il manifesto 1.10.17
Catalogna, dove saremo domani?
di Ramon Luque
Per
cercare di capire che cosa sta succedendo in Catalogna occorre guardare
oltre la cronaca di questi giorni. Non si tratta di andare indietro
nella storia per spiegare che il popolo della Catalogna rivendica da
molto tempo la propria realtà nazionale. Voglio riferirmi al presente e
al passato prossimo. Che cosa è successo negli ultimi tempi in
Catalogna? In sintesi si sono incrociati tre elementi: la profonda crisi
economica che colpisce la Spagna dal 2008 e che ha avuto, sulla
mobilitazione cittadina dei catalani, un impatto determinante; una grave
crisi della politica e del sistema costituzionale spagnolo nato nel
1978; e infine una crisi istituzionale, senza precedenti in 40 anni di
democrazia, fra i governi e le istituzioni di Spagna e Catalogna. Un
cocktail esplosivo che non poteva che sfociare nella situazione
incandescente di questi giorni. La crisi economica ha spinto nelle
strade di Catalogna, a rivendicare diritti democratici di base,
centinaia di migliaia di persone che non sono necessariamente
indipendentiste, ma che vogliono decidere democraticamente sui temi che
le riguardano. Azione di empowerment popolare non reversibile.
Rivendicazioni nazionali e lotta per i diritti sociali si sono
intrecciate strettamente.
D’altro canto, il governo del Partito
popolare (Pp) di Mariano Rajoy persegue una politica di involuzione
democratica che sta scavando un fossato non solo fra destre e sinistre,
ma anche fra reazionari e democratici. E infine ci sono stati l’errore
politico di Junts pel Sí (Uniti per il sì), la coalizione che governa la
Catalogna, di orientarsi verso l’indipendenza unilaterale, senza
l’appoggio maggioritario della popolazione, e la reazione autoritaria di
Rajoy che ne è derivata. Le due cose hanno portato al maggiore scontro
istituzionale dai tempi del ritorno alla democrazia.
Due errori
politici che pagheremo cari: perché non c’è governo che possa imporsi ai
catalani nella loro aspirazione a decidere del proprio futuro e perché
l’indipendenza unilaterale non è un orizzonte che in Catalogna abbia
un’ampia maggioranza democratica; dunque la divisione non è solo fra
Catalogna e Spagna, ma anche fra catalani.
Ecco le correnti di
fondo del conflitto. Ma ovviamente la politica, la piccola politica in
realtà, ha giocato le proprie odiose carte. Di fronte a centinaia di
migliaia di persone che si mobilitano ininterrottamente dal 2012 in modo
pacifico, per esigere in primo luogo il diritto a decidere e poi
direttamente l’indipendenza, alcuni petits politiciens (in primis Artur
Más, presidente della Generalitat) hanno cercato di trasformare la
propria maggioranza precaria in maggioranza parlamentare assoluta,
convocando elezioni e adottando la tattica di nascondere dietro una
bandiera la corruzione del partito; tutto ciò senza ottenere alcun
risultato, se non la radicalizzazione del processo. Sull’altro lato c’è
Mariano Rajoy, che ha sistematicamente rifiutato l’apertura di canali di
dialogo con il governo catalano. Ha lasciato marcire la situazione
alimentando un nazionalismo spagnolo rancido e cavernicolo, con
l’obiettivo di consolidare il proprio consenso elettorale e mantenere in
stato di crisi costante il Partito socialista (Psoe). Un
irresponsabile? No. Un piromane reazionario.
Ma ora siamo dove
siamo. La Catalogna ha smesso di essere un tema catalano. C’è un prima e
un dopo il 1 ottobre. La Catalogna ormai non può più essere cancellata
dall’agenda politica spagnola, anzi – forse – da quella europea. Usciamo
da un «processo» ed entriamo in uno scenario politico nuovo. Il grande
dibattito che si intravede sarà fra rottura o ripresa della democrazia,
in Catalogna quanto in Spagna. L’aspirazione a una Repubblica catalana
si collegherà all’aspirazione democratica dei popoli di Spagna che
vorranno lasciarsi alle spalle il regime del 1978, che ha avuto nel
bipartitismo spagnolo la massima espressione.
Probabilmente il 1
ottobre non vincerà nessuno. Sarà il perfetto «catastrofico pareggio»
(Gramsci). Quello che delinea una crisi: la quale consiste proprio nel
fatto che il vecchio muore e il nuovo non riesce a nascere.
Dunque,
che cosa accadrà? Prima di tutto occorre sperare che le mobilitazioni
siano democratiche e pacifiche come è sempre stato in Catalogna. E a
partire da questo, che arrivi il tempo della Politica, del dialogo,
della democrazia. Sono percepibili alcuni movimenti in questo senso.
Domenica scorsa, a Zaragoza, forze politiche che divergono su molti
punti – convocate da Unidos Podemos – hanno firmato la Dichiarazione di
Zaragoza, che sarà un elemento decisivo nel futuro della politica
spagnola. Vi si affermano tre punti che inevitabilmente finiranno per
imporsi: l’impegno democratico al dialogo come unica strada per
risolvere i conflitti; l’avvio del dialogo diretto fra il Govern de la
Generalitat e il governo di Spagna; la fine delle misure di emergenza
repressive da parte di Rajoy. Tutto questo con l’obiettivo che le
catalane e i catalani possano esprimersi liberamente alle urne. Quando
lo faranno, i legami di fraternità fra i popoli della Spagna si
imporranno nei confronti di chi vuole la separazione, e i veri
separatisti (il Pp e Rajoy) saranno sconfitti.
La politica della
Dichiarazione di Zaragoza diventerà maggioritaria, in Catalogna e presso
strati molto ampi della popolazione spagnola. È una scommessa per il
futuro. Noi di Catalunya en Común ci impegniamo in tal senso. Il popolo
catalano, maturo, democratico e politicamente responsabile, e le sue
formazioni politiche, sapranno trovare la strada.
Prima o poi la
Catalogna voterà democraticamente in un referendum riconosciuto, con
tutte le garanzie istituzionali e dal carattere vincolante. A questo
scopo avremo bisogno di politici di maggiore spessore. Il futuro non
avrà come protagonisti né Puigdemont né Rajoy. E nessuno ne sentirà la
mancanza.
(*) Segretario per l’Europa di Esquerra unida i
alternativa (Euia) e della Commissione esecutiva per Partito della
sinistra europea