il manifesto 28.0.17
Weinstein, le donne abusate e l’hybris
Verità nascoste. La rubrica settimanale a cura di Sarantis Thanopulos
di Sarantis Thanopulos
Delle
violenze sessuali che il potente produttore cinematografico Weinstein
ha compiuto su decine di attrici o aspiranti tali, tanti sapevano,
tantissimi sospettavano e tutti, comprese le vittime, hanno lungamente
taciuto. È, peraltro, opinione diffusa che nel mondo dello spettacolo i
ricatti/baratti erotici non siano l’eccezione.
Uomini
spregiudicati, donne spregiudicate, fascino del potere, attrazioni
fisiologiche tra coloro che lavorano insieme in un ambiente sessualmente
più emancipato e/o più promiscuo? Domande fuorvianti.
Weinstein
ha potuto operare indisturbato, finendo nella polvere solo per
quell’eccesso di onnipotenza che aumenta la probabilità degli incidenti
di percorso, perché, che lo si voglia o no e a dispetto della nostra
cultura di emancipazione, il corpo erotico della donna – la sua libertà
sessuale che non è promiscuità, ma capacità di andare in profondità –
preoccupa molto.
Usarlo in modo strumentale, per appiattire la sua
espressione sul bisogno di sbarazzarsi del proprio desiderio erotico
come se fosse urina di cui liberarsi, è rassicurante. Va nella stessa
direzione dell’omeostatica società attuale.
Nel suo agire abusante
Weinstein è segnato dall’impotenza erotica (da non confondere con
quella erettile): l’incapacità di accedere a una vera relazione di
scambio, di farsi coinvolgere e coinvolgere. Tratta il suo oggetto come
manichino inerte, lui stesso automa del sesso autoerotico.
La sua
sessualità è affetta di inconfessabile necrofilia. La violenza, fisica e
psichica che ripetutamente ha messo in atto, ha trovato il suo apice
più odioso nell’imposizione di un meccanismo spersonalizzante, di cui
anch’egli è vittima, mirante all’animazione artificiale, alienante, di
corpi morti nella loro materia desiderante.
La complicità
possibile di alcune delle donne abusate, non assolve lui e non condanna
loro. Essa non alleggerisce, ma aggrava le conseguenze del suo operato.
L’abuso su donne inconsapevolmente complici è facilitato dal fatto che
esse non sono in grado, a causa di un loro danno pregresso, di
riconoscerlo come tale. Così l’azione devastante non trova un argine.
Amplia il danno, consolidandolo, e conferma il timore che sia
irreparabile.
È un oggetto possibile di complicità l’esperienza
comune di una madre gravemente ferita nella sua femminilità che
aborrisce la sessualità. Questa madre insegue inconsciamente la fantasia
della prostituzione: la scena di un amplesso che sostituisce il
godimento con l’eccitazione legata al controllo e alla manipolazione.
L’uomo vede nella donna di cui abusa la propria madre dominatrice
finalmente sottomessa al suo capriccio. La donna si identifica con la
madre e tratta il suo aggressore come bambino da eccitare e calmare,
oggetto di suo dominio.
Il suo dramma è che il tessuto vivo della
sua femminilità è in questo modo gravemente infiltrato da un principio
di anestesia sessuale. Una parte di lei vorrebbe denunciare la violenza
esterna, ignara di ospitarla internamente, e un’altra vede in essa, con
disperazione, un fattore di stabilità. Quando la condanniamo, a nostra
volta ignoriamo di accusarla di non essere la madre asessuata, virginale
che lei, in realtà, a un prezzo molto caro, si sforza di imitare.
Nessun giudizio nostro, inevitabilmente fallace, nei confronti delle donne abusate può essere un’attenuante per Weinstein.
Egli
deve essere severamente punito perché ha commesso un’hybris. Il delitto
nella sua più chiara punibilità: calpestare per autoreferenzialità il
desiderio delle donne abusate. Nella misura in cui ha ottenuto la loro
complicità, il danno e il reato sono più gravi.