riparativa non doveva essere approvato in questo modo. Avevamo proposto
che la vittima potesse opporsi alla decisione del giudice o che almeno
venissero esclusi i reati contro la persona come lo stalking». Puntano
il dito contro «il ministro Orlando e la stessa presidente (della
commissione, ndr) Donatella Ferranti», che «avevano minimizzato».
Ancora: «Tali autorevoli interpretazioni normative sono drammaticamente
sconfessate dalla prima applicazione concreta della norma da parte del
tribunale di Torino. Si dovrebbero vergognare e chiedere scusa alle
vittime invece di scaricare la colpa sui giudici, è la norma e non
l’interpretazione ad essere errata».
La Stampa 6.10.17
Il risultato
di una legge
sbagliata
di Linda Laura Sabbadini
Lo
avevamo detto su questo giornale, lo avevano detto le donne dei
sindacati e delle associazioni, purtroppo è successo ciò che non doveva
succedere. Con un risarcimento di 1500 euro il reato di stalking si
estingue. È l’effetto della riforma del codice penale che si applicava
anche al reato di stalking, per la parte meno grave, e avevamo
aspramente criticato.
Certo è avvenuto per un caso meno grave di
stalking, per quelli gravi non sarebbe successo. Ma non va bene lo
stesso. Primo, perché un caso meno grave per l’escalation della violenza
può poi trasformarsi in uno grave. Secondo, perché si dà un messaggio
terribile di ambiguità nei confronti della battaglia contro la violenza
sulle donne. E cioè, un uomo stalker può farla franca con sole 1500
euro, senza essere condannato. Il nostro giornale aveva salutato
positivamente la posizione assunta dal ministro della Giustizia Orlando
che si era detto pronto a trovare adeguata soluzione. Ma purtroppo il
tempo è passato e gli effetti di una norma errata cominciano a vedersi.
Bisogna reinserire lo stalking anche non grave (a querela remissibile)
tra i reati a cui non si applica la estinzione del reato mediante
pagamento di un risarcimento. E dare un messaggio chiaro, univoco.
Chi
è autore di stalking commette un reato, e questo non può essere estinto
pagando. Quindi, lo stalker deve essere condannato. Ci vuole molto? No.
Deve essere fatto per le 3 milioni e mezzo di donne che hanno subito
stalking nel corso della vita. Per quelle che in gran parte non
denunciano, l’85%, che spesso pensano che tanto non cambierebbe nulla e
che adesso non denuncerebbero perché sanno che lo stalker potrebbe
cavarsela pagando ridicoli risarcimenti.
La violenza contro le
donne è uno dei reati più difficili da combattere, ci vuole tanto tempo,
tanto impegno e tanta coerenza nei messaggi che si danno e nelle azioni
che si fanno. Si può sbagliare, ma si deve correggere velocemente
l’errore commesso.
La Stampa 6.10.17
Compleanno democratico tra sogni e paradossi
di Marcello Sorgi
Sabato
prossimo, 14 ottobre, il Pd celebrerà al Teatro Eliseo di Roma il
decennale della sua nascita. Già la scelta del luogo è significativa:
all’Eliseo Berlinguer il 15 gennaio del 1977 proclamò la scelta
dell’austerità - il dovere della sinistra di farsi carico del peso della
crisi economica -, che preludeva al sostegno attivo, dalla «non
sfiducia» all’ingresso in maggioranza, al governo guidato da Andreotti.
Una prova di responsabilità che non fu capita: e infatti alle elezioni
del ‘79 il Pci fu sconfitto e tornò all’opposizione.
Quanto a
Veltroni, fondatore del Pd, 10 anni fa a Torino realizzò la svolta più
coraggiosa mai impressa all’interminabile «stop and go» della storia
della sinistra italiana. Nel tentativo di ricucire la separazione tra
l’anima massimalista e quella riformista, delineò un partito «a
vocazione maggioritaria», aspirante cioè a raccogliere i voti di tutti
gli elettori di sinistra, e un programma che, rompendo con la tradizione
di continuità, accettava per la prima volta di fare i conti seriamente
con il capitalismo, la libertà d’impresa, i limiti da imporre al ruolo
dei sindacati, le improcrastinabili riforme economiche dell’era della
globalizzazione, la democrazia maggioritaria e la necessità di
presentarsi con un candidato premier che sarebbe diventato capo del
governo davanti agli elettori.
Dopo la sua sconfitta (seppure con
quasi il 35 per cento dei voti) alle elezioni del 2008 e le sue
dimissioni dalla segreteria nel febbraio 2009, alla guida del Pd sono
stati: Franceschini per un breve interregno, Bersani eletto con le
primarie, Epifani per un secondo interregno, e Renzi, eletto e rieletto
con le primarie. La scissione di Mdp dello scorso febbraio, con l’uscita
di dirigenti come lo stesso Bersani e D’Alema, che avevano condiviso la
piattaforma programmatica della fondazione, e l’iniziativa «Campo
democratico» di Pisapia, hanno messo in crisi l’idea del partito unico
del centrosinistra. Così Renzi è al bivio tra ripresentarsi da solo,
come Veltroni nel 2008, o tornare alla coalizione con tutte le diverse
anime del centrosinistra, come Bersani nel 2013.
Ma il paradosso
di questa vicenda, con tutto ciò che di bene e di male è accaduto nel
decennio, è che il Pd, dopo essersi dilaniato dal 2007 al 2017, alla
fine s’è spaccato perché è arrivato un segretario, come Renzi, che forse
troppo spregiudicatamente e senza badare alle maggioranze con cui lo
faceva, da presidente del consiglio ha cercato in tutti i modi, e in
buona parte è riuscito, a realizzare il programma enunciato da Veltroni
dieci anni fa.
Il Fatto 6.10.17
Lo spirito del 1948
Basta con le leggi elettorali pensate per zittire gli elettori
La petizione - Per un sistema che sia democratico
di Lorenza Carlassare
Ripubblichiamo
parte dell’intervento che la professoressa Carlassare ha tenuto a Roma
al convegno dei Comitati del No lunedì 2 ottobre
Da anni siamo
costretti a parlare di leggi elettorali: i vertici politici, che non si
rassegnano all’idea di doversi misurare continuamente con le istanze del
corpo sociale, cercano di soffocarle con ogni artificio, contro l’ art.
1 “La sovranità appartiene al popolo” dove il verbo “appartiene” non è
scelto a caso. I Costituenti dopo attenta discussione, lo sostituirono a
“emana”, proposto inizialmente, per evitare il rischio che venisse
interpretato nel senso che il popolo, attraverso il voto, trasferisce la
sua sovranità. Era loro fermissimo intento affermare, senza equivoci,
che la sovranità è del popolo e nel popolo continua a rimanere. Non è
legittimo recidere i canali di trasmissione delle domande sociali alle
istituzioni: alla legge elettorale non è consentito.
La
Costituzione del 1948 è frutto dell’impegno collettivo di persone
animate da grandi speranze e profondi ideali, unite nell’intento di dar
vita a un sistema nuovo fondato sui valori di libertà e democrazia
appena ritrovati, che si volevano salvaguardare in futuro. In una
straordinaria stagione ricca di fermenti vitali ogni scoria del cupo
passato era allontanata, così come ogni artificio antidemocratico di cui
si era avvalso il regime: maggioranze truccate, premi per dominare
schiacciando gli avversari politici, liste bloccate imposte agli
elettori . L’obiettivo era la partecipazione “la partecipazione di
tutti” come dice l’art. 3; e lo conferma l’art. 49: i cittadini, “Tutti i
cittadini” – precisa la norma – hanno il diritto associarsi in partiti
“per concorrere con metodo democratico alla determinazione della
politica nazionale”. Nessuno escluso.
Nello spirito del 1948 non
poteva esserci che un sistema proporzionale con una modalità di voto in
grado di tener saldo il rapporto fra elettori ed eletti: “La sovranità
spetta tutta al popolo che è l’organo essenziale della nuova
costituzione… l’elemento decisivo, che dice sempre la prima e l’ultima
parola”. E dunque, il fulcro dell’organizzazione costituzionale è nel
Parlamento “che non è sovrano di per se stesso; ma è l’organo di più
immediata derivazione dal popolo”, si legge nella Relazione di Meuccio
Ruini all’Assemblea costituente.
E il popolo è costituito da tutti
i cittadini, altrimenti si ha una democrazia dimezzata. Secondo “la
definizione minima” di Norberto Bobbio, per “regime democratico
s’intende primariamente un insieme di regole e di procedura per la
formazione di decisioni collettive, in cui è prevista e facilitata la
partecipazione più ampia possibile degli interessati”. Era questo il
pensiero dei Costituenti.
Durante i lavori della Commissione dei
75 (Seconda Sottocommissione, 7 novembre 1946), il grande
costituzionalista Costantino Mortati propose di inserire in Costituzione
il principio della rappresentanza proporzionale “perché costituisce un
freno allo strapotere della maggioranza e influisce anche, in senso
positivo alla stabilità governativa”. Prevalse invece l’idea di lasciare
la materia elettorale alla legge ordinaria anche più tardi, quando se
ne discusse in aula; un emendamento presentato dall’on. Giolitti non fu
approvato.
Ma il suo contenuto, è importante ricordarlo,
trasformato in ordine del giorno, venne invece approvato: “L’Assemblea
costituente ritiene che l’elezione alla Camera dei deputati debba
avvenire secondo il sistema proporzionale” (23 settembre 1947). È un
impegno solenne. Non si può dunque affermare, come di recente Fusaro,
che la Costituzione “nulla dice… su come trasformare i voti in seggi.
Nulla. Ma proprio nulla di nulla”. Se la Costituzione non ne parla
espressamente, il principio della rappresentanza proporzionale è
implicito nel sistema complessivo oltre che in precise disposizioni:
articolo 72 – le Commissioni in sede legislativa devono essere composte
“in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari”;
articolo 82 – ciascuna Camera, esercitando il potere parlamentare
d’inchiesta, nomina “fra i propri componenti una Commissione formata in
modo da rispecchiare la proporzione fra i vari gruppi”; art. 83 –
all’elezione del presidente della Repubblica “partecipano tre delegati
per ogni Regione, eletti dal Consiglio regionale in modo che sia
assicurata la rappresentanza delle minoranze”. Un sicuro “plurale” che
non ha nulla di generico.
Il modello dei Costituenti, sottolineava
Livio Paladin, è quello delle “democrazie di stampo liberale e dunque
pluralistico che vuole temperare il principio maggioritario sia
attraverso la rigidità della Costituzione e il controllo di
costituzionalità sulle leggi, sia garantendo le libertà fondamentali, a
cominciare dalla libertà di associazione e di manifestazione del
pensiero”.
Le minoranze sono l’essenza del costituzionalismo
liberale e sulla possibilità di far sentire la loro voce sono basati gli
istituti giuridici posti a tutela dei diritti costituzionali , dai
diritti di libertà ai diritti sociali. Per garantirli le Costituzioni
esigono che la loro disciplina sia riservata alla legge, approvata dal
Parlamento dove hanno voce anche le minoranze e non da fonti del governo
dove la sola maggioranza è presente.
La distorsione della
rappresentanza – dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale –
alterando la composizione delle Camere si ripercuote pesantemente sulla
vita dei cittadini: in assenza di voci in grado di difenderli i diritti
sono gravemente incisi, il pensiero minoritario sacrificato. Ormai, che
la norma sia fatta dal governo o dal Parlamento dove la maggioranza
domina incontrastata, è la stessa cosa. Soffocate le minoranze, a nulla
vale la rigidità della Costituzione; a tutelarla non bastano le garanzie
giuridiche: se non sono accompagnate dalle garanzie politiche
assicurate dal pluralismo risultano del tutto inefficaci. Una
maggioranza artificialmente creata non trova più i limiti politici
consueti in democrazia; le altre forze, ridotte all’irrilevanza, come
possono svolgere un’opposizione efficace?
il manifesto 6.10.17
Il Rosatellum piegato ai più piccoli
Legge
elettorale. Per venire incontro alle richieste di tutti e stendere una
rete di protezione in vista dei voti segreti in aula, il nuovo sistema
di voto smentisce gli annunci del Pd. Dall'abbassamento della soglia di
sbarramento al recupero dei perdenti, i renziani inseguono Forza Italia e
Alfano, ma anche governatori, micro partiti e singoli fuori controllo
di Andrea Fabozzi
Una
fatica tenere in piedi il Rosatellum-bis. Malgrado l’alleanza a quattro
tra Pd, Forza Italia, Lega e Ap possa contare su una circostanza
fortunata. Alla camera, dove il regolamento consente i voti segreti (e
saranno tanti, una novantina), ha dalla sua un margine ampio, circa 400
voti su 630. Al senato, dove invece i margini sono assai più stretti
(una trentina di voti in più), niente scrutini segreti. Eppure condurre
in porto una legge elettorale con il parlamento che vede ormai la fine è
impresa complicata; in questa fase si fanno già le liste e ogni singolo
deputato tende a guardare al suo destino prima e più che a quello del
partito. Così anche il passaggio della nuova legge in commissione, in
teoria senza problemi perché gli emendamenti sono pochi e la maggioranza
è ampia, si rivela faticoso. Il Rosatellum deve cambiare e piegarsi per
raccogliere il massimo di consensi trasversali. Il Pd si dimostra assai
flessibile.
Una giornata intera di votazioni in commissione
affari costituzionali non è bastata, oggi si replica e prima di sabato
non si chiude. Tutto per mandare in aula martedì prossimo un testo a
prova di franchi tiratori. Nuove norme discutibili entrano, vecchi
difetti resistono e persino peggiorano. Eccoli.
Forza Italia ha
ottenuto l’allargamento dei collegi proporzionali e di conseguenza la
loro riduzione: prima erano quasi ottanta, adesso saranno 60 o un paio
in più. Il numero esatto non si conosce, perché la legge fissa i criteri
(abbastanza rigidi) ma tocca al governo e a una commissione provvedere
al disegno concreto dei collegi. Il relatore Fiano (Pd) ha riformulato
un emendamento Sisto (Fi) in modo che il partito di Berlusconi, che si
sente forte solo in una parte del paese, il nord grazie all’accordo con
la Lega, possa fare il pieno dei seggi nelle sue roccaforti. Ognuno dei
60 collegi eleggerà adesso fino a 8 deputati. Ma le liste bloccate per
il proporzionale devono (lo ha imposto la Corte costituzionale) restare
corte, massimo 4 nomi. Il che espone al rischio di liste insufficienti,
con troppo pochi candidati rispetto agli eletti (successe nel 2001 per
colpa delle liste civetta) se in un collegio una lista dovesse superare
il 50% (è successo, e di nuovo bisogna tornare al 2001 quando si votò
con il Mattarellum, cui questa legge si ispira). In questo caso si
rimedierebbe pescando gli eletti in altri collegi o in altre liste, con
tanti saluti alle intenzioni degli elettori. E non solo, perché il
relatore Fiano potrebbe accogliere due emendamenti (Pd e Fi) che
prevedono il recupero dei migliori perdenti nelle sfide uninominali. Un
po’ com’era al senato nel Mattarellum. Ma così scolora ulteriormente
quella quota di maggioritario (37%) che per i renziani è il vanto della
legge.
I collegi grandi poi, in casi limite, potrebbero produrre
un risultato paradossale. Perché i candidati per ogni lista così sono
pochi: 240 al proporzionale e 231 all’uninominale. Considerando che si
vuole allargare a quattro le possibilità di pluricandidature, in teoria
un partito come Forza Italia potrebbe candidare alla camera anche solo
120 persone in tutto il paese. E 120 sono anche i seggi che, sulla base
dei sondaggi, potrebbe conquistare. Ovvero tutti eletti. È un caso
limite, lo ripetiamo, ma aiuta a sostanziare le accuse di chi parla di
«fabbrica di nominati».
Altra novità è l’abbassamento della soglia
di sbarramento. L’emendamento Lupi (Ap) sarà votato oggi e prevede che
anche i partiti che restano sotto il 3% a livello nazionale possono
conquistare seggi in senato se superano quel limite in almeno tre
regioni. Dovranno essere regioni grandi per dare diritto a un seggio con
una percentuale bassa. Alfano può contarci in Sicilia, Mdp
probabilmente in Emilia, più che in Umbria. L’emendamento, che Forza
Italia non voleva, potrebbe servire anche a una nascente lista di
governatori regionali. Non a caso è stata respinta la proposta di
buonsenso di estendere anche ai governatori l’incompatibilità con il
mandato parlamentare che è già dei sindaci. Contemporaneamente il
presidente pugliese Emiliano ha benedetto il tentativo di Renzi di
ricostruire una coalizione. Resta comunque per tutte le prossime «false»
coalizioni (perché senza simbolo né programma né leader comune) il
vantaggio delle liste a perdere: quelle che con appena l’1% dei voti
regaleranno consensi agli alleati maggiori.
Così come resta il
divieto di voto disgiunto, una costante delle proposte renziane di
questa stagione. Perché permette di fare campagna per il voto utile. In
questo caso c’è una perversione in più, perché non si è trovato un
meccanismo razionale per consentire il trasferimento del voto unico dal
candidato uninominale alla lista di partito, se il candidato è sostenuto
da una coalizione. La soluzione del Rosatellum è di dividere quel voto
tra le liste della coalizione, proporzionalmente alla loro consistenza.
Un sistema che abbiamo paragonato all’8 per mille che favorisce la
Chiesa più grande. Invece di abolirlo, Pd e Forza Italia, golosi di quei
consensi piovuti dall’alto, hanno escogitato una soluzione grottesca:
questo complicato meccanismo sarà riportato all’esterno della scheda
elettorale. In una formulazione che (al momento) occupa sei righe di
testo. Così non saranno solo gli scrutatori a impiegare il doppio del
tempo nelle operazioni di spoglio, anche i cittadini avranno bisogno di
mettersi comodi nelle cabine elettorali. Un’assurdità, un’«imprudenza»,
anche per la minoranza orlandiana del Pd che chiede modifiche in aula.
Eppure non è da questo genere di obiezioni politiche che il Rosatellum
dovrà guardarsi, quanto invece dai franchi tiratori.
Il Fatto 6.10.17
Più “cacicchi” e nominati. Il Rosatellum-2 peggiora
Gli emendamenti per abbassare le soglie in Senato e “gestire” meglio i futuri eletti
di Tommaso Rodano
La
maggioranza a guida Pd-Forza Italia-Alfano-Lega che porta avanti il
Rosatellum sta riuscendo in un’impresa eroica: prendere gli aspetti più
controversi della legge elettorale e renderli ancora peggiori, grazie a
un’accurata selezione degli emendamenti in commissione Affari
costituzionali. Gli obiettivi sono due: da una parte garantire il
massimo della frammentazione, del trasformismo e il più alto numero di
liste civetta; dall’altra ottenere il maggior controllo possibile sui
nominati nei listini bloccati. Il patto sul Rosatellum bis è solido, la
legge degenera: ieri alla Camera sono stati bocciati tutti gli
emendamenti delle opposizioni che avevano l’obiettivo di introdurre le
preferenze (sia facoltative che obbligatorie) e permettere il voto
disgiunto (se si sceglie un candidato in un collegio uninominale, si può
votare solo uno dei partiti che lo appoggia). È stata bocciata anche la
proposta di Fratelli d’Italia di introdurre un premio di maggioranza
per chi dovesse arrivare al 40%.
La maggioranza invece ha segnato
una doppietta. Il primo emendamento è già approvato: diminuisce il
numero dei collegi plurinominali e di conseguenza aumenta il controllo
dei partiti sugli eletti nei listini bloccati. L’altro capolavoro invece
è in gestazione: Pd, Forza Italia e Ap stanno lavorando a un
emendamento ad hoc per aumentare l’importanza di liste civetta,
capibastone locali e alleanze variabili al Senato. Vediamo nel
dettaglio. Soglie di sbarramento. L’impianto originale del Rosatellum
non cambia: la soglia rimane al 3%. La lista che non supera lo
sbarramento ma riesce a racimolare l’1% a livello nazionale “devolve” i
propri voti alla coalizione di appartenenza. Questa norma, come noto,
favorisce chi ha la capacità di stipulare piccole alleanze territoriali:
gli aggregatori delle cosiddette liste civetta.
Questo principio,
per la maggioranza, va rafforzato. È pronto un emendamento che
abbasserà ancora l’asticella. Lo chiamano “salva Alfano”, e in effetti
il partito del ministro degli Esteri ne ha rivendicato la paternità con
una nota: “Alternativa popolare chiede che i partiti che non raggiungono
la soglia del 3% a livello nazionale, ma la raggiungono in almeno tre
Regioni possano eleggere senatori in quelle, e solo in quelle, Regioni”.
Traduciamo: basterebbe superare la soglia in Puglia, Sicilia e
Lombardia (tre nomi a caso) per portare i propri uomini a Palazzo Madama
(non alla Camera).
Sarebbe il trionfo delle alleanze variabili,
Regione per Regione, dei notabili e delle clientele (soprattutto al
Sud), la garanzia della proliferazione di liste civiche di qualsiasi
tipo: cacicchi e capibastone vedrebbero schizzare il proprio valore nel
mercato politico. Chi ha studiato le prime proiezioni di questa norma,
sostiene che dalla “salva Alfano” potrebbero scaturire addirittura una
trentina di senatori, quasi un decimo di Palazzo Madama. Sarebbero
eletti sulla base di interessi e fedeltà locali, autonomi dalla
coalizione che li ha portati in Parlamento e pronti a ogni grande
coalizione a venire.
Meno collegi. Il relatore del Rosatellum,
Emanuele Fiano, ha fatto approvare – con una nuova formulazione – un
emendamento presentato mercoledì sera dal forzista Paolo Sisto.
L’obiettivo è aumentare la grandezza dei collegi plurinominali e, di
conseguenza, diminuirne il numero. Fino a ieri – con i criteri stabiliti
nel testo originale – i collegi sarebbero stati tra i 75 e i 77. Con le
nuove norme fissate dall’emendamento saranno invece circa 65. Sembra un
dettaglio irrilevante, non lo è: avere meno collegi significa poterli
gestire meglio, avere più controllo dei listini bloccati composti da 2-4
candidati. Per i partiti, insomma, sarà più facile determinare gli
eletti: i nominati saranno più nominati.
Grande coalizione.A
destra si è litigato per la bocciatura dell’emendamento di Fratelli
d’Italia sul premio di maggioranza. Secondo l’ex berlusconiano Ignazio
La Russa, con il suo voto contrario Forza Italia ha gettato la maschera:
“Osservo che per FI è venuto meno il vincolo col centrodestra; per loro
è più importante il vincolo con il Pd. Sembra quasi che cerchino a
tutti i costi di perdere per poter poi fare governi con altri e non col
centrodestra”.
il manifesto 6.10.17
L’antivirus si chiama proporzionale
Legge
elettorale. L’Italicum, il Consultellum Camera, il Rosatellum nella
versione originaria e nelle modifiche di cui si parla, sono in vario
modo la medicina che uccide il malato
di Massimo Villone
Per
capire meglio la colluttazione in atto nella Commissione affari
costituzionali della Camera in tema di soglie di sbarramento e
coalizioni bisogna tornare ai fondamentali. Proporzionale o
maggioritario? Alcuni – tra cui io – insistono sul ritorno al
proporzionale.
Passatisti ultras? Niente affatto. Il maggioritario
in qualunque forma – uninominale di collegio o proporzionale con premio
di maggioranza – funziona su un principio di base: sovra-rappresentare i
soggetti politici vincenti, sotto-rappresentare i perdenti.
È
proprio in questo l’incentivo alla cosiddetta governabilità: ai primi
più seggi rispetto ai voti, ai secondi meno seggi. Basta guardare al
Parlamento eletto con il Porcellum.
Il punto è che il
maggioritario trova condizioni ideali di funzionamento – si fa per dire –
se esistono due maggiori partiti e poco altro. In un contesto
effettivamente bipolare è probabile che i due partiti siano quasi
equivalenti nei voti, e che basti un piccolo margine di vantaggio dato
dal sistema elettorale per costruire una maggioranza parlamentare, senza
distruggere la rappresentatività dell’assemblea.
Il contrario
accade in un sistema multipolare. Ad esempio, con tre partiti intorno al
30%, i – relativamente pochi -voti devono tradursi comunque in una
maggioranza di seggi. Questo può accadere solo con una forte distorsione
della rappresentatività. È il modello dei mega-premi di maggioranza che
ha ispirato il Porcellum prima, l’Italicum poi, e ora anche il
Consultellum Camera.
Il maggioritario per antonomasia – quello
britannico – ha funzionato in maniera ritenuta accettabile da
osservatori e studiosi fino a quando i due maggiori partiti hanno
totalizzato gran parte dei voti espressi. Nell’immediato dopoguerra,
giungevano intorno al 90%. La crisi è venuta quando il sistema politico
non è stato più effettivamente bipolare. E si è giunti da ultimo alle
esperienze di coalizioni necessarie, e persino precarie come quella in
atto.
Esiste una interazione comunque ineliminabile tra sistema
dei partiti e sistema elettorale. In una situazione multipolare
l’incentivo maggioritario o non è sufficiente a garantire una
maggioranza di seggi parlamentari e rimane dunque inutile, o raggiunge
tale obiettivo negando la rappresentatività dell’assemblea elettiva e la
sua aderenza rispetto al paese. Un esito politicamente e
costituzionalmente inaccettabile. Inoltre, può paradossalmente produrre
frammentazione, favorendo la nascita di mini-partiti, che pur con pochi
voti siano determinanti per una coalizione nel vincere un collegio
uninominale o conseguire un premio di maggioranza. È già successo con il
Mattarellum e il Porcellum. In specie, quando il sistema politico è
frammentato in una serie di potentati locali, legati alle dinamiche del
territorio, si rafforza il “cacicchismo”.
Il Rosatellum bis
prevede uno sbarramento al 3%, ma consente che i voti di liste tra l’1 e
il 3% siano computati per la coalizione. Apparentemente strano: voti
sì, seggi no. Ma con sindaci e governatori abbiamo già visto candidature
assistite da un codazzo di liste, improbabili e palesemente destinate a
non avere un consigliere. In tali casi, il corrispettivo è a parte,
magari in qualche consiglio di amministrazione di società partecipata
dopo il voto.
Ma chi si fida delle promesse? Ecco perché si
collutta in Commissione sul se e come configurare la coalizione e
consentire la distribuzione diretta di qualche seggio anche ai soggetti
minori. Un obolo a cacicchi, capi e capetti. Può non interessare che
questo vada a vantaggio o svantaggio di M5S, Pd, Fi, Mdp, Alfano,
Pisapia o altri. Il punto è che favorisce l’ulteriore disfacimento del
sistema politico, allontanando ancor più la ricostruzione di soggetti
politici solidamente strutturati che oggi mancano. È qui il virus che
corrode politica, istituzioni, governabilità.
È un virus che si
combatte tornando al proporzionale con soglie di sbarramento ragionevoli
ed effettive, alla necessaria ricerca di consensi reali, all’essere
quel che dicono i voti ricevuti, in assemblee pienamente rappresentative
e non popolate dalle anime morte dei nominati. Si vota, e la politica
costruisce il dopo, in Parlamento.
L’Italicum, il Consultellum
Camera, il Rosatellum nella versione originaria e nelle modifiche di cui
si parla, sono in vario modo la medicina che uccide il malato.
Corriere 6.10.17
Il voto a marzo resta appeso all’accordo sulla riforma
di Massimo Franco
Tutto
sembra spingere per un’approvazione rapida della riforma elettorale: al
punto che si ipotizza lo scioglimento delle Camere entro fine anno, e
si continua a indicare la data delle elezioni per il 4 o l’11 marzo.
Nella maggioranza, queste scadenze sono già state discusse. Ma rimangono
appese a quell’intesa. L’accelerazione si deve alla sensazione, non si
sa quanto fondata, che il Movimento 5 Stelle sia in una fase calante; e
che il centrodestra fatichi a ricompattarsi in tempi brevi. Il vertice
del Pd sembra dunque convinto di avere la maggioranza relativa dei voti,
se si fa presto.
Significherebbe poter chiedere al capo dello
Stato, Sergio Mattarella, l’incarico di formare un governo dopo le
Politiche. Gli emendamenti esaminati ieri, sulla soglia del 3% per
entrare in Parlamento e sulla possibilità di eleggere senatori in tre
regioni ripartendo i voti in modo diverso, è fatta per placare i
centristi di Angelino Alfano; ma anche per attenuare l’ostilità del Mdp,
finora fermamente ostile alla riforma che si va delineando con l’intesa
Pd-FI-Lega-Ap. Se funziona, il Quirinale potrebbe finalmente chiudere
la legislatura. A sentire il capogruppo dem Ettore Rosato, si tratta non
di una norma «salva Ap», e cioè salva-Alfano. «In verità sarebbe
salva-Mdp», ha detto, provocando l’irritazione del gruppo di Pier Luigi
Bersani e di Massimo D’Alema, convinto di avere più del 3 per cento. E
infatti, il «no» rimane arcigno. Ma non cambierebbe i rapporti di forza
se l’asse tra Matteo Renzi, Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Angelino
Alfano non si spezza. «L’accordo tiene», ha assicurato il capogruppo di
FI, Renato Brunetta, dopo una giornata di trattative e di tensioni. I
berlusconiani non vogliono concedere troppo all’ex alleato Alfano. E
temono che il sistema in incubazione alla fine premi la Lega ma non
loro: in particolare al Nord. La questione delle ricandidature è
cruciale. Ci sono decine di parlamentari che sanno o hanno paura di non
essere ricandidati o comunque rieletti. Ed è su questo che i leader di
partito stanno cercando di rassicurarli uno a uno: vogliono essere
sicuri di un «via libera» che blindi un eventuale accordo; e impedisca
imboscate alle Camere sulla riforma del voto. Qualche incertezza rimane.
Si assiste così a una situazione singolare. Ufficialmente, tutto sta
filando liscio, e le probabilità di un «sì» sembrano crescere di ora in
ora: se non altro perché non si capisce che cosa potrebbe bloccare un
tentativo destinato a essere l’ultimo. Poi, però, uno dei potenziali
beneficiari del nuovo sistema elettorale, Matteo Salvini, proietta
sull’operazione un’ombra di incertezza. «Temo che le beghe del Pd
facciano saltare tutto», avverte il leader leghista. E allora,
riservarsi un ampio margine di cautela diventa doveroso.
Il Fatto 6.10.17
La “melina”
Tesi Madia, 200 giorni dopo l’ateneo non sa dire se fu plagio
L’alta
scuola di Lucca si rifiuta di spiegare quando chiuderà l’indagine
aperta ad aprile dopo l’inchiesta del Fatto. In Germania ci vollero due
mesi e il ministro zu Guttenberg si dimise
Qualche differenza…
di Laura Margottini
Dopo
200 giorni di indagini, la Scuola Imt Alti studi di Lucca non ha ancora
stabilito se Marianna Madia, ministra della Pubblica amministrazione
dei governi Renzi e Gentiloni abbia copiato la tesi con cui si è
dottorata nel 2008, come è emerso da un’inchiesta del Fatto dello scorso
marzo. “La procedura è in fase conclusiva” ha spiegato al Fatto Pietro
Pietrini, direttore di Imt. Alla domanda su quando si concluderà
l’indagine – partita il 18 aprile scorso, quasi sei mesi fa – Pietrini
si è rifiutato di rispondere.
Nel 2011, l’Università di Bayreuth,
in Germania, revocò immediatamente il dottorato all’allora ministro
della Difesa tedesco Karl-Theodor zu Guttenberg dopo che i giornali
avevano svelato che un’ampia parte delle 475 pagine della sua tesi era
stata copiata. In capo a due mesi, un’inchiesta interna dell’università
confermò che si trattava di plagio.
La tesi della Madia (“Essays
on the Effects of Flexibility on Labour Market Outcome”) è di 95 pagine
(al netto di bibliografia e tabelle), cioè un quinto di quella di
Guttenberg. Su 35 di esse il Fatto ha rilevato passaggi identici a
quelli presenti in pubblicazioni di altri autori, senza virgolette né
citazioni, per un totale di almeno 4 mila parole, con il risultato che
non è possibile distinguere il testo originale della ministra da quello
di altri autori. Per gli esperti sentiti dal Fatto, tra cui quelli che
hanno analizzato la tesi di zu Guttenberg, i blocchi copiati sfiorano le
8 mila parole. Ben Martin, direttore di Research Policy, rivista di
riferimento internazionale per gli standard accademici in materia di
plagio, ha svolto un controllo indipendente sulla tesi: “Quello che
abbiamo qui è un inaccettabile livello di plagio” ha dichiarato al Fatto
il 31 marzo scorso.
Ci sono poi altri aspetti mai chiariti né da
Imt né dai relatori della tesi, Fabio Pammolli (direttore di Imt nel
2008) e Giorgio Rodano, già professore ordinario di Economia
all’Università Sapienza. Secondo la ricostruzione del Fatto, Madia si è
dottorata il 22 dicembre 2008 (Imt non ha mai reso noto quale fosse la
data esatta). Quel giorno il sito di Imt riporta che a discutere la tesi
c’erano gli studenti Luigi Moretti e Valerio Novembre, ma non la futura
ministra. Sul sito, il suo nome non compare in nessuna sessione di
laurea. La tesi di Madia si sovrappone alla tesi di una collega,
dottoranda a Imt nel 2008: Caterina Giannetti, che non ha mai risposto
alle nostre domande. Per ragioni mai chiarite, è Giannetti ad aver
creato il file pdf della tesi della ministra disponibile sul sito di
Imt,
Dalle tesi di Giannetti e Madia uscirono anche alcune
pubblicazioni: la Giannetti firma nel 2012 “Relationship Lendings and
Firm Innovativeness”, pubblicato dal Journal of Empirical Finance. Con
la Madia firma, nel 2013, “Work arrangements and firm innovation: is
there any relationship?” sul Cambridge Journal of Economics.
Il
Fatto ha riscontrato che i due articoli presentano una serie di passaggi
identici tra loro e altri molto simili. In entrambi ci sono interi
passaggi identici a quelli presenti nelle pubblicazioni di altri autori,
senza virgolette e spesso senza citazione nel testo. Dopo le
rivelazioni del Fatto, il Cambridge Journal of Economics (Cje), della
casa editrice Oxford University Press (Regno Unito), ha avviato
un’inchiesta interna. Il 30 settembre il comitato editoriale ha
dichiarato al Fatto che “l’articolo contiene le necessarie citazioni e
non c’è evidenza di plagio”. Eppure nell’articolo del Cje esistono ampi
passaggi identici a quelli presenti in altre pubblicazioni che non
vengono citate. Ce ne sono poi altri – ad esempio, in “Innovativity: A
comparison across seven European countries”, a firma di Mohnen, Mairesse
e Dagenais, pubblicato nel 2006 da Economics of Innovation and New
Technology – inseriti senza virgolette e peraltro presenti anche nella
tesi della Madia senza alcuna attribuzione nel testo. Il Fatto chiesto
al Cje di chiarire questi punti e di poter visionare le risultanze della
perizia, ma non ha ottenuto ulteriori risposte.
Nella tesi, Madia
dichiara anche di aver trascorso un periodo di studi all’Università di
Tilburg, in Olanda, dove ha condotto l’esperimento originale della sua
ricerca. L’università ha ribadito che “Marianna Madia non è mai stata
studente a Tilburg” e che pertanto “è altamente improbabile che
l’esperimento sia mai stato condotto”. Non risulta alcun documento
relativo all’esperimento. A Tilburg nel 2008 c’erano invece Caterina
Giannetti e Maria Bigoni, che si sono dottorate all’Imt il 24 aprile
2008 (lo spiega il sito). La Madia le ringrazia nella tesi “per il loro
aiuto nel condurre l’esperimento”. Madia ha annunciato querela contro il
Fatto a fine marzo scorso. Querela che non è mai stata notificata.
Il Fatto 6.10.17
Economia. Il Paese è “in ripresa” solo su giornali e telegiornali. Tutto si tiene
di Pasquale Mirante
Da
qualche tempo i mezzi di comunicazione, stampa e tv (i Tg in
continuazione) ci dicono che è in atto la ripresa: i conti vanno meglio,
la produttività sale e i disoccupati continuano a diminuire. Il
Belpaese starebbe meglio, così dicono. Non ci dicono invece che alla
Sanità saranno apportati nuovi e pesanti tagli che si rifletteranno
inevitabilmente sulle classi medio-basse. Intanto la Sanità privata va a
gonfie vele.
Sarebbe semplice rispondere con un’annotazione:
diversi editori dei giornali hanno, alcuni perfino come attività
prevalente, interessi diretti nel business della sanità privata
controllando società che gestiscono cliniche e ospedali, e i vertici
della Rai sono di nomina politica. La realtà è però, per così dire,
anche più complessa e spiacevole: il sistema dell’informazione vive alla
giornata, non c’è spazio per inquadrare i numeri in una prospettiva più
ampia. Sbandierare che “il Prodotto interno lordo dell’Italia crescerà
quest’anno più del previsto” non è formalmente sbagliato (i dati quello
dicono), ma assumerebbe tutt’altra prospettiva se si spiegasse anche che
è 6 punti percentuali sotto il picco pre-crisi del 2007 e che è il
ritmo più lento tra le grandi economie della zona euro. La
disoccupazione cala dello zero virgola ma è sempre intorno all’11%,
livelli inaccettabili per un Paese che ha nella Costituzione l’obbligo
di perseguire la piena occupazione. È vero, per dire, che gli occupati
sono tornati più o meno ai livelli del 2008, ma – come ha sintetizzato
bene l’ex ministro Enrico Giovannini – in termini di “unità di lavoro”
(due occupati che lavorano metà tempo fanno una unità) siamo ancora un
milione sotto. Per la sanità vale lo stesso: ogni anno le risorse
pubbliche aumentano di poco, meno dell’1%, senza dire che solo per
tecnologie e prezzi dei medicinali dovrebbe crescere almeno del 2% (e
questo si chiama tagliare). Così si riduce lo Stato sociale.
Perché
tg e giornali non ne parlano o ne parlano poco? Assumendo che non
possono essere colti da una sciatteria collettiva, la risposta è che si
segue una scelta deliberata. D’altronde parlare del Jobs act solo in
termini di occupati serve a mascherare che il suo obiettivo, riuscito, è
comprimere i salari. E raccontare solo gli sprechi nella Sanità, e non
la riduzione spaventosa dei finanziamenti, crea la base ideologica per
ridurre i servizi (sarà per questo che si decantano i miracoli del
“welfare aziendale”). L’antidoto non è mettere in dubbio i numeri, ma
fargli la tara. Anche a chi li riporta.
Il Fatto 6.10.17
Sinistra, il caos dei dirigenti che non diventano leader: da D’Alema il capotavola fino a Pisapia faro già spento
Il
Lìder Maximo impalla tutti, Speranza l'eterno futuro, Bersani
indispensabile che ha già fatto il suo: così l'ex sindaco di Milano ha
scoperto che non basta dire "uniamoci" per unire Pd e gli altri e da
possibile federatore è diventato punchin-ball. Per questo il sogno
proibito di Bersani sarebbe Grasso. Preferito perfino da Vendola
di Diego Pretini
Federatori
che non federano, nuovo che non avanza, leader di talento ingombranti
ma consunti dalla storia, assi nelle maniche abbottonate. A sinistra,
presto, a sinistra: ma la macchina pare inceppata. Ex comunisti con ex
socialisti, ex vendoliani con ex democristiani, scissionisti della prima
ora con scissionisti della seconda che si uniscono a quelli della
terza. Il campo della sinistra del centrosinistra che non c’è più è come
un’aia di campagna, dove ogni galletto va a beccare in un posto
diverso. Alt, avvertono tutti in coro nelle interviste, prima di tutto i
programmi. Ma ora che ci provano – il superticket, la povertà nella
legge di bilancio – si accapigliano parlando solo di matrimoni, divorzi,
coppie scoppiate. In comune hanno l’assillo della discontinuità con le
riforme di Renzi e più precisamente proprio con Renzi. Ma ciascuno ha un
joystick diverso. Per dire: lo sforzo per una cosa semplice come far
guidare a Pisapia la delegazione di Mdp a Palazzo Chigi dal presidente
del Consiglio Paolo Gentiloni è stato immane. Ma Tabacci, uno dei pochi
che può parlare a nome dell’ex sindaco, lo descrive come amareggiato
perché – dice – dentro Mdp vogliono confinarsi a una sinistra di
testimonianza con Fratoianni e “quelli del Brancaccio” (cioè Tomaso
Montanari e Anna Falcone, i reduci della vittoria del No), “bravissime
persone che però non c’entrano nulla con la prospettiva di un
centrosinistra in grado di competere”. Dall’altra parte rispondono che
il centrosinistra non esiste perché è morto sotto i molti colpi inferti
da Renzi: l’ultimo quando si è alleato con Alfano per sostenere Micari
alle Regionali in Sicilia. Così si affollano a sinistra dirigenti che
però non si sa dove dirigono, che restano a mezza altezza per motivi
diversi: da Bersani a D’Alema, da Speranza a Enrico Rossi, fino a Nicola
Fratoianni e Pippo Civati. Fino a Giuliano Pisapia, il cui ruolo è
ridotto al lumicino ogni volta che parla D’Alema, già da quella volta – a
inizio settembre – in cui lo definì “l’ineffabile avvocato”. E un po’
più in là, fino ai sogni che non sembrano solide realtà: Piero Grasso e
Emma Bonino. Di seguito i più in vista.
D’Alema, l’attaccapanni che precede tutti
“Finché
sarò vivo, Renzi non potrà stare sereno” disse a pochi mesi dal
referendum costituzionale. Per Aldo Cazzullo (Corriere di ieri) è il più
anti-renziano di tutti. Per Angelo Panebianco (Corriere di molti anni
fa), “i leader autentici sono sempre, in ogni Paese, e anche in Italia,
pochissimi. E D’Alema è uno di loro”. Per Renzi era il primo da
rottamare e invece ha fatto come l’alligatore: è rimasto sott’acqua
finché è servito, finché non ha capito che uscendo dall’acqua avrebbe
divorato la preda. Non solo Renzi, ma anche il nuovo partito che lui ha
annunciato per primo. I dalemiani sono rimasti di là, hanno indossato
nuove maschere: Anna Finocchiaro, Gianni Cuperlo, Nicola Latorre, Marco
Minniti, Matteo Orfini in ordine di crescente lealtà al nuovo capo. Lui
non soffre di solitudine, capotavola è dove si siede lui, disse una
volta. Dopo aver garantito che Speranza è un ottimo dirigente tra
l’altro più giovane di Renzi e che chi sarebbe stato il capo si sarebbe
deciso con le primarie, a luglio ha definito quella di Mdp una “gestione
confusa e poco efficace”.
Ha dato la possibilità a
Pisapia di sognare per un po’, di fare il federatore, sapendo già che
avrebbe fallito. I due non sono diversi solo perché uno è figlio del
partito e l’altro un borghese civico, come li ha descritti Cazzullo. Ma
anche perché l’ex sindaco continua a inseguire i sogni, mentre l’ex
presidente del Consiglio non ha mai cominciato, preferendo la
disillusione. Per primo D’Alema ha annunciato che ci sarebbe stata la
scissione dal Pd, per primo ha detto – andando ad ascoltare il discorso
“di insediamento” di Pisapia – che alle elezioni avrebbero corso da soli
e contro il Pd, per primo ha capito che una coalizione sarebbe stata
impossibile. Per primo ha detto che con l’alleanza tra Pd e Alfano in
Sicilia il centrosinistra era finito. Per primo ha chiesto a Pisapia
“maggiore coraggio” per accelerare la nascita della forza a sinistra del
Pd: un simbolo riconoscibile, temi ben chiari per segnare la
“discontinuità” con il lavoro fatto dal governo delle intese medie negli
ultimi 5 anni. In realtà non è mai chiaro se queste cose le dice per
primo perché le prevede o perché poi le fa andare così lui. Per questo a
Pisapia è partita la frizione chiedendogli di farsi da parte, subissato
di fischi dei dalemiani rimasti e dal silenzio glaciale del Lìder
Maximo.
Ha archiviato la terza via e il blairismo,
nelle interviste cita Podemos e la Linke, se non fosse ambiguo si
direbbe che si è radicalizzato. E’ una croce oltre che una delizia di un
pezzo di sinistra perché il suo passato pesa e contro D’Alema se la
prendono tutti, una specie di antistress: “E’ l’attaccapanni a cui
attaccano tutte le tattiche avverse – ha detto Bersani qualche giorno fa
– Ma lui è fatto così è una personalità ma le perplessità non si
possono nascondere sempre dietro D’Alema”. Ma l’impresa è sempre
spostarlo da davanti.
Bersani, quest’acqua qua
Lo
paragonano a Bertinotti. Lui con la stessa espressione piena di fatica,
di preoccupazione e di concentrazione che offrì da presidente
incaricato nel primo incontro in streaming con i capigruppo dei
Cinquestelle, nel 2013, oggi fa ancora scrosciare applausi negli studi
televisivi e – racconta uno dei suoi fedelissimi, Davide Zoggia – anche
nelle piazze in Sicilia. Avrebbe voluto essere Papa Roncalli, ha detto
una volta, ma sembra più Papa Montini: a volte un po’ in anticipo per
non rimanere schiacciato dal presente. Se avesse vinto, anziché “non
vinto”, come prima cosa da capo del governo – ha ricordato di recente –
avrebbe fatto lo Ius soli, su cui ora Renzi non ha nemmeno il coraggio
di mettere la fiducia. Come seconda, una “norma secca anticorruzione“.
Dalla corsa per il leader si è autoeliminato da tempo: la moglie ha
minacciato di cacciarlo da casa se si ricandiderà a premier, ma non c’è
rischio, tanto più che a questo giro il massimo del risultato può essere
il quarto posto.
Ma la sua assenza ha messo davanti
agli occhi dell’elettorato le alternative tipo Speranza e la platea ne è
uscita terrorizzata. Quindi “quel pezzo di Ditta qua”, che in realtà
crede che la Ditta sia stata scippata da un rapinatore, si aggrappa di
nuovo a lui, diventato finalmente leader dopo una vita politica da
gregario di lusso, competente, rasserenante. “L’eterno delfino che a 57
anni ha deciso di nuotare da solo – lo definì Fabio Martini sulla Stampa
prima del congresso che avrebbe incoronato Bersani, già tre volte
ministro – A forza di nascondersi, a forza di dire ‘Obbedisco’ al suo
amico Massimo D’Alema che in passato lo ha ripetutamente invitato a non
candidarsi, la rinuncia stava diventando la sua cifra politica. L’Amleto
di Bettola”. “Bersani è un uomo di governo capace ed è sempre stato
fuori dai conflitti personali all’interno del centrosinistra”: sembra la
definizione più adatta e l’unico sospetto nasce perché a pronunciarlo
fu proprio D’Alema.
Da solo, senza D’Alema, è quello
che ha combattuto di più le politiche di Renzi, rottamatrici delle idee
più che delle persone. Non c’è riuscito quasi mai anche perché, appunto,
ha criticato troppo presto quello che altri nel partito hanno
contrastato più tardi, a tempo scaduto, tipo Orlando. Come D’Alema,
però, Bersani si porta il fardello di chi dice cose già dette e vede
cose già viste: gli elettori di sinistra sono da tempo un po’
suscettibili, diversi da quelli di Forza Italia che vedono solo
Berlusconi. Lo prendono in giro, ma Bersani insiste a credere di parlare
la lingua del popolo così le metafore non sono mai uscite dal suo
breviario. L’ultima l’altro giorno, con gli animali: “Se anche in Italia
si tira la volata alla destra scimmiottandoli, balbettando in modo più
politicamente corretto le stesse ricette, ad esempio su fisco e
immigrati, la sinistra rischia di fare la fine del coniglio davanti al
leone”. La penultima alcuni giorni prima, quella dell’acqua: “Renzi ha
governato tre anni con i voti che ho preso io, ed ha ribaltato quasi del
tutto le cose che avevo promesso agli elettori. Se questo porterà
avanti il centrosinistra e metterà sotto destra e 5 stelle, avrà avuto
ragione lui; altrimenti dovrà far due conti di quello che è successo. Di
noi non si preoccupi: noi porteremo acqua al centrosinistra”.
Pisapia, il punching-ball arancione
“Giuliano
Pisapia, convinto di essere un leader decisivo e destinato a saldare le
varie sinistre di sorta, non sa che D’Alema non prevede per lui alcun
ruolo, salvo quello di bella statuina”. Sembrava una cattiveria quella
di Andrea Marcenaro sul Foglio di inizio estate. Quasi quattro mesi il
basamento della statuina è quasi completato. Pisapia è stato posizionato
sull’asta del gonfalone della sinistra che rimpiange Prodi e l’Ulivo,
ma in realtà si ritrova a capo della Sinistra Arcobaleno. E forse
nemmeno così a capo. Quando Bianca Berlinguer ha chiesto a D’Alema se è
Pisapia il leader lui ha risposto: “Abbiamo detto di sì, il leader è
lui”. Abbiamo detto di sì, noi, all’ineffabile avvocato, come l’ha
chiamato una volta.
Altro che enzima che unisce tutto
il centrosinistra, dai democristiani a Fratoianni. Piuttosto il
punching-ball del luna park. A nulla è servita la lunga preparazione di
Pisapia, iniziata con la scomparsa dalla scena politica alla Fanfani
subito dopo aver la sciato Palazzo Marino. Credeva che tutti
aspettassero qualcuno come lui che a Milano ha guidato la vittoria
“arancione” e in Italia ne era il simbolo, senza accorgersi che
quell’avventura è finita già da un pezzo, con lui, Zedda, De Magistris e
Orlando in ordine sparso. A Milano aveva vinto perché è una persona per
bene, carattere che rischia di diventare un handicap quando sei in un
ambientino pieno di tigri dai denti a sciabola. Credeva che bastasse un
paciere, scoprendo che servirebbe un miracolo: l’euforia iniziale che ha
unito al suo fianco l’ex rifondato Ciccio Ferrara e l’ex dc Tabacci
senza i marxisti – e ha fatto aleggiare i padri nobili Enrico Letta e
Prodi – è diventata ora una bell’arietta emo.
Prende
schiaffi da tutti, come una comparsa di Altrimenti ci arrabbiamo.
“Pisapia cambia posizione abbastanza spesso – ha detto Orfini alcune
settimane fa – Perché quando ha fatto la riunione con Mdp ha firmato un
documento in cui si definiva alternativo al Pd – e immagino non ci si
voglia alleare con forze alternative – poi ha lanciato le primarie”.
Nicola Fratoianni, capo di Sinistra Italiana, si dice “non interessato
alle smentite di Pisapia” e che “il tempo è scaduto”. Irrita Roberto
Speranza: “Noi stiamo aprendo le porte nella maniera più convinta
possibile a Giuliano Pisapia. Dopodiché a me non convince un
ragionamento in cui tutto si riduce a un gioco di personalità”. Fa
sdubbiare perfino Bersani: “Nessuno qui vuol dei partitini. Vogliamo
tutti un partitone. Non è quello”. Litiga di brutto con Nichi Vendola:
“Ha ragione Pisapia: D’Alema è divisivo, divide la sinistra dalla
destra. Per Pisapia è sufficiente dividere la sinistra” dice l’ex
presidente della Puglia. “Si può cambiare idea, ma non dimenticare: hai
governato la Puglia in variegata compagnia. A Milano non c’era destra in
giunta” risponde l’ex sindaco.
Nonostante l’abbraccio a
Maria Elena Boschi davanti al quale Mdp reagì come se avesse
commemorato Farinacci, è stato quasi ignorato dal Pd che parla di lui
solo nei retroscena, “da Calenda a Pisapia”, o nei sogni di Rosato, “da
Alfano a Pisapia”. Per restare attaccato almeno a Mdp, i suoi comunicati
stampa sono esercizi di acrobazia. Fa fatica a farsi ascoltare perfino
dai senatori che si autoproclamano esponenti di Campo Progressista:
parlano a titolo personale, dice un portavoce di Pisapia. “No – ha
risposto uno di loro – io parlo a nome di Campo Progressista Sardegna”.
Mettete da parte i personalismi, ripete da mesi a due poco interessati
ai personalismi come Renzi e D’Alema. Lui si è già messo da parte per
esempio in Sicilia dove non sostiene né Micari col Pd né Fava con la
sinistra.
Speranza, l’eterno futuro
L’eterno
delfino, l’eterno futuro, l’eterno dialogante. Per Vauro “un
giovane-vecchio”. A Roberto Speranza quasi tutti riconoscono che è
serio, timido, mediatore, coerente, grande ascoltatore, persona perbene,
che ha studiato, che ha fatto la gavetta. Più o meno così lo descriveva
la Stampa già 4 anni fa, quando già lo indicavano come “futuro leader”.
Nel frattempo risulta ancora difficile trovare chi lo consideri uno che
riempie le piazze e le urne. Bersani se n’è dovuto andare per un po’ e
poi è tornato e Speranza sempre lì è rimasto: sotto la sua ala
protettiva. E’ lì sotto dal 2012 quando Speranza era uno dei
coordinatori del comitato di Bersani alle primarie per le Politiche.
Spesso
si sforza di essere incisivo: “Avevamo promesso più lavoro e stabilità e
ci siamo ritrovati il boom dei voucher; avevamo promesso green economy e
ci siamo ritrovati le trivelle e il ‘ciaone’; avevamo promesso equità
fiscale e abbiamo tolto l’Imu anche ai miliardari”. Ma non se ne accorge
nessuno. Fa cose di rottura, coraggiose: si dimise quando la Boschi
pose la fiducia sull’Italicum che lui considerava incostituzionale (come
poi confermò la Consulta). Ma non se lo ricorda nessuno.
Gli
capita di prendere sberle a gratis anche quando non fa niente di che.
“Hai la faccia come il culo” gli comunicò Roberto Giachetti quando a
Speranza gli venne di proporre il Mattarellum. Mani tra i capelli di
Renzi, grida in pé della senatrice Ricchiuti, via alla scissione. Un
mesetto prima un tizio gli lanciò addosso un iPad durante la
presentazione di un libro a Potenza: “Il Pd vende armi all’Isis!”.
L’episodio più doloroso resta quando Repubblica chiese a Bersani se
Speranza era l’anti-Renzi: “Lo stimo, non è un segreto. Ma al di là dei
nomi serve un segretario che si occupi del partito sdoppiandolo dalla
figura del premier e non escludiamo a priori di pescare da campi che non
sono del tutto sovrapponibili alla politica. Qualcuno può escludere che
in giro ci sia un giovane Prodi?”. Boom, Roberto, sei stato
friendzonato. Sembra sempre il suo momento e il suo momento non arriva
mai. Mesi fa aveva finalmente l’occasione per misurarsi (cioè
schiantarsi) contro Renzi. Zampettava sui giornali e sulle televisioni
dopo la vittoria del No al referendum, in quei giorni figlia del mondo
intero. “Arriverà presto il congresso Pd e io ci sarò, mi batterò.
Accetto la sfida e sono ottimista perché non sono solo”. E invece un
attimo prima gli hanno tolto il partito, nel senso che i suoi tutori
hanno deciso di andarsene a fare Mdp. Cos’è ora Speranza?, si chiedono
ogni tanto l’un l’altro nelle redazioni. Capogruppo? Possiamo dire
leader? No dai, leader no. Forse tipo coordinatore. Provate voi a
coordinare ex vendoliani, ex bersaniani, pisapiani e D’Alema.
Grasso, che una mattina si svegliò “Metodo”
Una
volta, raccontò, si addormentò Pietro e si svegliò “metodo”. Il “metodo
Grasso” di cui parlarono i giornali all’indomani della sua elezione era
quello che aveva fatto diventare lui presidente del Senato (spaccando
il gruppo M5s alla prima votazione) e Laura Boldrini presidente della
Camera. Il metodo lo inventò Pierluigi Bersani al quale nel 2013 venne
l’idea di proporre a Grasso l’inizio della carriera politica dopo una
vita nella lotta a Cosa Nostra. Ora può accadere di nuovo. A Napoli,
alla festa di Mdp, Bersani aveva gli occhi a cuoricino mentre sentiva la
seconda carica dello Stato raccontare che si sente ancora “ragazzo di
sinistra” e come tale chiede “alla sinistra di non fare passi indietro
sui principi”.
C’è quella bazzecola da superare che si
chiama presidenza del Senato che lo terrà ingessato fino a primavera, ma
Grasso per la terza volta potrebbe essere la soluzione ai problemi di
Bersani. Grasso ha le sembianze quei tiri di carambola di certi circoli
del biliardo con cui la biglia butta giù i birilli, sponda dopo sponda.
Autorevole per curriculum, dialogante per carattere, è legalitario, ma
non securitario, la giustizia sociale accanto a quella dei tribunali.
Dice cose di sinistra, pronuncia spesso parole di verità, gli piace il
genere antifà. Negli ultimi dieci giorni ha detto che: lo Ius soli va
votato, il codice antimafia deve rimanere così perché era nel programma
(del Pd), la sinistra non deve fare passi indietro sui suoi principi,
che la prima regola della politica è l’etica (bisogna saper scegliere i
candidati prima che arrivino le condanne). Ha detto che i partiti devono
smetterla di scrivere le leggi elettorali solo per convenienza e ha
fatto incazzare Orfini. Ha detto che dobbiamo dare l’asilo anche ai
migranti economici perché lo dice la Costituzione e ha fatto incazzare
la Lega Nord. Fa incazzare spesso il Pd, come quando si mise seduto in
Aula tutto sorridente e decise per conto suo di far votare la richiesta
d’arresto di Antonio Caridi, primo parlamentare accusato di associazione
mafiosa (il Pd voleva trastullarselo fino a dopo il ddl editoria).
Non
si contano le volte che ha fatto incazzare il M5s: i senatori grillini
perdono la testa soprattutto quando loro si agitano rossi in volto –
come per abitudine – e lui gli risponde col tono di un bonzo tibetano,
con lo sguardo disincantato. La spalla preferita è il senatore Lello
Ciampolillo. Una volta segnalò dei “pianisti”, quelli di Forza Italia
cominciarono a tirargli palline di carta. Grasso lo rassicurò sulla sua
incolumità: “Senatore Ciampolillo, la presidenza ha visto tutto. Ha
visto anche che non l’ha colpito”. Stimato da destra, Vendola lo
preferisce a Pisapia. “Grasso è una grande personalità – dice D’Alema –
E’ stato un giovane militante di sinistra, l’abbiamo candidato e eletto
presidente del Senato. Non è certo una new entry”. Un ineffabile
presidente, in altre parole.
il manifesto 6.10.17
Bersani ricuce, con Pisapia è tregua. Ma il Pd punta tutto sulla rottura
«Insieme»
ma non troppo. Assemblea del nuovo soggetto entro un mese Intanto Prodi
tende una mano a Renzi. L’ex sindaco: avremo candidati in tutti i
collegi Errani difende D’Alema: Massimo è una risorsa
di Daniela Preziosi
Con
il Pd? «Avremo nostri candidati in tutti i collegi». Le alleanze a
sinistra? «Si fanno sui programmi e sui progetti». Insomma il matrimonio
con Mdp, Pisapia, lo vuole fare? «Io sono per il matrimonio, anche
quello gay, ma anche per la poligamia: non chiudiamoci fra di noi».
Applaudono con calore esagerato i militanti ex pd riuniti a Ravenna per
il ’ritorno alla politica’ di Vasco Errani dopo le tribolazioni
giudiziarie (assolto) e l’anno da commissario per la ricostruzione. La
’base’ acclama due ex presidenti di regione: c’è anche Pier Luigi
Bersani. Non fa che ripetere all’indirizzo dell’ex sindaco «io sono
d’accordissimo con Giuliano». Perché si celebra il rito della pace fra
Mdp e il leader dopo le risse degli ultimi giorni. Pisapia ci sta, non
si lascia andare del tutto al «volemose bene». Si fa l’assemblea
costituente del nuovo soggetto, incalza Alessandro De Angelis,
vicedirettore dell’Huffington post? Pisapia: «Dobbiamo proporre un
grande appuntamento partecipativo, con sette punti condivisi. Non deve
essere a due, ma deve essere a tanti». Bersani: «Benissimo entro un mese
e mezzo dobbiamo dire una cosa chiara alla nostra gente: chiamiamola,
partiamo da un concetto largo e vediamo chi non ci sta. Io non voglio
una cosa rossa, ma non si pensi di sotterrare il rosso». Ci sono stati
litigi alla camera sul Def? «Ex Pd ed ex Sel sono due aree culturalmente
diverse. È fisiologico che ci siano delle differenze», rassicura
Pisapia, ma «è importante che queste famiglie ritornino nella stessa
casa. Il cammino è frastagliato, ma io ci credo». Anche Errani chiede di
stringere i tempi: «Non ci interessa un partitino del 3 per cento, la
nostra idea è essere l’innesco del cambiamento» ma «non possiamo
continuare a pestare l’acqua».
La pace di Ravenna arriva, come da
copione. Ma reggerà? Le tensioni fra Mdp e Campo progressista degli
ultimi giorni non sono archiviate. Nel pomeriggio in Transatlantico c’è
chi ci rimugina. «Nella riunione dei parlamentari eravamo tutti
d’accordo, area Pisapia e area ex Pd, non è vero che D’Alema voleva far
saltare i conti», c’è chi puntualizza. Anche Arturo Scotto giura che non
c’è stato nessuno strappo: «Il voto favorevole allo scostamento, così
come il mancato sostegno alla nota di aggiornamento del Def, non sono il
frutto di incontri segreti o telefonate notturne. Così come la
conseguente e definitiva rottura del vincolo di maggioranza». È vero che
Roberto Speranza l’aveva annunciata domenica scorsa dal palco della
festa di Napoli, seduto al fianco di Pisapia (che non ha fatto un
plisset). Ma non è detto che le differenze non riesplodano sul voto
finale sulla legge di bilancio. Le aperture di Padoan sono considerate
tiepide, Mdp è orientata a votare no.
La rissa a sinistra è un
assist formidabile per Matteo Renzi. Dal Nazareno c’è chi sfotte: quando
sono scoppiate le liti a sinistra «abbiamo comprato i popcorn»,
«Pisapia ci sta di fatto aiutando a dimostrare qual è il vero progetto
di D’Alema: distruggere il Pd. E Pisapia lo sta stoppando». Il
segretario con i suoi scherza parecchio. Nella sua enews ovviamente
invece si contiene: «Il Pd deve mantenere uno stile. Specie in questi
momenti di incomprensibile rissa verbale a sinistra della nostra
sinistra. Uno stile concentrato sui problemi degli italiani».
La
presunta smarcatura di Pisapia dalla Ditta Bersani&D’Alema
avrebbe fatto cambiare idea anche a uno dei primi suggeritori: Romano
Prodi. La scorsa settimana il professore avrebbe telefonato a Renzi per
ristabilire un contatto. Fra i due sarebbe finita l’era glaciale,
dunque: l’ex premier riporta «la sua tenda» in zona dem, e comunque non
presterà la sua faccia e il suo profilo a una campagna elettorale contro
il Pd.
Anche la minoranza di Orlando guarda con soddisfazione le
crepe aperte fra Campo progressista e Mdp: «Pisapia sembra deciso a
rompere con D’Alema. Speriamo che vada fino in fondo».
Dal Pd, con
diversi accenti a seconda della corrente di appartenenza, l’appoggio al
progetto di aggregazione di Pisapia ha sempre avuto come obiettivo
quello di costruire un alleato per il partito di Renzi. Ora il
Rosatellum 2.0 potrebbe offrire lo strumento per «agganciare» l’alleato.
«Si può riprendere un discorso di centrosinistra largo», viene
spiegato.
Per ora Pisapia resta «Insieme» a Mdp e critica con
durezza la legge elettorale. Giura che sarà alternativo al Pd. Ma alla
camera c’è chi giura che almeno dieci dei suoi sono pronti a votare la
legge. Con il suo imprimatur? Per ora Pisapia non lascia spazio alla
speranza di essere ridotto a una lista-cespuglio del Pd.
Il Fatto 6.10.17
Pisapia si fa barricadero: “Ho condiviso il no al Def”
Dopo
le polemiche a distanza dei giorni scorsi, l’ex sindaco di Milano sposa
la linea anti-governo sul palco di Mdp con Bersani, che rincara:
“Pronti a votare pure contro la manovra”
di Luca De Carolis
“Siamo
pronti a non votare la legge di bilancio, ma con un limite: la troika
non la facciamo venire”. Da un palco a Ravenna Pier Luigi Bersani lancia
il suo avvertimento condizionato al governo. Ma soprattutto incassa
l’appoggio di Giuliano Pisapia che, seduto accanto all’ex segretario del
Pd, scandisce: “La scelta di non votare il Def uscendo dall’aula del
Senato l’abbiamo condivisa pienamente”. Ed è la tregua.
Pisapia
giura di aver appoggiato Articolo 1 – Mpd nel suo scontro con il
governo, e buonanotte alle ricostruzioni sullo strappo nella cosa rossa.
Così ora la rotta concordata è ottenere segnali dal governo,
attenzione. Altrimenti saranno altri no, anche se la sinistra ex dem
giura di non voler mandare a gambe all’aria i conti. Bersani e Pisapia
lo assicurano nella serata davanti ai militanti di Articolo Uno. Sul
palco con loro Vasco Errani e il vicedirettore dell’Huffington Post,
Alessandro De Angelis, nel ruolo dell’intervistatore.
Si parte
proprio con Errani come protagonista. “Vasco” gli urlano dalla platea. E
l’ex commissario straordinario per il terremoto, già governatore
dell’Emilia Romagna, quasi si commuove. In maniche di camicia, parla per
primo: “Avevo fatto una scelta istituzionale difficile sul terremoto.
Ma ora torno alla politica, che è la mia passione”. Tradotto, è pronto a
ricandidarsi alle Politiche. Nell’attesa, sostiene: “Chiunque
strumentalizzerà il sisma ne pagherà il prezzo”. Però il tema è sempre
il no al Def. De Angelis ne chiede conto a Bersani, e lui rispiega la
linea: “Siamo riformisti e vogliamo discutere di quello che non ci
convince su lavoro, sanità, scuola e fisco. Chiediamo un segno”. E se
non arrivasse, potreste votare contro sul bilancio? “Sì, ma con un
limite. Non vogliamo la troika, e ci sono dei rimedi tecnici per
evitarla. E poi un aiutino il governo può comunque trovarlo…”. L’aiutino
è innanzitutto lui, Denis Verdini. E Bersani insiste: “Se invece di
discutere con noi preferiscono prendere la scorciatoia di cercare voti
da un’altra parte, vadano dove li porta il cuore…”. La platea batte le
mani. Poi però ci sarebbe Pisapia.
E allora, questo no al Def? Il
leader di Campo progressista la prende larga: “Siamo andati a Palazzo
Chigi (quattro giorni fa, ndr) non per parlare di legge elettorale ma
per chiedere risposte su temi fondamentali come sanità e lavoro. Ci
hanno promesso segnali per l’indomani, e infatti il ministro
dell’Economia Padoan ha detto alcune cose. Ci aspettiamo altri segnali”.
Dododiché, “la scelta sul Def è stata pienamente condivisa, in Senato
l’astensione è come il no, quindi siamo usciti dall’aula”. La platea,
diffidente, respira di sollievo. Però poi De Angelis stuzzica l’ex
sindaco: “Allora, il matrimonio tra Mdp e Campo progressista quando lo
fate?”. E Pisapia respinge gli anelli: “Io sono favorevole al
matrimonio, ma in politica preferisco la poligamia”. Se c’è Renzi però è
complicato, gli fanno notare, mentre la sala rumoreggia.
Ma l’ex
sindaco non sterza: “Dobbiamo mettere assieme tutte le case di sinistra,
ci sono tre milioni e mezzo di voti da recuperare. Io voglio un nuovo
centrosinistra. Certo, adesso nei confronti di Renzi sono sfidante…”. Un
“adesso” che provoca qualche altro rumore. Ma Pisapia spiega la sua
mappa, e in parte ricuce: “Dobbiamo elaborare sette punti di programma, e
fare una campagna unitaria”. Per il 19 novembre rimane fissata la
costituente “rossa”, e Bersani lo ricorda: “Abbiamo un mese e mezzo di
tempo”. Però ribadisce: “Voglio un’alleanza con quest’uomo come leader”.
E indica Pisapia. Per il resto, precisa, “sono d’accordo sui punti
programmatici, non possiamo andare alla carlona”. Però rimane un tema,
Massimo D’Alema. Errani va dritto: “D’Alema è una risorsa. E te lo dico
Giuliano, si è parlato di passo di lato per lui, ma per me esiste solo
il passo in avanti”. Ma Pisapia dribbla: “Certe polemiche, D’Alema o non
D’Alema, interessano solo certa stampa”. E così sia.
Corriere 6.10.17
Pisapia da Mdp, ma Errani ruba la scena
L’ex sindaco applaudito a Ravenna. E a «Vasco» che lo incalza replica: il leader sei tu
di Monica Guerzoni
RAVENNA
Succede tutto alla fine, quando Giuliano Pisapia con un sorriso
enigmatico lancia Errani alla guida del centrosinistra in cantiere: «E
poi, caro Vasco, stasera il leader è stato nominato da tutti i presenti e
sei tu». Forse è solo una battuta, ma quell’attimo di silenzio in sala
(e lo stupore dell’ex commissario alla ricostruzione) dicono la sorpresa
e forse anche il timore che l’avvocato milanese stia ancora pensando di
sfilarsi.
Eppure era andato tutto bene, forse anche troppo viste
le tensioni di questi giorni tra Campo Progressista e Mdp. Sotto le alte
capriate in legno dell’Almagià, antica fabbrica di zolfo e polvere da
sparo, Pisapia arriva alle nove della sera, supera la prova
dell’applausometro e sigla la pace con la base bersaniana. «Io sono
sempre stato coerente — rivendica l’ex sindaco di Milano — Io con Renzi
in questo momento sono sfidante, sono competitivo, ma i nostri avversari
sono le destre, la Lega, il populismo». E se dubbi e malintesi ancora
aleggiano e rischiano di far naufragare la barca unitaria, Pisapia fa
chiarezza e assicura che sì, «ho condiviso la scelta di uscire dall’aula
e non votare la nota di aggiornamento al Def».
Tra le bandiere di
Mdp, i bersaniani di Ravenna festeggiano il ritorno in pista di Vasco
Errani. È lui a scaldare i mille assiepati nella grande sala, a intonare
accenti duri e radicali, a rubare la scena a Pisapia ricordandogli che
«non c’è più tempo», che è ora di gettare le fondamenta della nuova casa
comune: «Non ci interessa un partitino del 3 per cento, noi vogliamo
essere l’innesco del cambiamento. Non possiamo continuare a rimestare
l’acqua, basta sigle, politicismi, personalismi, rottamazioni, chiudiamo
quel libro e andiamo ai contenuti». Ed è sempre lui, Errani, a
difendere D’alema: «Dire che è un gruppettaro è una sciocchezza, D’Alema
è una risorsa per noi. Nessun passo indietro Giuliano, per me conta
solo il passo avanti». Applausi e «bravo!», un coro di emozioni
contrastanti che spinge Pisapia a chiudere lo scontro: «D’Alema o non
D’Alema, le polemiche interessano solo a certa stampa che vuole creare
zizzania».
Tocca a Bersani, che gioca in casa e trascina i mille
in platea e grida «non mi si dica di sotterrare il rosso, perché io non
sarò mai d’accordo». Bersani all’attacco, Bersani barricadero. Il
fondatore di Mdp è entrato in modalità campagna elettorale e non fa
sconti a nessuno. Da Renzi a Gentiloni, il Pier Luigi duro e puro ne ha
per tutti: «Noi non abbiamo votato il Def e ora vediamo cosa ci diranno
sul bilancio. Ma volete mettere un segno di alt a questo insulto a una
nuova generazione?».
Alessandro De Angelis domanda se Mdp abbia
messo nel conto di non votare la manovra e Bersani, secco: «Sì, con un
limite, noi la trojka non la facciamo arrivare, cerchiamo mica il freddo
nel letto...».
Sintonia di accenti, comunione di intenti. Finché,
sul finale, Errani lancia Pisapia come guida di un progetto collettivo e
lo richiama, tra gli applausi di chi si è stufato di aspettare Godot,
al tempo che sta per scadere: «Per me Giuliano è il nostro leader ma non
ha la delega in bianco non è il capo non comanda da solo...». L’ex
sindaco si alza con la faccia scura, prende Errani da parte e si vede
che lo scambio di battute è teso. Cosa è successo? «Non capisco — fuma
nervoso “Vasco” — Giuliano deve aver frainteso».
Eppure il passo
avanti c’era stato, visto che Pisapia ha aperto a un «grande momento
partecipativo» in cui mettere al centro «sette punti programmatici
concreti per una campagna elettorale unitaria, capace di trasmettere
idea che non vendiamo sogni». Ma una cosa Pisapia vuole che sia chiara.
L’unione non può essere a due. «Io — strappa una risata — sono per il
matrimonio anche omosessuale, ma in politica sono per la poligamia ».
Repubblica 6.10.17
Già pronto il piano B dei demoprogressisti: “Sinistra” nel simbolo
L’ultimatum di Bersani “Subito il nuovo partito o è meglio dividerci”
TOMMASO CIRIACO
ROMA.
«Giuliano,
così non si può andare avanti. O remiamo nella stessa direzione, oppure
per il bene di tutti è meglio dividere il nostro cammino. Ed è meglio
farlo adesso». L’ultimatum di Pierluigi Bersani a Giuliano Pisapia parte
da Ravenna. Occhi negli occhi, prima di salire sul palco per
un’intervista a Ravenna. Dopo giorni di scontro furibondo a mezzo
stampa. «Dobbiamo annunciare la data dell’assemblea fondativa entro una
settimana», insiste l’ex segretario dem. «E dobbiamo chiudere con
chiarezza a Renzi ». L’avvocato ascolta, ma alla fine non cambia strada.
Non esclude un passo di lato. E ribadisce: «Gli avversari sono i
populisti. E noi non possiamo rinchiuderci, né fare il partitino del
3%». Un fossato che non si colma. Non a caso, Bersani e D’Alema hanno
già pronto il piano B: un nuovo simbolo e un nuovo brand, “Sinistra”.
Per far capire al mondo che il progetto ulivista è ormai alle spalle e
capitalizzare la battaglia senza quartiere al Pd. Con buona pace di
Campo progressista.
Di fronte alla platea dei “compagni”
romagnoli, il clima inizialmente è disteso. Bersani e Pisapia, d’altra
parte, sono amici. Ma la sostanza non cambia. La parte del poliziotto
cattivo tocca a Vasco Errani. Difende D’Alema, smonta i sogni di un
“nuovo Ulivo” e chiede radicalità contro il renzismo. È una mossa
concordata con Bersani, dopo una triangolazione con Massimo D’Alema e
Roberto Speranza. E prevede un timing brusco, che proprio Speranza mette
in chiaro: «Ora basta - confida a un collega alla Camera - in questo
limbo ci facciamo tutti del male. Se il progetto comune si può fare,
bene. Altrimenti ognuno per la sua strada, senza rancore».
Errani
“provoca”, Pisapia schiva. Non regala la data dell’assemblea fondativa,
né promesse su una battaglia senza quartiere al Pd che l’ex sindaco non
vuole regalare a Lega e Cinquestelle. I rapporti restano complicati, a
dire poco. «Non c’è più tempo da perdere – si preoccupa Guglielmo
Epifani – se serve un giorno in più va bene, ma siamo già in ritardo ».
Tutto è appeso a un filo. E molto dipenderà dall’atteggiamento di Matteo
Renzi. Proprio oggi, il leader dem riunirà la direzione e batterà su un
punto caro all’ex sindaco: «Il Pd è l’unico ostacolo che divide i
populisti dal governo». Per il segretario, però, la battaglia di
sinistra è una «questione di sigle che non interessa ai cittadini». Ma
l’unità, quella con Pisapia naturalmente, resta una strada quantomeno da
sondare.
Sia chiaro, Renzi non è convinto che il leader di Campo
progressista sia pronto a rompere per davvero con gli scissionisti ex
dem. Sa che il progetto dell’ex sindaco nasce anzi per spingere di lato
anche la sua leadership. I suoi, però, puntano sui vantaggi di
un’eventuale intesa: «Dobbiamo dialogare con Giuliano - gli ricordava
l’altro ieri Lorenzo Guerini - perché senza di lui Mdp diventa solo una
ridotta dei rancori... ». “Dalemizzare” la sinistra, insomma, per
allargare il consenso del centrosinistra.
Molto dipenderà dalla
legge elettorale. Il Rosatellum può davvero favorire l’unità tra i dem e
Campo progressista, eppure non convince Pisapia. Gianni Cuperlo si è
mosso per allettarlo con un meccanismo capace di garantire il voto
disgiunto, ma il veto di Forza Italia ha frenato (almeno per il momento)
l’operazione. «Però Giuliano - è stato il consiglio di Bruno Tabacci -
dobbiamo migliorare la riforma, ma farla approvare ».
È l’opinione
che va per la maggiore anche nel Pd non renziano. «Sulla legge
elettorale è giusto assecondare Renzi», è la linea di Andrea Orlando. E
di Dario Franceschini, faccia a faccia con Tabacci: «Facciamo il
Rosatellum, poi vedrete che l’unità sarà inevitabile ». Quelli di Mdp
diranno di no eccome, perché hanno in tasca proiezioni devastanti: con
il 3% e senza un’intesa con il Pd che “copra” anche la quota
uninominale, raccoglierebbero 14 miseri seggi. Altro discorso se il Pd e
Campo progressista si ritrovassero uniti nei collegi. Forse è per
questo che un pisapiano come Michele Ragosta si lascia sfuggire con
Roberto Speranza questa previsione: «Almeno quindici dei nostri
voteranno il Rosatellum».
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il manifesto 6.10.17
Sinistra e governo, essere divisivi è la premessa contro l’irrilevanza
di Michele Prospero
In
certi momenti si deve essere divisivi, pena l’irrilevanza. Se non
prevale nel Mdp chi spinge verso una nitida differenziazione, e prepara
così le condizioni per uscire dal governo, si sprofonda in un
chiacchiericcio che alla lunga stanca. I tempi stringono e, per
aggregare le forze in un largo progetto unitario, serve una disincantata
capacità di rottura. Senza operazioni costose (che attirano l’accusa
prezzolata di essere per il tanto peggio) ma indispensabili di fuga, non
si va lontano nella strategia.
Nessuna composizione di soggetti
molteplici è destinata al successo se rimane il semplice frutto di una
ingegneria elettorale. Se la lista comune si configura come un’alchimia
di forze messe insieme da federatori peraltro riluttanti, il suo cammino
stentato conduce al naufragio. E’ inevitabile disperdere ogni potenza
dietro parole vacue di chi nello scontro si fa predicatore di unità, nel
momento dell’abbandono recita la litania della responsabilità. Non si
può lanciare una sfida rimanendo nell’indeterminatezza di una battaglia
terminologica per stabilire se essere alternativi o sfidanti rispetto al
Pd.
Deve essere chiara una regola elementare della lotta
politica. Senza un movimento reale, cui dare uno sbocco nella
rappresentanza politica, le sigle inventate alla vigilia del voto
restano progetti evanescenti. Il problema è perciò di agganciare la
proposta politica unitaria a un ventaglio con alcuni grandi temi che
mobilitano i soggetti. Se questa individuazione di poche ma
riconoscibili idee-forza manca, non si procede di un palmo nella
conquista del consenso. L’irrilevanza sarà una conseguenza scontata di
pure incollature di sigle con scarsa propensione al conflitto politico.
Due
grandi questioni oggi continuano a creare fratture nella società e
quindi a scatenare dissensi: la lotta alla precarietà, che il Jobs Act
ha istituzionalizzato come condizione umana permanente, e la battaglia
per una legge elettorale conforme alla costituzione, che il governo
allontana con nuove manipolazioni truffaldine. Su queste due grandi
cesure deve inserirsi la sinistra unita per cercare il suo spazio che in
potenza, malgrado l’insipienza tattica diffusa, è ancora consistente.
Questi
due assi programmatici invocano una coerente radicalità. Nulla è più
dannoso di un continuo distinguo lessicale che tende ad ammorbidire i
toni per paura di colpire nel segno. Se alle parole di rottura e
autonomia felicemente sfuggite di senno si affiancano suggestioni per il
gran ritorno a casa, il progetto crolla all’istante, perché minato da
una contraddizione insanabile. Non c’è più tempo per rinvii: quando
serve, bisogna graffiare. La chiarezza della proposta, e la risolutezza
nelle operazioni che la sorreggono, è la condizione per il successo.
Chiunque
comprende che una sinistra autonoma, per decollare come credibile
candidatura riconosciuta da una fetta di società, deve essere percepita
come divisiva. Staccare una delle sue componenti dal governo, è
un’operazione inevitabile, se si intende crescere nello spazio politico
affollato.
Esitare nel taglio con l’esecutivo equivale a perire
nella assoluta irrilevanza. Positive sono per questo le dimissioni di
Bubbico, le limpide parole di Speranza e D’Alema. Non si deve tornare
indietro rispetto all’abbandono della maggioranza. Se a marzo il Mdp
arriva come passiva componente del governo in carica, la lista unitaria è
spacciata.
Se si balbetta nel seguire la geometrica condotta
indispensabile per raccogliere i frutti di una radicalizzazione che ha
giustificato una scissione, si smarriscono energie vitali.
Incomprensibile,
per chi cerca l’autonomia, sarebbe rimanere ancora agli ordini del
governo che medita alchimie elettorali per sbarazzarsi degli sfidanti.
Bisogna essere divisivi, non ci sono alternative all’attacco frontale.
Persino
Berlusconi ha sfiorato un inopinato successo nel 2013 quando ha
differenziato, prima del letargo imposto dal generale inverno, le sue
sorti da quelle del governo Monti. Essere responsabili significa oggi
abbandonare il governo della precarietà e della manipolazione della
costituzione per condurre le battaglie che aspettano interpreti
credibili perché fortemente divisivi.
Il Fatto 6.10.17
Giudice sbagliato: il processo Cucchi slitta ancora
Nel collegio che giudicherà i carabinieri c’è una magistrata incompatibile
Giudice sbagliato: il processo Cucchi slitta ancora
di Valeria Pacelli
Il
rischio prescrizione incombe sul processo Cucchi. Il reato di calunnia
contestato a tre carabinieri si prescriverà tra un anno esatto, a
ottobre del 2018. È l’ennesimo intoppo sull’infinita vicenda giudiziaria
nata sulla morte di Stefano Cucchi, deceduto il 22 ottobre 2009
nell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dopo l’arresto per possesso di
droga. Sono passati otto anni dal giorno della morte del geometra e dopo
una prima inchiesta finita con una sfilza di assoluzioni definitive per
i medici, la fine sembra lontana. Con l’indagine bis, nata a settembre
del 2015, la Procura di Roma ha intanto messo sotto accusa per la prima
volta i carabinieri che arrestarono il giovane: in cinque sono stati
rinviati a giudizio.
La prima udienza fissata per il 13 ottobre,
però, rischia di slittare per incompatibilità del giudice designato dal
Tribunale, allungando così ancora i tempi, mentre alcuni dei reati
contestati sono già prescritti (come l’abuso di autorità contro
arrestati e detenuti) mentre per altri (la calunnia) manca poco. Restano
in piedi i reati più gravi, il falso in atto pubblico e l’omicidio
preterintenzionale, quest’ultimo contestato ad Alessio Di Bernardo,
Raffaele D’Alessandro e al vicebrigadiere Francesco Tedesco, che nel
2009 erano in servizio presso il Comando Stazione di Roma Appia. I tre
militari – secondo il pm Giuseppe Musarò – avrebbero colpito Stefano con
“calci, pugni e schiaffi” provocandone “una rovinosa caduta con impatto
al suolo in regione sacrale” cagionando lesioni “che, unitamente alla
condotta omissiva dei sanitari che lo avevano in cura al Pertini, ne
determinavano la morte”.
Tedesco è accusato anche di calunnia
perché come testimone davanti alla Corte d’Assise avrebbe dichiarato il
falso sugli agenti di polizia penitenziaria imputati sulla base della
prima inchiesta (poi sono stati tutti assolti in maniera definitiva). Lo
stesso reato – a rischio prescrizione – è contestato anche al
maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti a capo della stazione
Appia, dove venne eseguito l’arresto di Cucchi, e a Vincenzo Nicolardi.
L’udienza
del 13 ottobre potrebbe saltare per un meccanismo automatico del
Tribunale, che ha assegnato il processo alla III Corte d’Assise di
Rebibbia presieduta dal magistrato Evelina Canale. È già stata
presidente del collegio che nel primo processo Cucchi assolse gli agenti
di polizia penitenziaria e gli infermieri, condannando invece i medici
(poi assolti in appello). Per questo ieri l’avvocato Fabio Anselmo,
legale della famiglia Cucchi, ha presentato un’istanza al Tribunale,
sollevando la questione dell’incompatibilità. “Apprendo che l’udienza –
ha scritto Ilaria Cucchi su Facebook – non si terrà perché assegnata
alla stessa presidente, Evelina Canale, del primo processo la quale si
dovrà astenere con ulteriore slittamento di un dibattimento che avrebbe
dovuto iniziare otto anni fa”.
Per la Cucchi il problema è
l’intero sistema giudiziario: “Sembra che alla giustizia non interessi
nulla. È noto che i carabinieri imputati contano sulla prescrizione. Era
necessario far passare questi mesi senza fare nulla per sostituire il
giudice incompatibile? Ci sentiamo presi in giro”.
Che il processo
Cucchi, al di là dell’assegnazione a una nuova sezione, si preannunci
lungo è evidente pure dalle liste testi che contano circa 200 persone.
Non mancheranno i volti noti: il legale dei Cucchi vuole convocare in
aula l’ex ministro Ignazio La Russa per le affermazioni fatte in passato
in difesa dei carabinieri.
Il Fatto 6.10.17
Province al collasso, oggi lo sciopero dei 20mila dipendenti
“Evitiamo
il baratro. Siamo al collasso delle Province e delle Città
Metropolitane, servono risorse per consentire l’erogazione dei servizi
fondamentali ai cittadini e per tutelare i diritti dei lavoratori, a
partire dal pagamento degli stipendi”. Con queste motivazioni Fp Cgil,
Cisl Fp e Uil Fpl hanno chiamato per oggi allo sciopero gli oltre 20mila
dipendenti di Province e Città Metropolitane. A Roma, davanti a
Montecitorio ci sarà un sit-in a partire dalle 10 che vedrà la presenza
delle segreterie nazionali di Fp Cgil, Cisl Fp e Uil Fpl”. Secondo la
Cgil i diversi passaggi dalla legge Delrio a oggi hanno portato gli enti
al collasso causando “una migrazione forzata di oltre 16 mila
dipendenti verso altri enti, una riduzione di spesa pari a 4,3 miliardi
dal 2013 a oggi, con 38 province ordinarie in un pericoloso stato di
squilibrio economico, organici ridotti all’osso per il blocco del turn
over confermato anche per quest’anno”. Il recente decreto enti locali ha
stanziato un contributo “straordinario2 di 73 milioni per evitare il
dissesto delle 38 Province. Di queste, però, 6 non hanno ricevuto nulla
per errori di procedura, mentre altre 32 hanno ricevuto 72 milioni pur
registrando un fabbisogno complessivo di 207 milioni.
il manifesto 6.10.17
Catalogna: danni, opportunità e pericoli
Indipendenza.
Il settore che vuole continuare a promuovere la separazione ne è uscito
rafforzato, ma ora deve giocare le proprie carte con intelligenza e
senza avventurismi, per evitare che la tensione finisca per sfociare
nella socializzazione del conflitto ben oltre gli spazi istituzionali e
pubblici
di Joan Subirats
La data del referendum
del 1 ottobre in Catalogna è trascorsa. I danni sono importanti. Circa
novecento feriti per mano della polizia e della guardia civile che hanno
cercato di far fallire il referendum. Scuole e altri spazi elettorali
danneggiati nelle stesse circostanze. Danni significativi anche per la
credibilità del governo e la possibilità di dialogare con un Partito
popolare (Pp) che si chiude davanti a qualunque soluzione, salvo colpire
con il pretesto della legalità.
Quel che è certo è che il voto di
domenica, con tutti gli ostacoli subiti e con tutti gli incidenti
avvenuti, difficilmente può servire a far avanzare la proclamazione di
indipendenza prevista; più che di un processo elettorale con garanzie,
si è trattato di un trionfo della determinazione politica dei suoi
promotori e del movimento sociale che li sostiene.
In questi
momenti la coalizione sovranista costruita intorno alla difesa della
democrazia, alla risposta alla repressione e alla necessità di una
consultazione effettiva, può indebolirsi se cerca di bruciare le tappe
senza riflettere e senza tener conto della quantità di persone che non
sono mobilitate e che su quanto sta accadendo hanno opinioni
diversificate. Occorre essere coscienti del fatto che una pluralità di
posizioni politiche e di sentimenti esisteva in Catalogna prima del 1
ottobre e continua a esistere oggi.
È importante considerare che
la giornata di domenica 1 ottobre e lo sciopero generale di martedì
contro la repressione durante le operazioni di voto, non sono stati solo
l’espressione della volontà di votare sì o no all’indipendenza. Sono la
voce di una gran parte della società catalana che non vuole essere
assoggettata e che chiede rispetto. Una società che ha guadagnato
empowerment e che vuol essere soggetto, non oggetto delle decisioni
politiche altrui. L’emozione di costruire insieme, e di farlo con le
proprie forze e risorse, dal basso, è stata evidente. I corpi delle
persone di fronte alle armi della polizia. La preoccupazione, le cure e
le attenzioni che la gente si scambiava erano molto lontane dalle scene
delle normali elezioni. Anziani, bambini, donne erano oggetti di
attenzioni speciali. Si sono viste immagini più significative di quelle
cui siamo solitamente abituati con i politici ai seggi. E anche questo è
stato un elemento da sottolineare, del 1 ottobre.
Quali
cambiamenti ha prodotto la celebrazione di questo referendum? Il
problema che avevamo in Catalogna è diventato più evidente. Ormai è
impossibile prescinderne sia a livello dello Stato spagnolo che
dell’Unione europea, come dimostrano le reazioni di portavoce ufficiali
di vari governi, le prime pagine dei principali quotidiani di tutto il
mondo e il dibattito che si è svolto mercoledì al Parlamento europeo.
Il
settore che vuole continuare a promuovere la soluzione indipendentista
ne è uscito rafforzato, ma ora deve giocare le proprie carte con
intelligenza e senza avventurismi, per evitare che la tensione finisca
per sfociare nella socializzazione del conflitto ben oltre gli spazi
istituzionali e pubblici.
Occorre anche vedere se nell’insieme
della Spagna la capacità di mobilitazione inizia a crescere, per
affrontare l’immobilismo del Pp e dei suoi alleati, e per trovare
un’alternativa al regime del 1978 che ormai dà il peggio di sé. E in
questo contesto, il Partito socialista può avere un ruolo fondamentale,
malgrado la delusione prodotta dalle dichiarazioni del leader del Psoe
Pedro Sánchez nella notte di domenica, quando ha mostrato una grande
ambiguità. Le persone più sensibili all’espressione della volontà
popolare, hanno cominciato a generare divisioni tra i dirigenti
socialisti e tra chi è coinvolto più da vicino in ciò che succede, come i
sindaci e le sindache della Catalogna, manifestando opinioni molto
diverse da quelle di Sánchez.
L’intervento del re ha suscitato
molta delusione: egli si è semplicemente messo al servizio della
posizione del governo, rafforzandone l’atteggiamento legalista e
autoritario, e senza dimostrare alcuna empatia nei confronti dei feriti e
della popolazione colpita. La tattica del negare la realtà da parte del
Pp e dei suoi alleati ha portato a questo punto. Si tratta ora di
sapere se sarà possibile andare avanti mantenendo la forza
trasformatrice e ampia del movimento sociale in marcia, cercando
alleanze all’interno e all’esterno.
La dinamica azione-repressione
che si è innescata ha favorito l’appoggio sociale alle scelte
indipendentiste, ben oltre il loro ambito effettivo. Ma questa strategia
non può rimanere in piedi a lungo perché inizia a destare
preoccupazioni e un sentimento di insicurezza in molte persone, e può
finire nello sfociare in situazioni di tensione sociale – se ne sono
visti alcuni accenni.
Nei prossimi giorni un elemento chiave
potrebbe essere il concretizzarsi dell’opzione di mediazione e dialogo
proposta dalle sindache di Madrid, Manuela Carmena, e di Barcellona, Ada
Colau. L’accoglienza è stata un ottima accoglienza. Ma è preoccupante
la visione angusta e rigida del governo di Madrid il quale continua a
sostenere un intervento giudiziale punitivo, mentre l’Unione europea dal
canto suo che si è limitata a esprimere preoccupazione per la violenza e
insistere che si tratta di una questione interna spagnola. Sono
concezioni diverse della democrazia. Da un lato, quelli che pensano che è
democratico solo ciò che è legale, e che si fa politica solo nelle
istituzioni. Dall’altro, quelli per i quali la grande virtù della
democrazia è proprio la capacità di accettare il conflitto come leva per
l’innovazione e la trasformazione, se avviene in modo pacifico e con la
volontà e il coinvolgimento diretto della cittadinanza.
La Stampa 6.10.17
L’immobile Rajoy assediato dagli alleati
“Ora agisci o è la fine”
di F. Oli.
La
pressione aumenta man mano che arrivano i dispacci dalla provincia
ribelle: «Mariano fai qualcosa». Sono mesi che lo tirano per la giacca e
ora non c’è davvero un minuto da perdere: il parlamento della Catalogna
ha preparato (quasi) tutto per dichiarare l’indipendenza e bisogna
muoversi prima che la situazione precipiti ulteriormente. Re Filippo
d’altronde è stato chiaro nel suo messaggio alla nazione: in Catalogna
bisogna ripristinare l’ordine costituzionale. Detto dal capo delle forze
armate, è sembrato a tutti un messaggio al governo, un via libera per
gli interventi che si rendono necessari: sospensione parziale dei poteri
dell’autonomia catalana e accelerazione sulle inchieste della
magistratura, con tutte le conseguenze possibili, compreso l’arresto del
presidente (esistono già vari dossier su come portare a termine
l’eventuale operazione). Il dispiegamento di forze sul campo resta
poderoso: gli oltre diecimila agenti di polizia rimangono a presidiare
un territorio ormai sfuggito di mano. I rinforzi sono pronti: mercoledì
sono partiti dei sostegni logistici alla polizia da parte dell’esercito,
mentre ieri la ministra della Difesa, Maria Dolores de Cospedal,
costituzione alla mano, ricordava che «le forze armate hanno il compito
di garantire l’integrità territoriale del Paese». Ma il ministro degli
Esteri Dastis dice: «Non manderemo l’esercito».
Il premier però
non abbandona la prudenza, «l’immobilismo di Mariano» d’altrone è ormai
quasi una categoria della politica e intorno a lui cresce
l’insofferenza. Una successione non si intravede, almeno nel partito.
Anche se a destra in molti apprezzano, almeno per questa battaglia, i
movimenti di Albert Rivera, il giovane (e catalano) leader dei centristi
di Ciudadanos.
Ieri è stata l’ennesima giornata in cui, nella
capitale spagnola tutti aspettavano una mossa concreta, e invece dal
premier è arrivato un ulteriore, e probabilmente inutile appello:
«Fermatevi prima che arrivino mali maggiori». Ma, si nota nei settori
critici: «È la stessa frase, con le stesse parole che va ripetendo da
mesi senza alcun effetto».
L’ultimo a uscire allo scoperto è anche
il più autorevole, almeno tra gli elettori del Partito Popolare, José
Maria Aznar. L’ex premier ieri faceva pubblicare sul sito della sua
potente Fondazione Faes un comunicato secco con il premier, il cui senso
è: o fa qualcosa di concreto in Catalogna oppure si faccia da parte. La
soluzione più verosimile è chiamata semplicemente con un numero: 155,
ovvero l’articolo della costituzione che consentirebbe allo Stato di
scavalcare l’autorità locale per ristabilire la legge. Uno è il caso
concreto che tornerebbe utile: Madrid potrebbe prendere il comando dei
Mossos, la polizia catalana che domenica scorsa non ha eseguito gli
ordini, facilitando la celebrazione del referendum illegale.
A
Madrid esiste quello che il vicedirettore del quotidiano catalano «La
Vanguardia», Enric Juliana ha ribattezzato il «club del 155», un circolo
le cui fila si ingrossano di nuovi e potenti soci: politici di destra e
di centro (Ciudadanos), ministri, imprenditori, giornali (praticamente
senza eccezioni) e larga fetta dell’opinione pubblica spagnola. Ieri si è
aggiunta un’istituzione culturale come l’Accademia reale di Spagna, che
ha chiesto di far fronte immediatamente al secessionismo.
Nel
club però ancora non c’è Mariano Rajoy né Soraya Saenz de Santamaria, la
vicepresidente mente della campagna catalana, oggi indebolita dallo
sviluppo dei fatti. La linea del premier per ora non cambia: aspettare
la proclamazione dell’indipendenza, lunedì o quando sarà, per passare
all’azione un minuto dopo. Nel frattempo l’azione giudiziaria fa il
resto, portando avanti le molte inchieste aperte contro i secessionisti.
Ma il club del 155 lo assedia: «Fai qualcosa o la Spagna si spacca».
Corriere 6.10.17
Iglesias: con atti unilaterali diventeremo la Turchia
«Abbiamo
ancora pochi giorni per evitare il disastro e abbiamo il dovere di
provarci». Pablo Iglesias, tra i fondatori di Podemos di cui è
segretario, l’erede del movimento degli Indignati anti austerità, parla
al Corriere . «Potremmo vedere la Spagna trasformarsi in una Turchia
dentro la Ue».
di Andrea Nicastro
MADRID «Abbiamo
ancora pochi giorni per evitare il disastro e abbiamo il dovere di
provarci. Con la dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte
catalana e la prevedibile durissima reazione del governo centrale
potremmo vedere la Spagna trasformarsi in una Turchia dentro l’Ue. Ci
risveglieremmo con un governo come quello di Erdogan, che mostra una
parvenza di democrazia, ma che è di fatto autoritario e repressivo».
Pablo Iglesias è il codino ribelle della politica spagnola, l’erede del
movimento degli Indignati anti austerità. Alle elezioni del 2015 ha
mancato per un soffio lo storico sorpasso sui socialisti proprio perché,
secondo alcuni, aveva appoggiato il diritto a un referendum legale in
Catalogna inimicandosi l’elettorato della Spagna profonda. La sindaca di
Barcellona, Ada Colau, fa parte della sua galassia politica e come lei
anche a livello nazionale Podemos è a favore di un referendum legale per
la secessione dalla Spagna, ma non a una dichiarazione unilaterale di
indipendenza.
Iglesias, lei ha già provato a mediare, senza risultato.
«Non
è esatto. Mercoledì ho parlato ai due presidenti, lo spagnolo Rajoy e
il catalano Puigdemont. Assieme a molte altre forze ho proposto loro
almeno di sedersi per individuare un mediatore di comune fiducia.
Puigdemont mi ha inviato un messaggio su WhatsApp con una parte del
discorso che avrebbe fatto in tv: aperto ad ogni mediazione, ma avanti
verso l’indipendenza».
Poco, ma almeno qualcosa. E il premier Rajoy?
«Prima
mi ha ringraziato, ma dopo le dichiarazioni di Puigdemont ha ribadito
che la sua precondizione al dialogo è la rinuncia alla dichiarazione di
indipendenza».
I catalani però non intendono rinunciarci.
«Anch’io
lo penso, ma so anche per certo che a Barcellona sono consapevoli di
cosa comporti: non tanto e non solo l’articolo 155 della Costituzione
che permetterebbe di prendere il controllo della Generalitat, quanto
l’applicazione dell’articolo 116 che significa “stato di emergenza”:
sospensione delle libertà pubbliche che sono il fondamento della
democrazia».
Il coprifuoco nella città della movida?
«In
Catalogna l’85% della popolazione vuole votare. Significa metterli tutti
fuori legge. In politica si sa come cominciano le cose, ma non come
finiscono. Fino ad ora non c’è stato l’incidente irreparabile, ma se si
prosegue verso la distruzione dello Statuto di Catalogna e il conflitto
tra istituzioni, chi lo sa?».
Siamo alla vigilia di una nuova guerra civile?
«Non
immagino la Spagna come la Jugoslavia, ma se a Barcellona i
rappresentanti democraticamente eletti finiscono in cella è un dramma.
Non è fantapolitica. Il comandante dei Mossos d’Esquadra rischia 15 anni
per sedizione».
E la vostra mediazione?
«Stiamo mettendo
sul tavolo dei nomi all’altezza: ex presidenti, ecclesiastici,
impresari, figure internazionali. C’è convergenza su uno in particolare,
ma non voglio bruciarlo. I telefoni restano accesi. Per fortuna anche
la Chiesa cattolica sta lavorando sotto traccia, con il prestigio e la
discrezione che le è propria, ma sta lavorando».
È l’ultima spiaggia?
«C’è
anche la via della mozione di sfiducia a Rajoy. Se Pedro Sánchez del
Partito socialista volesse, i numeri per scalzare il premier ci sono.
Psoe, Podemos, nazionalisti catalani e baschi possono fare una
maggioranza di salute pubblica. Dipende solo da Sánchez. Penso sia
schiacciato tra la base che vorrebbe avvicinarsi a noi e la vecchia
guardia che punta su un governo di grande coalizione con il Pp».
La secessione si fermerebbe?
«Per
salvare la democrazia spagnola è necessario portare il Pp
all’opposizione. Hanno utilizzato il governo per proteggere i loro
politici corrotti e hanno utilizzato il conflitto catalano come cortina
di fumo, trasformando la politica in un derby tra Barça e Real Madrid.
La Catalogna vuole allontanarsi dal governo Rajoy, non dalla Spagna. Il
rapporto tra le élite madrilene e catalane ha funzionato per decenni
anche tra partiti conservatori. Persino la destra può capire la
pluralità della Spagna, ma quando il Pp si è convertito in una forza
marginale in Catalogna, il sistema ha perso coesione. E questi sono i
risultati».
C’è il re garante di unità.
«Il suo discorso di
martedì sera è stato un errore storico. Ha parlato da re del Partido
Popular e ha cominciato a smettere di essere il re di Spagna. Lo dico
come uno che considera che Felipe VI abbia molte più virtù di Juan
Carlos, ma con quel discorso ha legato il suo futuro al Pp. Un capo di
Stato non eletto deve tenere un ruolo indipendente o almeno parlare a
tutti».
Gliel’ha detto in faccia?
«No, perché non mi ha
chiamato. Suo padre telefonava ai nazionalisti baschi, lui no. Suo padre
telefonava ai comunisti che avevano un terzo dei nostri voti, lui no.
Avrebbe dovuto chiamare Puigdemont, la sindaca Colau, non l’ha fatto ed è
un ulteriore segno di debolezza da parte di Rajoy. I giocatori di
scacchi lo sanno molto bene, quando devi muovere il re vuol dire che
stai perdendo la partita».
(Ha collaborato Belen Campos Sanchez)
Corriere 6.10.17
La crisi catalana rivela un’europa in ostaggio degli Stati-nazione
di Donatella Di Cesare
Si
può forse comprendere l’imbarazzo degli altri Stati europei verso quel
che accade in Spagna, nella cui possibile implosione leggono i presagi
di un pericolo che incombe anche sul loro futuro. Più difficile è
accettare invece quel silenzio dell’Unione Europea divenuto poi difesa
esplicita dello «Stato di diritto». Questa difesa vuol dire nei fatti
sostegno allo Stato spagnolo, senza aperture (a parte la denuncia delle
violenze) alle rivendicazioni del popolo catalano. Ma non si auspicava
la creazione, con l’Europa, di una nuova forma politica post-nazionale?
Rinunciando a svolgere un ruolo attivo di mediazione, in un frangente
così drammatico, l’Ue sembra confermare, con la sua posizione, di essere
il custode rigido degli Stati-nazione. Nulla di più. Il che non può non
deludere profondamente i cittadini europei. E a proposito di
cittadinanza: non si sperava forse, dopo tutti i disastri del secolo
scorso, che si potesse essere «cittadini europei» senza appartenere
necessariamente a uno Stato-nazione? I catalani sarebbero allora
cittadini europei anche se non dovessero più essere cittadini spagnoli.
Altrimenti dovremmo pensare che il passaporto europeo non sia che un
duplicato di quello nazionale. Al contrario di quel che credono i
sovranisti, il limite dell’Europa non è quello di aver messo in
questione la sovranità dei singoli Stati-nazione, bensì di non essere
riuscita a scardinare dal fondo questa vecchia finzione, da tempo in
crisi, più esangue che mai e perciò tanto più avvinghiata al potere.
L’Europa è rimasta ostaggio delle nazioni. La crisi catalana, che non
può essere ridotta allo scontro simmetrico fra due nazionalismi – già
solo perché da una parte c’è un apparato statale – porta alla luce,
oltre alla deleteria finzione dello Stato-nazione, che ovunque minaccia
di implodere, l’incapacità dell’Europa di costruire forme nuove di
cittadinanza e di coabitazione. E non è difficile prevedere che altre
crisi simili si ripeteranno e finiranno per pregiudicare, se non ci sarà
un’altra politica, il precario equilibrio europeo.
Il Fatto 6.10.17
1968, la rivoluzione è diventata un cold case
A
distanza - A Valle Giulia c’erano tutti, ma 50 anni dopo, cosa (e chi) è
rimasto del movimento che avrebbe dovuto cambiare il Paese?
di Mario Portanova
Immaginate
una giornata di scontri di piazza durissimi: botte, sassi, molotov,
almeno 400 feriti. Al posto dei black bloc, però, ci sono Giuliano
Ferrara, Paolo Liguori, Paolo Mieli, Ernesto Galli della Loggia, Paolo
Flores d’Arcais, Claudio Petruccioli, Bernardo Bertolucci, Massimiliano
Fuksas… E sul fronte opposto, sotto il casco da “celerino”, Michele
Placido. Sono solo alcuni dei futuri famosi che il primo marzo 1968
presero parte alla battaglia di Valle Giulia, quella che poi Pasolini
eternò nei versi sui poliziotti figli del popolo, schierandosi contro
gli studenti “borghesi”. Versi periodicamente riesumati, da destra e non
solo, quando volano manganellate. Alcuni di quei famosi ricostruiscono,
mezzo secolo dopo, quella giornata storica in un’inchiesta di Fq
MillenniuM, il mensile del Fatto diretto da Peter Gomez, da domani in
edicola con un numero largamente dedicato al ’68. “Mi ricordo un
dibattito piuttosto divertente sulle azioni da compiere: qualcuno
propose di cominciare a lanciare i sassi, ma poi si disse che i sassi ce
li avrebbero rilanciati. Allora si decise per le uova, perché una volta
lanciate non potevano tornare indietro”, ricorda per esempio l’odierna
archistar Fuksas.
Fq MillenniuM approfondisce un aspetto
dimenticato: la presenza a Valle Giulia di gruppi di fascisti
(capitanati da un altro famoso, il leader di Avanguardia nazionale
Stefano Delle Chiaie) che si diedero parecchio da fare nelle azioni più
violente (sulle prove tecniche di strategia della tensione dei “neri”,
Fq MillenniuM pubblica un’inchiesta di Gianni Barbacetto). E Pasolini? A
parte che nessuno ricorda il brano di quella stessa poesia in cui
l’intellettuale chiarisce “siamo ovviamente d’accordo contro
l’istituzione della polizia”, la sua presa di posizione divide ancora
oggi. “Inopportuna”, secondo Lanfranco Pace, oggi giornalista, allora in
piazza a Roma e poi fra i leader di Potere operaio. “La distanza tra
molti degli studenti e quei poliziotti era palese”, afferma invece Galli
della Loggia, oggi commentatore del Corriere della Sera. “I volti degli
uomini in divisa erano davvero volti di contadini”. Per Liguori, che
poi andò in Lotta Continua e oggi dirige Tgcom24, fu invece “una
risposta viscerale di un intellettuale che ci voleva bene”. “E quanto
son cambiato allora”, canta Francesco Guccini in Eskimo. Il grande
cantautore e scrittore scrive per Fq MillenniuM un testo che dal suo ’68
arriva ai giorni nostri: “Non feci mai parte di nessun gruppetto o
movimento”, rievoca. “Ho un ricordo lontano di un sentimento di sospetto
verso il Partito comunista. Del resto nutrivo una certa simpatia, anche
se un po’ superficiale, per alcune frange anarchiche”. Il ’68 italiano
esplode in realtà il 27 novembre 1967, con l’occupazione di palazzo
Campana a Torino. Fq MillenniuM torna sul luogo del “delitto” con lo
storico Giovanni De Luna, a riscoprire vecchie scritte preservate dalle
ristrutturazioni (“Il potere politico sta nelle canne dei fucili”, Mao
Tse-tung) e a rivivere il clima di quegli anni. A partire dal baronaggio
spietato (oggi tutt’altro che scomparso, dicono le cronache), come
quello di un grande italianista che agli esami faceva indossare le
pattine per non rovinare il parquet e ti bocciava se incespicavi.
Ha
senso rivangare il ’68, oggi, quando i suoi protagonisti sono per lo
più incanutiti, imborghesiti, accomodati? Fq MillenniuM cerca di
raccontare, come si fa con un cold case, un momento storico che ha
scosso il mondo. E di sgomberare il campo dalle opposte retoriche che,
come spesso succede, annebbiano i fatti.
La Stampa 6.10.17
L’altra faccia dell’intelligenza
“Non solo una debolezza, ma un’abilità sociale”
Gli studiosi: così il pettegolezzo ci ha fatto evolvere
di Maria Corbi
Roma
Il pettegolezzo salverà il mondo? Forse no, ma ha reso l’uomo
«intelligente». La pratica più diffusa e nello stesso tempo disprezzata
dell’umanità interessa da tempo gli studiosi della mente, che sono
d’accordo ormai sul fatto che sia un’abilità sociale evoluta e che non
si possa liquidare come una debolezza dell’animo umano. Anzi, secondo lo
psicologo evoluzionista Robin Dunbar, il gossip è stata la forza della
nostra specie.
L’intelligenza dei primi uomini si sarebbe
sviluppata attraverso i racconti intorno al fuoco che coinvolgevano le
persone della tribù, in parte veri e in parte falsi. Ossia gossip. E
adesso esce una nuova ricerca dall’Università di Ottawa che conferma: il
pettegolezzo è un’abilità sociale altamente evoluta e una tattica di
concorrenza intrasessuale. Lo studio ha coinvolto 290 studenti
eterosessuali di età compresa tra i 17 ei 30 anni, che hanno compilato
tre questionari. Il primo ha misurato la competizione tra persone dello
stesso sesso, con particolare attenzione a quella «amorosa». Gli altri
questionari hanno misurato, invece, la tendenza dei partecipanti a fare
pettegolezzi su altri, il valore sociale percepito dei pettegolezzi e il
giudizio sull’attitudine a parlare degli altri dietro le spalle.
Il
risultato confermerebbe uno «stereotipo» odioso, ossia che le donne
sono più inclini all’arte del «taglia e cuci», anche se per una finalità
«sociale» e non semplicemente ludica. Concentrandosi sulle
caratteristiche fisiche delle loro «competitor», mentre i maschi tra
loro «sparlano» dei risultati ottenuti dal rivali, riguardo l’aspetto
fisico e i risultati professionali. Insomma, oggetto del pettegolezzo
sarebbero «le armi» non tanto segrete con cui per millenni si è
combattuta la guerra della seduzione: la bellezza delle donne e il
potere degli uomini. Adam Davis, che ha condotto lo studio canadese non
ha dubbi: «I risultati dimostrano che i pettegolezzi sono intimamente
legati alla concorrenza sentimentale e non sono perciò da liquidare come
il prodotto di uno stereotipo femminile di genere da biasimare o un
difetto di carattere».
«L’etimologia della parola «pettegolezzo»
spiegherebbe la nascita di questa abitudine universale e sicuramente
seccante per chi ne è oggetto (su questo gli studi non possono fare
grandi «revisioni»). Deriverebbe dal termine «pithecus», scimmia. Il che
confermerebbe la teoria di Dunbar che associa le «chiacchiere» al
«grooming» dei primati. Le scimmie, spulciandosi reciprocamente,
riescono a mantenere le relazioni con la loro cerchia (una cinquantina
di individui). Mentre l’uomo moderno per ottenere lo stesso risultato
rispetto a cerchie molto più vaste (circa 160 individui) farebbe le
«pulci» con il pettegolezzo, una sorta di collante sociale.
Tutto
giusto, per carità, ma vallo a spiegare alle vittime del «bullismo
pettegolo», soprattutto adolescenti, che ogni giorno soffrono per questa
pratica «altamente evoluta». Eppure la rivalutazione del gossip dilaga.
Secondo Kathryn Waddington, a capo del dipartimento di psicologia
dell’Università di Westminster, per esempio, nel mondo del lavoro il
gossip sarebbe fondamentale: una strategia di creazione di consenso, un
modo di comunicare e gestire le emozioni, un meccanismo per fronteggiare
l’incertezza e un mezzo di sabotaggio e resistenza. Una rivoluzione
rispetto all’etica protestante, secondo cui chi lavora non ha tempo di
fare chiacchiere.
Il gossip come l’altra faccia
dell’intelligenza, dunque, almeno quella evolutiva. La cui potenza,
però, può fare danni irreparabili. E non ci voleva la scienza per capire
che spesso le «voci» rimangono cucite addosso per sempre. Ma in ogni
caso un gruppo di ricercatori del Max-Planck-Institut per la biologia
evolutiva a Plön, in Germania, hanno confermato la «forza» del
pettegolezzo che riesce a condizionare i comportamenti di chi ne è a
conoscenza, anche quando ha accesso all’informazione corretta e
all’origine della diceria. Citando liberamente Mark Twain: un
pettegolezzo fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo, mentre la verità
si sta ancora mettendo le scarpe.
Corriere 6.10.17
L’editore pugile voleva donare 200 mila libri. Tutti al macero
Napoli, i volumi di Tullio Pironti distrutti dal Comune che li ospitava
di Fulvio Bufi
NAPOLI
Un editore, un presidente di municipalità e duecentomila libri andati
al macero. Perché erano «ospitati» in un deposito comunale, e però quel
luogo ora serviva ad altro, ad accogliere biciclette elettriche. E tra
mobilità ecosostenibile e cultura è stata preferita la prima. Non
dall’editore, ovviamente: dal presidente di municipalità.
Raccontata
ieri dal Mattino , questa storia avviene nel pieno centro di Napoli:
piazza Dante, con i decumani alle spalle e via Toledo davanti, lunga e
dritta fino a piazza del Plebiscito. Insomma, più Napoli di così non si
può.
Ed è un simbolo di Napoli anche uno dei protagonisti,
l’editore: Tullio Pironti, ottant’anni portati da metterci la firma, un
passato da pugile, un Nobel (Nagib Mahfuz) e migliaia di scrittori in
catalogo, una grande amicizia con Fernanda Pivano, e un’onorificenza
conferitagli dal sindaco de Magistris proprio in occasione
dell’ottantesimo compleanno.
L’altro protagonista, Francesco
Chirico, ha certamente un curriculum di altra natura — è un politico e
anche abbastanza giovane — ma presiedendo la seconda municipalità, tra
l’altro una delle più importanti, è a pieno titolo un rappresentante
delle istituzioni.
Tra i due non c’è polemica, non ci sono scontri
verbali. Chirico dice: «Io a Tullio voglio un gran bene», ma comunque
difende la sua scelta. E Pironti, che è uomo anche di profonda ironia,
reagisce regalando all’altro la sua autobiografia, che si intitola non a
caso Libri e cazzotti . Però chiarisce: «Nessun sottinteso, questo è un
regalo pacifico».
E di libri lui avrebbe voluto regalarne molti
di più e a qualsiasi napoletano o turista presente in città. Diciamo che
ne avrebbe regalati anche duecentomila, proprio quelli che grazie
all’ospitalità offertagli direttamente dal sindaco, aveva accatastato
nel deposito ora destinato ad accogliere bici elettriche. Quell’infinità
di pacchi di volumi incellofanati avrebbe voluto riportarli in piazza
Dante, farne una montagna e lasciare che chiunque passasse ne prendesse
qualcuno. Aveva fatto qualcosa del genere anche il giorno del suo
compleanno, e aveva distribuito così circa duemila libri.
Ma
spostarne duecentomila era molto più complicato, e l’appuntamento con la
grande montagna di carta e cultura alla fine non era stato mai fissato.
«Noi lo avevamo avvertito che quei libri si stavano danneggiando e che
se non li avesse recuperati saremmo stati costretti a mandarli al
macero», spiega Chirico. E aggiunge: «Purtroppo Pironti l’evento in cui
intendeva distribuire i volumi non è riuscito a organizzarlo ed è
arrivato un momento in cui abbiamo dovuto procedere allo sgombero del
deposito». Sono arrivati i camion dell’Asia (l’azienda che cura a Napoli
lo smaltimento dei rifiuti), è stato utilizzato un muletto, e pacco
dopo pacco quel grande spazio che nel secolo scorso fu rifugio in tempo
di guerra e poi sala cinematografica, è tornato a essere un posto vuoto.
In attesa di accogliere bici elettriche che però, per adesso ancora non
si vedono.
Forse prima o poi arriveranno davvero. E forse prima o
poi si farà davvero anche la montagna di libri in piazza Dante. Perché
Pironti ha ancora migliaia di volumi sparsi in diversi depositi, e il
progetto di regalarli a chiunque li voglia non lo ha affatto
abbandonato. Certo, quei duecentomila lì a pochi metri dal centro della
piazza non ci sono più, e quindi sarà un po’ più complicato organizzarsi
per il trasporto, ma «se de Magistris riuscisse a darmi una mano, io la
montagna di libri vorrei proprio riuscire a farla». Ed è facile che ci
riesca. Perché di arrendersi non gli è mai capitato nella vita e certo
non comincerà a ottanta anni.