il manifesto 18.10.17
«La scelta di Edith», la guarigione dopo Auschwitz
La storia di una psicologa sopravvissuta ai lager che racconta la propria esperienza traumatica ma aperta alla resilienza
di Lia Tagliacozzo
Edith
Eva Eger aveva 17 anni quando è stata catturata dai nazisti insieme
alla sua famiglia e agli altri ebrei della sua città nella primavera del
’44. Ora un libro – La scelta di Edith (Il Corbaccio, pp. 351, euro
18,60) – ne racconta la storia dall’infanzia ad oggi. La vita l’ha
condotta da Kosice in Cecoslovacchia, ad Auschwitz, a Mauthausen, poi la
«marcia della morte» da Mauthausen a Gunchenskir e, dopo la
liberazione, di nuovo in Cecoslovacchia, in Ungheria, in Austria, per
approdare in varie città degli Stati Uniti e fermarsi, a oltre 90 anni, a
La Jolla, in California. È negli Usa che farà la fame, lavorerà in
fabbrica e, a 42 anni, conseguirà la laurea in psicologia. Da allora, da
quel giorno di maggio del 1969, farà la psicologa, scrivendo e
lavorando sul trauma, e sullo stress post traumatico. Il libro narra un
percorso reciproco, quello tra pazienti e dottoressa nel corso di lunghi
anni: nella misura in cui lei aiuterà i suoi pazienti a guarire, loro
segneranno le tappe di una guarigione possibile.
La scelta di
Edith è un bel libro – a scriverlo, con Eger, è Esmé Schwall Weigand –
la parte dedicata alla deportazione e alla tragica esperienza dei campi
di sterminio sono pagine drammatiche, ma non è nel campo della
memorialistica che il volume desta maggior interesse. Da tempo, gli
studi sulla Shoah indicano la necessità «nelle storie di vita» di
prendere in considerazione non solo il periodo della guerra e della
deportazione ma anche il periodo precedente e successivo, eppure La
scelta di Edith non è nemmeno un libro di storia, è il racconto di come
sia possibile vivere «dopo»: vi si narra infatti di una sorta di
psicologia della libertà. «La memoria – scrive Eger – è un sacro suolo.
Ma anche infestato di fantasmi. È il posto dove la mia collera, il senso
di colpa e il dolore girano in tondo come uccelli affamati rovistando
tra le solite vecchie ossa. È il luogo dove vado in cerca della risposta
alla domanda alla quale non si può rispondere: ’Perché sono
sopravvissuta?’». Domande e tentativi di risposta che non tracciano un
percorso lineare, ma nessuna guarigione lo è: «Entrambe – scrive Eger
riferendosi a due pazienti – erano potenzialmente in grado di guarire.
Avevano la possibilità di scegliere azioni e atteggiamenti che le
avrebbero trasformate da vittime in sopravvissute anche se le
circostanze con le quali avevano a che fare non fossero cambiate. I
sopravvissuti non hanno tempo di domandare ’Perché proprio a me?’.
L’unica domanda rilevante è ’E adesso?’».
La chiave è nel solco
della logoterapia, filone della psicoterapia fondato da Viktor E. Frank,
viennese, anche lui prigioniero nei campi di sterminio nazisti. Un
approccio positivo che ha radici nella vita di Edith. È ancora ad
Auschwitz quando, dopo aver sfiorato la morte, riflette: «Non so cosa
succederà dopo. Nel frattempo posso sentirmi viva dentro. Oggi sono
sopravvissuta. Domani sarò libera». La ricerca della libertà dal dolore e
dal trauma è il filo conduttore del volume. Resta qualche perplessità –
in particolare per ciò che riguarda il difficile tema del perdono – ma
l’inquietudine che suscita la lettura può essere un buon viatico.